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    Alcune riflessioni educative e pastorali (su «L'abbandono religioso nell'adolescenza»)



    (NPG 1985-10-28)



    Le analisi precedenti sollevano molti problemi, in quanto vengono a toccare più o meno tutti i nodi dell'educazione alla fede delle nuove generazioni.

    Sviluppare un discorso educativo può essere, a questo punto, pericoloso. O si fa un discorso articolato o si rischia di lasciare le cose a metà.
    Non vogliamo impegnarci in una riflessione articolata. Per mancanza di spazio, perché offerta già in altre occasioni sulla rivista, perché soprattutto volevamo offrire al lettore un momento di «ascolto» e problematizzazione di una precisa situazione, quella degli adolescenti che abbandonano la fede. Ci limitiamo dunque, con tutti i rischi che ciò comporta, ad alcune riflessioni educative «sparse». Per lo più nella direzione di quanti si occupano degli adolescenti e non dei fanciulli e degli stessi preadolescenti, come catechisti e animatori di gruppo. Una riflessione a parte andrebbe fatta anche per la famiglia e per il ruolo dei genitori nell'esperienza religiosa dei lori figli.
    Dalle interviste, che del resto confermano altre analisi e studi, emerge che l'età cruciale per la scelta di credere o meno è l'età compresa tra i quindici e i diciotto anni. In quegli anni l'adolescente è impegnato a una ristrutturazione completa della sua personalità, alla luce dei nuovi bisogni intrapsichici e relazionali, e alla luce delle informazioni e della capacità critica negli anni precedenti.
    La ristrutturazione sembra guidata da un unico fondamentale criterio: la personalizzazione. Da tutto quello che è stato assimilato fino a quel momento, si prendono le distanze e si comincia da capo la costruzione di se stessi. I materiali precedenti vengono riutilizzati in quanto sono più o meno capaci di «servire» alla nuova costruzione, cioè se utili per darsi un volto personale. Vengono rinegoziati tutti i rapporti con le persone, gli ambienti, le proposte di vita. Quello che «soggettivamente» è giudicato utile viene preso; il resto, a fatica in alcuni e serenamente in altri, viene scartato ed emarginato.
    In questo processo entra la stessa proposta di fede, sia nella sua formulazione astratta che nelle sue dimensioni più pratiche, etiche, operative e organizzative.
    Si impone una riflessione educativa: come accompagnare l'adolescente in questo processo di ristrutturazione della personalità e come fare in modo che egli «riscopra» uno spazio per l'esperienza religiosa nella sua costruzione?
    Ecco alcune riflessioni su alcuni nodi problematici.

    LA PROPOSTA RELIGIOSA È VALUTATA ANZITUTTO SUL PIANO ETICO

    Pur non mancando problemi di dubbio religioso e di conflitto tra conoscenze scientifiche e visione religiosa della vita, le perplessità e critiche degli adolescenti intervistati non riguardano la fede nella sua oggettività e nella sua astrattezza esistenziale, come neppure nella sua capacità di mettere in comunione con Dio.
    Gli adolescenti non si soffermano su questi elementi, peraltro decisivi per il credente. La loro critica riguarda il modo di vivere dei credenti, l'atteggiamento verso la realtà e la capacità di assumerla in modo responsabile, l'incoerenza tra quanto si dice e si prega e quanto invece si fa davvero.
    Ciò che è in gioco è anzitutto la morale della chiesa. A due livelli. Innanzitutto gli intervistati criticano, come si accennava, lo stile di vita quotidiana dei credenti: è appiattito, non sa di niente di grande, non fa soffrire i problemi della vita, non esorta alla lotta.
    Ma gli intervistati sono in crisi anche, e soprattutto, su grandi problematiche etiche, riassumibili attorno alla valorizzazione e al rispetto della coscienza e delle scelte etiche personali.
    A loro sembra che la chiesa non rispetti a sufficienza le persone. Lo dicono raccontando la loro vita, con le manipolazioni più o meno sottili subite nella fanciullezza, ma anche agli inizi dell'adolescenza. Ma lo dicono anche dichiarando la loro sofferenza rispetto all'uso della sessualità, agli anticoncezionali e allo stesso aborto.
    Il conflitto morale, sia quello relativo al vivere quotidiano dei credenti che quello relativo ai grandi problemi ora accennati, viene a creare una distanza incolmabile che impedisce agli adolescenti di ritrovarsi con la chiesa «almeno» al livello di comunione esperienziale, incontro esplicito con Dio e confronto con il vangelo (anche se non con la chiesa), affermazione che nonostante tutto la vita ha un senso.

    LA DOMANDA Dl VITA NON SEMBRA AVERE RISONANZE RELIGIOSE

    Al conflitto denunciato dagli adolescenti tra esperienze personali e proposta cristiana si potrebbe ipotizzare una duplice soluzione. Nel primo caso l'abbandono della chiesa e del cristianesimo diventa anche abbandono di ogni forma di religiosità. Nel secondo caso l'abbandono non si risolve nel nulla, ma segna l'inizio di una sorta di rapporto personale con Dio o almeno il riproporsi di una «domanda religiosa» autonoma rispetto al cristianesimo. Le interviste lasciano intuire che la seconda soluzione, a parte una certa sofferenza e il non voler considerare mai chiuso il discorso, è quella praticata dagli adolescenti: la loro religiosità sembra finire con l'abbandono delle pratiche esplicitamente cristiane e dell'appartenenza ecclesiale. Non si avrebbe alcuno spazio per un rapporto personale con Dio e per un atteggiamento religioso verso la vita.
    Su questa conclusione si impongono alcune riflessioni, a partire dalla ipotesi che ci si trova di fronte ad una sfida implicita tra adolescenti e chiesa, non percepita direttamente né dagli adolescenti né dagli operatori pastorali. Gli adolescenti, tesi alla costruzione della loro identità personale, direttamente rifiutano una religione di tipo sacrale a cui l'individuo deve adeguarsi in modo passivo e una religione che sia costruita «abusando» dei loro bisogni intrapsichici e relazionali. Indirettamente essi sfidano il cristianesimo a scendere sul terreno di quei problemi personali relativi alla costruzione della loro esistenza. Chiedono cioè stimoli e suggerimenti per costruire il proprio progetto di vita e, prima ancora, per riconoscere un significato alla vita rispettando sempre l'autonomia delle loro scelte.
    Sono molti i problemi in gioco in questo sottile conflitto. Non è il momento di affrontarli. Ci basta denunciare una ambiguità di fondo in cui si ritrovano sia gli adolescenti che i loro educatori religiosi. Per entrambi la religiosità sembra consumarsi per intero dentro le credenze e le pratiche cosiddette religiose, mentre non la vedono come dimensione interna e come atteggiamento con cui comprendere e vivere i fatti di ogni giorno e la vita nel suo insieme.
    Né gli uni né gli altri sembrano porsi con un atteggiamento o almeno una disponibilità «religiosa» verso la vita. Per gli educatori, ma anche per gli adolescenti, il religioso si identifica (e si esaurisce?) nella religione organizzata e nella vita della chiesa, nella pratica sacramentale.
    La proposta educativa non abilita a cogliere la vita non solo al livello etico, ma anche al livello del senso religioso della vita.
    Allo stesso modo, e per certi versi di conseguenza, gli adolescenti al momento della ristrutturazione della loro personalità non sembrano elevarsi al livello un qualche senso religioso di quella vita a cui sono giustamente attaccati.
    Due veloci conclusioni.
    La prima è di invito alla «conversione» per gli operatori pastorali, di modo che non si limitino a far aderire gli adolescenti a credenze, pratiche e attività religiose, ma anzitutto li aiutino a cogliere che la vita nel suo intimo ha una dimensione religiosa.
    La seconda è l'invito a non dare per scontata la presenza esplicita di una domanda e di un atteggiamento religioso negli adolescenti, sia in quelli che ancora credono sia in quelli che rifiutano la fede.
    Se è vero che è presumibile che in tutti ci sia un qualche anelito religioso, anche se espresso in forme molto diverse, è anche vero che non poche volte questo anelito religioso implicito rimane un seme bloccato nella sua crescita. Il seme c'è, ma senza un aiuto educativo non riesce a maturare.

    LO SCARSO PESO DEI CONTENUTI CATECHISTICI E IL BISOGNO APOLOGETICO

    Fa impressione, nelle interviste, lo scarso peso che hanno, al momento del rifiuto religioso, i contenuti catechistici e dottrinali assimilati nella fanciullezza e preadolescenza, ma anche nella vita di gruppo durante l'adolescenza.
    Si deve riconoscere che, almeno a quel che gli adolescenti raccontano, la catechesi da essi ricevuta è stata molto povera, chiusa in una dottrina astratta e pietrificata in formule e definizioni. Certamente non è questa la situazione generale della catechesi in Italia. E non è il caso qui di processare la catechesi, a parte le osservazioni già fatte.
    Vogliamo limitarci ad attirare l'attenzione solo su due aspetti del problema.
    Si nota, in primo luogo, il prevalere, come criterio di scelta per credere o meno, della dimensione relazionale su quella contenutistica. La crisi della catechesi sembra anzitutto crisi di rapporto interpersonale tra adolescenti ed educatori religiosi. È anzitutto a quel livello che avviene la frattura e il distacco. Gli intervistati sono impietosi nel denunciare incomprensione, non accoglienza, acidità di giudizio, ricatti affettivi, sfruttamento dei bisogni di relazione e di gruppo.
    Ancora una volta si verifica una legge fondamentale della comunicazione umana: è la relazione tra le persone che comunicano a «spiegare» il vero significato dei contenuti e delle informazioni scambiate.
    Si nota, in secondo luogo, l'incapacità della catechesi di fare i conti con la «ragione critica» degli adolescenti. Essa sembra limitarsi a rivolgersi ai loro sentimenti e bisogni affettivi, mentre è necessario che dialoghi criticamente anche a livello di «confronto» razionale sui problemi della vita. Come denunciare che una certa fascia dell'attuale catechesi giovanile ignora il «ragionare», il discutere, il cercare il senso delle affermazioni, per limitarsi a enunciare sempre da capo, per anni e anni di incontri con i giovani, le verità della fede nella loro oggettività?
    Da anni si chiede una conversione della catechesi alla «ragione». Non per fare della fede un discorso di «ragione umana», riducendola a qualcosa che dipende per intero dalla intelligenza umana, ma per fare della fede uno strumento di lavoro ragionato sui problemi della vita. Pena il veder risorgere, come denunciano gli adolescenti, conflitti tra fede e scienza, tra ragione e religione. Teoricamente questi problemi hanno trovato una pur conflittuale composizione, ma nella catechesi non vengono neppure sfiorati.
    Come, in conclusione, reintrodurre una nuova apologetica nella catechesi dei gruppi giovanili?

    IL POSTO CRUCIALE DEL GRUPPO

    Molti dei nodi e conflitti tra adolescenti e religione, tra chiesa e adolescenti, trovano un ambito di sviluppo e risoluzione nella vita di gruppo. Per certi versi il gruppo viene ad assumere, in adolescenza, un ruolo determinante per la decisione di fede. Nel bene e nel male. Sono i problemi relazionali, i conflitti interpersonali, la fatica a vivere insieme rispettando le persone, a porre all'adolescente il problema di una decisione rispetto al rimanere sul gruppo e allo scegliere, più o meno indirettamente, di ristrutturare la propria personalità da «credente».
    Anche al riguardo ci limitiamo a veloci riflessioni.
    Agli adolescenti crea forte disagio prendere atto, ad un certo momento della loro evoluzione psicologica, della povertà delle motivazioni personali rispetto alla fede vissuta nel gruppo. Quando si rendono conto che «attraverso» il credere cercavano «altro» (amicizia, calore, riconoscimento...) la tensione si fa insopportabile e spesso abbandonano il gruppo e la fede.
    Sembra allora importante aiutare gli adolescenti a non arrivare a questo livello estremo di tensione, agendo in diverse direzioni.
    Diventa importante, in primo luogo, creare un buon clima di gruppo, ma insieme abilitare ad esercitare il «sospetto» su quello che si vive nel gruppo, sulle attese nascoste, sulle motivazioni non confessate. In questo modo da una parte si «demitizza» il gruppo per raffreddare un eccessivo clima fusionale, dall'altra si permette alle persone di consolidare lentamente l'autonomia e la capacità di scelta. Diventa però anche importante «ragionare» insieme nel gruppo sulla «povertà» di ogni motivazione a credere, superando l'idealismo adolescenziale. La scelta di credere non è «separata» oppure «opposta» ai bisogni intrapsichici e relazionali. Essa si eleva e si nutre di tali bisogni, ma li elabora al punto di aiutare il soggetto, pur radicato in quei bisogni, a salire ad un livello diverso: quello di riconoscimento del mistero della vita nella sua povertà e dell'invocazione a un Dio misterioso. Questa «purificazione» delle motivazioni al fare gruppo accrescerà la capacità di scegliere personalmente se credere o meno, e se aderire o meno alla chiesa.


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