Attesi dal suo amore
    Proposta pastorale 2024-25 

    MGS 24 triennio

    Materiali di approfondimento


    Letti 
    & apprezzati


    Il numero di NPG
    luglio-agosto 2024
    600 cop 2024 2


    Il numero di NPG
    speciale sussidio 2024
    600 cop 2024 2


    Newsletter
    luglio-agosto 2024
    LUGLIO AGOSTO 2024


    Newsletter
    SPECIALE 2024
    SPECIALE SUSSIDIO 2024


    P. Pino Puglisi
    e NPG
    PPP e NPG


    Pensieri, parole
    ed emozioni


    Post it

    • On line il numero di LUGLIO-AGOSTO di NPG sul tema degli IRC, e quello SPECIALE con gli approfondimenti della proposta pastorale.  E qui le corrispondenti NEWSLETTER: luglio-agostospeciale.
    • Attivate nel sito (colonna di destra "Terza paginA") varie nuove rubriche per il 2024.
    • Linkati tutti i DOSSIER del 2020 col corrispettivo PDF.
    • Messa on line l'ANNATA 2020: 118 articoli usufruibili per la lettura, lo studio, la pratica, la diffusione (citando gentilmente la fonte).
    • Due nuove rubriche on line: RECENSIONI E SEGNALAZIONI. I libri recenti più interessanti e utili per l'operatore pastorale, e PENSIERI, PAROLE

    Le ANNATE di NPG 
    1967-2024 


    I DOSSIER di NPG 
    (dall'ultimo ai primi) 


    Le RUBRICHE NPG 
    (in ordine alfabetico
    e cronologico)
     


    Gli AUTORI di NPG
    ieri e oggi


    Gli EDITORIALI NPG 
    1967-2024 


    VOCI TEMATICHE 
    di NPG
    (in ordine alfabetico) 


    I LIBRI di NPG 
    Giovani e ragazzi,
    educazione, pastorale

     


    I SEMPREVERDI
    I migliori DOSSIER NPG
    fino al 2000 


    Animazione,
    animatori, sussidi


    Un giorno di maggio 
    La canzone del sito
    Margherita Pirri 


    WEB TV


    NPG Facebook

    x 2024 400


    NPG X

    x 2024 400



    Note di pastorale giovanile
    via Giacomo Costamagna 6
    00181 Roma

    Telefono
    06 4940442

    Email


    La fatica di attraversare l'adolescenza
    Crescere in una società liquida senza riti di passaggio
    Intervista a Marco Aime
    a cura di Roberto Camarlinghi *

     


    Nella società del '900 era facile identificare i riti di passaggio: il servizio militare, il matrimonio, l'ingresso nel lavoro, la nascita di un figlio o di una figlia. Oggi il passaggio all'età adulta si è fatto incerto: non esiste più una conradiana linea d'ombra, ma una indefinita terra di mezzo. Una lettura antropologica dell'adolescenza ci aiuta a comprenderne il disagio profondo e inedito.


    Da un lato ci sono genitori più protettivi di un tempo: «Devo sempre essere presente, altrimenti non fa i compiti»; «quando gli danno troppo da studiare gli faccio la giustificazione»; «mi chiede di andare a scuola da solo, ma non se ne parla». Oggi sembra più difficile dare fiducia e incoraggiare autonomia nei figli. Prevale la spinta a proteggere, più che quella a emancipare [1].
    Dall'altro c'è una società che sostiene poco i cammini di crescita: non solo per i deboli investimenti in politiche educative, ma perché ha reso spaventoso il futuro. È una società che non traina più in avanti, dove non vale più il «studia che poi...» (poi lavorerai, poi metterai su famiglia...) perché tutto si è fatto precario. Anche per questo forse i genitori si fanno più protettivi: perché vedono in che mondo i loro figli e le loro figlie sono destinate a diventare grandi.
    Eppure, osserva Marco Aime dal suo punto di vista di antropologo, «soprattutto in età adolescenziale è importante che ogni società aiuti a costruire il percorso di crescita dei giovani con alcuni punti fermi. Non fosse altro affinché vengano contestati. Il venir meno di questi «gradini» crea una fluidità sicuramente più piacevole, ma anche foriera di incertezze e insicurezze».
    Un tempo si parlava di «riti di passaggio», eventi collettivi grazie ai quali i giovani assumevano un ruolo diverso rispetto al contesto familiare e sociale.
    Oggi «questi riti sono scomparsi o indeboliti e spesso il percorso non è più una scala, che prevede anche gerarchie diverse, ma un piano su cui spesso gli adulti si comportano da giovani e i giovani non riescono a diventare adulti per mancanza di riferimenti».
    Fluidità e liquidità, dilatazione del tempo presente e venir meno del tempo verticale, precarietà esistenziale e instabilità sociale: sono tutte caratteristiche del vivere oggi, che rendono la transizione all'età adulta particolarmente complicata. Sono temi che Marco Aime, antropologo e scrittore, ha trattato nel libro La fatica di diventare grandi (da cui sono tratti i passi citati), scritto con Gustavo Pietropolli Charmet (editore Einaudi). Accanto a tante letture psicologiche dell'adolescenza, merita far spazio a una visione antropologica. Per questo siamo tornati con lui sui temi del libro.

    Le età della vita sono costrutti culturali

    Tra le età della vita, l'adolescenza appare quella più scontornata. Inizia in modo anticipato rispetto a una volta, non si sa più bene quando finisce. È un tempo vissuto senza la promessa di un dopo. Alcuni si perdono, altri si ritirano. Più che in passato si fa fatica a compiere il passaggio all'età adulta. È così?

    È così. Però prima di addentrarci nella fatica di attraversare l'adolescenza oggi, vorrei fare una premessa. Quando parliamo di età della vita - infanzia, gioventù, adultità, vecchiaia - non dobbiamo dimenticarci che stiamo parlando di costrutti culturali. Di fatto tutti noi nasciamo, cresciamo, ci sviluppiamo, invecchiamo, moriamo: è un processo naturale al quale siamo inevitabilmente sottoposti. Questa parabola noi umani l'abbiamo scandita in età, che servono a definire di volta in volta il ruolo delle persone nella società.
    Peraltro, questo di età è un concetto che varia da società a società: non esiste un'età assoluta in cui si cessa di essere bambini, ogni cultura definisce il passaggio in base a elementi diversi. Nella società occidentale di oggi è la scuola: terminate le scuole elementari, in genere non si è più «bambini». In altre società, penso a popolazioni dell'Africa occidentale che ho studiato, l'uscita dall'infanzia avviene quando il maschietto è in grado di usare la zappa e la ragazzina di trasportare la legna sulla testa. In pratica, quando si entra a far parte del ciclo produttivo.
    Ma il concetto di età può variare all'interno della stessa società: anche tra noi qui possiamo avere rappresentazioni diverse su quando si smette di essere giovani o quando si inizia a essere vecchi. Non solo, ma il concetto di età muta col trascorrere delle epoche: ricordo un giorno in radio un padre che continuava a dire «la mia bambina, la mia bambina...»,
    il conduttore gli ha domandato quanti anni avesse la sua bambina e lui «14»... Mi sono chiesto: ma a 14 anni si è ancora bambine? Forse oggi sì, anni addietro sicuramente no. Penso ai miei genitori o ancor più ai miei nonni, che a quell'età già lavoravano.
    In questo senso l'idea delle età non è assoluta. Non a caso molti storici della famiglia parlano di «invenzione» dell'infanzia e dell'adolescenza come di una conquista recente. Nell'Europa medievale e moderna, ha scritto Philippe Ariès, grande storico della famiglia e dei costumi sociali, l'unica vera distinzione era tra l'essere giovani e l'essere adulti - ed è per questo che il passaggio dalla prima alla seconda fase in quasi tutte le società è sempre stato marcato da qualche evento particolare di carattere collettivo. Del resto è sufficiente leggere i romanzi di Charles Dickens o Emile Zola o Luigi Pirandello: poco più di un secolo fa i bambini lavoravano, anche duramente. Oggi invece l'infanzia la concepiamo come un periodo in cui si apprendono i primi rudimenti, ci si diverte, si gioca.
    Questa premessa per dire che non c'è nulla di oggettivo nelle età: sono costruzioni sociali. Non sto parlando ovviamente dell'età anagrafica, che si misura con numeri precisi (peraltro anche questo tipo di età esiste da quando ci sono le anagrafi, prima nessuno sapeva quanti anni avesse di preciso e ancora oggi in tanti documenti d'identità africani si legge «nato/a verso il...»). Sto parlando dell'età sociale per definire la quale utilizziamo termini informali come bambina/o, ragazza/o, adulto, vecchio, che di fatto sono molto approssimativi e sono quelli più soggetti alla trasformazione sociale.

    Nella società del 900 era facile identificare i riti di passaggio

    Focalizziamoci sul passaggio tra adolescenza e vita adulta. È sempre stato considerato un passaggio fondamentale, al punto da essere marcato - dicevi - da qualche evento di carattere collettivo. Il problema, nella società di oggi, è che tante adolescenze appaiono immerse in un tempo senza progressione. In adolescenza si entra, non si sa quando - e come - se ne uscirà.

    Il passaggio all'età adulta è quello che segna l'ingresso nella società a tutti gli effetti. Cominciano quelli che chiamiamo diritti e doveri e non a caso questo momento è quasi sempre segnato da un rito di passaggio. Nelle società statuali e burocratizzate come la nostra, è l'età anagrafica a determinare, con precisione aritmetica, il passaggio all'età adulta. Tuttavia non possiamo non rilevare come oggi - al di là del raggiungimento della maggiore età, per cui al compimento dei 18 anni acquisiamo diritti e doveri che prima non avevamo: possiamo votare, guidare l'auto, diventiamo responsabili davanti alla legge... - il passaggio all'adultità sia sempre più ritardato e avvenga in modo affievolito per un numero crescente di giovani.
    All'età adulta non si accede più come un tempo a una scadenza fissa; il passaggio si prolunga in modo indefinito, senza che si possa stabilire con chiarezza un «prima» e un «dopo». Contestualmente, sono venuti meno i riti di passaggio, quei riti che segnano la transizione di un individuo da uno status all'altro: in questo caso, da adolescente a adulto.
    Nella società alle nostre spalle, quella della seconda metà del '900, era facile identificare questi riti. Pensiamo al servizio militare, che senza nessuna nostalgia costituiva un rito di passaggio; o al matrimonio, al quale oggi si tende a preferire la pratica meno impegnativa della convivenza; o all'ingresso nel lavoro, oggi sempre più precario e sempre meno capace di garantire l'indipendenza dalla famiglia d'origine; o ancora pensiamo alla nascita di un figlio o una figlia, che fa acquisire alla donna lo status di madre e all'uomo quello di padre, ma che è diventata una scelta sempre meno praticata e sempre più rinviata...

    Una precisazione: per l'antropologia culturale che cos'è un «rito di passaggio?

    A studiare i riti di passaggio è stato per primo un antropologo belga ai primi del '900, Arnold Van Gennep, che comparando un numero sterminato di questi rituali in varie popolazioni arrivò a trovare
    un modello comune a tutti. Come è fatto un rito? C'è uno schema che nella struttura resta uguale, nella forma può cambiare. Si compone di tre fasi fondamentali.
    La prima è la separazione, in cui l'individuo o gli individui si allontanano dal loro gruppo sociale. L'allontanamento può essere fisico o metaforico, cioè può essere che si vada nella foresta per due mesi, lontano da tutti, oppure che si rompa in qualche modo l'abitudine della routine. La seconda fase viene chiamata liminale, dal latino limen, soglia. È quella dove avviene il vero passaggio: i soggetti hanno abbandonato lo status precedente, ma non hanno ancora acquisito quello successivo. La terza fase è il rientro in società con un ruolo diverso.
    Per fare un esempio pensiamo al matrimonio. Come entrano in chiesa i due futuri sposi? Ognuno a braccetto del proprio genitore, come a dire che sono ancora legati alla famiglia d'origine. Dopodiché vengono lasciati soli all'altare: ecco la separazione. La fase liminale è la celebrazione del rito. Terminata la funzione, i due sposi escono dalla chiesa a braccetto, per riaggregarsi al gruppo di amici e parenti con uno status nuovo, quello di individui sposati. Distacco, liminalità e rientro: adesso sono loro la famiglia. Questo è un tipico esempio di rito di passaggio.
    I riti di passaggio hanno un effetto importante: costituiscono un momento di frattura nella continuità della nostra esistenza e nella nostra collocazione sociale. Da quel momento in poi qualcosa cambia, non sei più percepito come prima, la società ti ha attribuito dei compiti, il tuo ruolo nel gruppo di appartenenza non è più lo stesso.

    Giovani e aducti: generazioni confuse

    Nella nostra società questa linea tra un prima e un dopo è diventata sfumata. Si resta adolescenti a lungo, gli stessi adulti tendono a sentirsi adolescenti. È stato addirittura coniato un neologismo, «adultescenza», per connotare
    quanti, pur avendo raggiunto biologicamente l'età adulta, presentano un'identità con tratti adolescenziali. Un capitolo del tuo libro s'intitola «Generazioni confuse»•. Cosa sta accadendo?
    Oggi non possiamo non notare come le distanze tra genitori e figli si siano accorciate. È andato in crisi il modello educativo basato sull'autorità degli adulti, genitori e insegnanti. La verticalità su cui si reggeva l'assetto gerarchico si è via via inclinata, fin quasi ad appiattirsi. Al severo distacco del passato si è venuta a sostituire una sempre più evidente forma di alleanza tra le due parti. Oggi con i genitori ci si confida, li si mette a parte delle proprie ansie, li si percepisce complici, non più antagonisti.
    Negli ultimi decenni i rapporti intergenerazionali sono profondamente cambiati, pensiamo anche solo agli anni '60 o '70 quando il conflitto tra generazioni era acceso, per non dire degli anni del dopoguerra quando in molte parti d'Italia si usava dare del «voi» ai propri genitori. Questa prossimità tra adulti e giovani per certi versi è un fattore positivo - nessuno auspica il ritorno alla società autoritaria di un tempo; per altri versi presenta criticità non solo dal punto di vista dello sviluppo personale, ma anche della dinamica sociale - un sano conflitto tra generazioni risulta spesso un fattore evolutivo della stessa società.
    Dicevo degli anni '60 e '70: io sono del 1956, quindi quelli sono stati i decenni della mia adolescenza, non stiamo parlando di secoli fa. Bene, in quel periodo i giovani irrompono come categoria sociale producendo una frattura generazionale. Certo c'erano condizioni particolari: si era in una fase di ripresa economica, c'era fiducia nel futuro, si facevano figli - sono gli anni del cosiddetto baby boom. In Italia c'erano due under 14 per ogni 65enne, oggi il rapporto si è invertito. È la generazione dei boomer a cui appartengo: i nati negli anni '50 e '60.
    In quel momento i giovani irrompono sulla scena sociale, come generazione in opposizione a quella adulta: cambia il modo di vestirsi, si indossano i jeans, i capelli lunghi esprimono la ribellione contro i capelli corti del militare, il rock e il pop sono la colonna sonora di quel movimento di protesta. Nasce quindi un'estetica giovanile: gli anni '60 sono soprattutto un decennio di rottura estetica, gli anni '70 saranno invece di rottura politica.
    Ma già negli anni '60 l'antagonismo rispetto ai genitori era forte. Basta leggere le canzoni dell'epoca: gli Who in My Generation (1965) cantavano «Spero di morire prima di diventare vecchio»; Mick Jagger a 22 anni in un'intervista diceva: «Non mi ci vedo a 40 anni a suonare rock» (mai profezia fu più sbagliata).
    In quel momento si crea una frattura netta tra la generazione giovane e quella dei genitori - complice anche la «società dei consumi» che capisce immediatamente che i giovani hanno gusti nuovi. Sono i gusti di una generazione che per la prima volta si percepisce come attore sociale ed è convinta di poter cambiare il mondo. Il dato è dunque la frattura generazionale: prima i giovani cantavano le canzoni dei genitori, ballavano sulle loro musiche, si vestivano come loro. Da quel momento invece cambia tutto, s'innesca un antagonismo feroce padri-figli (dico «padri» perché quella società era di stampo patriarcale). Per certi versi è paradossale che i giovani contestassero un modello di società nel momento in cui si stava meglio, perché quelli sono stati gli anni in cui c'è stata forse la maggior distribuzione di ricchezza della storia. Ma insieme al benessere cresceva la voglia di autonomia.
    Poi cosa cambia col volgere degli anni? Cambiano le condizioni economiche, muta il clima politico, per cui a partire dagli anni '80 inizia una progressiva privatizzazione delle vite, soprattutto dei giovani. Mentre le generazioni degli anni '60/'70 erano generazioni estroverse e collettivizzanti, che stavano in piazza, che si sentivano movimento, pian piano inizia l'epoca del cosiddetto «riflusso» passata alla storia come «edonismo reaganiano». Ci si ritira dalla presenza pubblica, si ripiega nel privato, l'anticonformismo non è più un valore. La spinta propulsiva innescata dai movimenti giovanili viene a esaurirsi, l'io vince sul noi, il capitalismo non ha più rivali dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la disintegrazione del blocco sovietico nel '91. Inizia anche la crisi economica, e tutto ciò influisce sui rapporti tra generazioni.
    Arriviamo così ai giorni nostri in cui, per i tanti cambiamenti accelerati in cui siamo immersi, è avvenuto quasi un ribaltamento nel rapporto tra generazioni, che ha smesso di essere conflittuale. Faccio sempre il paragone con gli anni in cui ero giovane io: allora l'obiettivo era l'indipendenza dai genitori, ma ce lo si poteva permettere, c'era una situazione economica favorevole. Oggi invece i sociologi parlano di «famiglia allungata», perché spesso i figli restano in casa anche fino ai 30 anni. Perché? Intanto perché si studia di più: molti oggi arrivano alla laurea mentre prima, appena preso il diploma, si iniziava a lavorare e si usciva di casa. Poi perché l'ingresso nel mondo del lavoro è sempre più difficile, l'offerta di impiego è sempre più scarsa e anche quando un lavoro lo si trova, il reddito non basta a rendersi indipendenti dai genitori.
    Senza contare che c'è stato un ricambio generazionale: i genitori di oggi sono quelli che erano giovani allora, che avevano lottato per certe libertà e certi diritti, e quindi applicano oggi un modello diverso di genitorialità, che non è più gerarchico ma è affettivo. Oggi noi adulti siamo molto più dialogici, e quando si apre un conflitto con i figli in famiglia cerchiamo subito di ricomporlo.

    Questi cambiamenti nella società modificano i rapporti tra generazioni. Più da vicino, che cosa comportano?

    Direi due conseguenze: la prima è che si fa sempre più sfumato il confine generazionale, portando a livelli non dico di amicizia, ma di maggior complicità tra generazioni. Anche nell'abbigliamento non si rilevano differenze così marcate, c'è anzi una commistione, spesso gli adulti giocano a fare i giovani anche se non lo sono più. La seconda è che il passaggio all'età adulta è meno percepibile: non riuscendo a conseguire l'autonomia economica e abitativa, si continua a permanere sotto il tetto familiare. Ed è ovvio che nel momento in cui ci si trova a essere ancora dipendenti dalla famiglia, non si può vivere in un conflitto permanente - sarebbe estenuante - per cui il conflitto generazionale si ammorbidisce.
    Tutto ciò determina una prolungata dipendenza non solo economica ma emotiva-relazionale, che impedisce un vero distacco e anche la possibilità di crescere e maturare nell'affrontare i problemi della vita. Tuttavia definirli «bamboccioni», come è stato fatto, è ingiusto perché sono le condizioni socio-economiche a costringere i giovani a comprimere le pulsioni all'autonomia. Non dimentichiamo che questa difficoltà di accedere all'età adulta è vissuta a volte senza particolari traumi, ma altre volte è accompagnata da un senso di fallimento se non di angoscia. Non possiamo scordarci che l'Italia ha il triste primato dei cosiddetti NEET: circa un giovane su 5 oggi non studia e non lavora.

    Non c'è più una linea d'ombra, ma una indefinita terra di mezzo

    Il tuo sguardo di antropologo ci invita a tener presente l'importanza dei riti di passaggio all'età adulta. Le società li hanno sempre avuti, nella nostra sembrano svaniti. È una novità non piccola.

    In effetti i riti di passaggio sono diventati difficili da individuare. Perché quali sono oggi i momenti percepibili di transizione all'età adulta? Non basta compiere 18 anni perché i 18 anni non sono ritualizzati. Ognuno li festeggia in modo privato e a modo proprio. Bisognerebbe che per tutti i diciottenni ci fosse una manifestazione collettiva con cui la società riconosce loro questo passaggio, ma al momento non c'è, se non in alcuni paesi. Il servizio militare è stato abolito. Uno dei pochi eventi che hanno conservato la loro forza simbolica è l'esame di maturità, perché affrontato contemporaneamente da centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi in tutto il Paese. La prova di maturità segna per alcuni la fine degli studi e il tentativo di ingresso nel mondo del lavoro, per altri l'accesso all'università. Una frattura in entrambi i casi, un evento quindi in grado di modificare lo status dei ragazzi che la superano, com'è proprio dei riti di passaggio.
    Diverso il caso della laurea, che ha meno i tratti del rito di passaggio non solo perché riguarda un numero minore di persone, ma perché la proclamazione avviene in forma individuale. Anche qui, si potrebbero prevedere proclamazioni collettive che hanno più il senso del rito, come avviene nei paesi anglosassoni: lì tutti i neodottori si riuniscono nel cortile dell'università, con indosso la toga, lanciando in aria il cappello. Inoltre la valenza rituale della laurea si è attenuata anche perché dopo non sempre segue l'ingresso nel lavoro, per cui si continua avi-vere in famiglia.
    Oggi insomma all'età adulta non si accede più a una scadenza fissa. Non c'è più una conradiana «linea d'ombra» da attraversare, ma una sorta di terra di mezzo, di cui non si conosce l'ampiezza, né il tempo che ci vorrà per uscirne. Viene meno anche la spinta alla progettualità, che caratterizza l'ingresso nella vita adulta.

    La società liquida non offre gradini di accesso all'età adulta. La sua liquidità fa venir meno anche i riti di passaggio?

    Oggi la società si è fatta per davvero liquida, per riprendere la geniale l'intuizione di Zygmunt Bauman, nel senso che sono venuti meno quei pilastri che davano solidità alla struttura sociale e sicurezza psicologica ai cittadini. Oggi è tutto più incerto, tutto è più un divenire. Quale forza politica propone un progetto di futuro? Si va avanti così, gestendo l'immediato. Le stesse vite individuali sono attraversate dall'incertezza: non solo l'entrata nel lavoro è diventata precaria ma persino l'uscita oggi nessuno sa bene quando avverrà. Se ci pensiamo, anche la pensione era un momento ritualizzato, oggi è sfumata anche quella linea di passaggio. La liquidità è anche questo.
    E la liquidità la ritroviamo anche tra le generazioni. Se noi osserviamo la nostra società, è difficile trovare momenti collettivi che uniscano una generazione, anche in opposizione all'altra. Mi ha molto colpito un dialogo con una studentessa che durante una chiacchierata mi ha detto: «Il nostro problema è che non riusciamo a sentirci una generazione».

    «Il nostro problema è che non ci sentiamo una generazione»

    Perché i giovani non riescono a sentirsi una generazione?

    È una domanda interessante. Credo proprio per la maggiore contiguità tra generazioni: la generazione dei genitori e quella dei figli non sono distinte, ma interscambiabili. In passato invece la conflittualità permetteva di riconoscersi come generazione.
    Pietropolli Charmet dice sempre che quando tua mamma ti chiede l'amicizia su Facebook c'è qualche problema in famiglia. Intendiamoci, nessuno rimpiange l'autorità dei vecchi genitori, ma neanche un'eccessiva orizzontalità è sana. Da ragazzi si ha bisogno di punti di riferimento fermi con cui confrontarsi, non fosse che per differenziarsi. Si ha bisogno anche di limiti, di paletti, non fosse che per trasgredirli. Avere dei limiti è fondamentale; un limite costituisce una barriera che segna una differenza. Nella fluidità che oggi sembra pervadere tutti, che non nego abbia anche aspetti positivi, è invece più difficile per un adolescente capire chi si è, cioè definirsi, individuarsi.
    Un altro elemento che impedisce a questa generazione di sentirsi è collegato a un dato demografico: oggi i giovani sono pochi. I giovani sono numericamente pochi, non sono più una presenza così forte, anche visivamente. In Italia in modo particolare abbiamo un tasso bassissimo di natalità e fertilità. Insegno a Genova che è la città più anziana d'Europa; per le strade vedi tanti adulti e anziani, ma pochi giovani. Così per loro è più difficile identificarsi come generazione, come accadeva a noi figli del boom che eravamo molti anche numericamente.

    Nel tempo accelerato non si interiorizza

    Nella liquidità che ruolo gioca il web? La aumenta o la riduce?

    Anche il web ha portato cambiamenti nel rapporto tra generazioni. Perché il web, la rete di cui sono protagonisti i millennial, ha introdotto una forma di apprendimento orizzontale. In passato il modello di apprendimento era verticale: erano gli adulti che insegnavano ai bambini. Oggi questo avviene ancora, ma allo stesso tempo i ragazzini sono immersi in una rete di informazioni che ricevono dagli smartphone. Ben più che in passato, sono attori e autori dell'apprendimento, per cui vanno a cercarsi le informazioni da soli e le condividono con i pari. Non sono più gli adulti soltanto a detenere il sapere. Questo processo mina l'autorità dell'adulto, spesso capita che siano i più giovani a insegnare agli adulti come si usano certi device elettronici perché, come scrive Luigi Zoja, loro sono figli della comunicazione elettronica almeno quanto sono figli dei propri genitori.
    Ma per rispondere alla domanda se il web abbia aumentato o diminuito la liquidità, credo occorra considerare un aspetto importante introdotto dalla rete: l'accelerazione. Tutta la storia moderna è segnata da un'accelerazione costante: possiamo dire che dalla rivoluzione industriale in poi c'è stata una progressiva accelerazione. Se pensiamo, fino a metà del '700 la velocità maggiore consentita sul pianeta era legata al cavallo, non c'era nulla che andasse più forte del cavallo; di lì è iniziata una accelerazione nel movimento, ma anche un'accelerazione nelle comunicazioni che con il web è arrivata alla contemporaneità: oggi invii un messaggio e istantaneamente viene ricevuto dall'altra parte del mondo. Ricordo quando ho iniziato le ricerche in Africa negli anni '90, passavo ore a cercare di prendere la linea col telefono, oggi da sperduti paesi mi mandano il video delle cerimonie tradizionali via WhatsApp. Per dire come nell'arco di 20 anni siano cambiate le possibilità comunicative.
    Noi oggi siamo avvolti in un flusso di informazioni mai esistito prima. Quando dico informazioni intendo messaggi, foto, articoli, ogni tipo di contenuto. Noi continuiamo a ricevere continuamente stimolazioni sensoriali e cognitive. Tutto avviene sotto i nostri occhi, in tempo reale, e la dimensione del presente sembra dilatarsi sempre di più. Questo flusso ha determinato una riconfigurazione della scansione «passato presente futuro». L'ora e il qui diventano preponderanti rispetto al tempo passato e a quello futuro. Non è mai stato così.
    Per millenni l'essere umano ha vissuto a cavallo di due piani cronologici: il passato e il futuro. Il futuro nessuno l'ha mai saputo, però lo si ipotizzava e ci si dedicava a progettarlo. Il passato invece è noto e da esso si attingeva per costruire la propria vita. C'è un bellissimo detto di una popolazione del Ciad che dice: «Il passato sta davanti a noi, mentre il futuro è dietro la testa», perché il passato lo abbiamo visto, mentre il futuro non lo conosciamo. Ma il passato perché diventi memoria ha bisogno di tempo, perché il nostro cervello non è rapido come la rete. Si tratta ancora di un cervello neolitico, analogico, che fa quel che può. Perché qualcosa diventi passato, ma passato nel senso che si depositi come elemento significativo, ci vuole tempo, bisogna che le informazioni si sedimentino.
    Faccio un esempio: nel 1961 viene costruito il muro di Berlino. C'è una foto celebre di Henri Cartier-Bresson che da dietro ritrae due signori che, mentre i muratori erigono il muro, salgono sul parapetto per guardare ancora una volta dall'altra parte. Quella foto è un capolavoro, e da quando C artierBresson la scatta a quando viene pubblicata su Life
    passano quasi tre mesi. Quella foto è diventata l'icona di un momento. Poi nel novembre 1989 quello stesso muro viene abbattuto: chi si ricorda una foto iconica? E dire che c'erano 5.200 fotografi accreditati! Perché non ce la ricordiamo? Non perché i fotografi non fossero bravi, ma perché ne abbiamo viste troppe.
    Per non dire di oggi: nella home page di qualunque giornale, ogni ora cambia l'immagine. Questo fa sì che non si riesca a interiorizzare ciò che si vede, perché avremmo bisogno di tempo e invece viviamo in una accelerazione. Allora ecco che il passato scompare e si vive in una bolla di eterno presente. È un presente che si sposta con noi, non c'è più il passato o il futuro.
    Il passato è triturato da una valanga di informazioni di consumo veloce, il futuro è immerso nella liquidità di cui parlava Bauman. Ci sono state epoche più statiche, altre animate da spinte in avanti, ma passato, presente e futuro rimanevano in costante dialogo tra di loro. Mai il presente ha assunto la forma di una cupola che ci sovrasta come accade oggi.
    Si capisce così la fatica di diventare grandi. Difficile diventarlo se la dimensione del presente si dilata.
    Questa bolla del presente fa sì che ci si rinchiuda in se stessi, generando un dialogo solipsistico, spesso con il proprio smartphone. C'è un libro bellissimo che si intitola La conversazione necessaria, l'autrice è una sociologa che lavora al MIT. Lei indaga il ruolo sociale dei nuovi media, e questo libro è una ricerca fatta tra giovani dei college americani, l'equivalente delle nostre scuole superiori. Sono curiosi alcuni aspetti: per esempio l'autrice dice che i ragazzi in aula quasi non si parlano; appena escono si mettono a chattare e quando si chiede loro il perché rispondono: «Perché la conversazione faccia a faccia richiede fatica».
    Questa è una cifra del presente: la smaterializzazione dell'altro, la sua riduzione a schermo. Non c'è più il faccia a faccia, c'è lo schermo a schermo. E attraverso lo schermo cambia radicalmente la percezione degli altri e del mondo. Si vive meno la compresenza dell'altro e nello spazio deterritorializzato del web talvolta si aggira l'incontro diretto con la società. Credo che oggi si tratti di introdurre quanto più possibile la materialità dell'esperienza nelle relazioni con i ragazzi. Dare maggiore solidità alla loro esperienza del mondo, in modo da ritrovare la fatica dell'attraversare il presente, su cui sembriamo scivolare senza attrito alcuno.
    Una «generazione effettiva» si ha solo quando un insieme di individui sente di partecipare a un destino comune. Nel libro Pietropolli Charmet fa una annotazione interessante. Scrive che compito di noi adulti non è divertire i ragazzi, ma «aiutarli a comprendere che c'è ben poco da annoiarsi: è tempo di crisi, è necessario arruolarsi in un grande movimento collettivo, di giorno e di notte, per cambiare l'attuale modello di sviluppo, per salvare il salvabile».
    Allora forse è qui, nell'impegnarsi con altri nella cura del mondo, che si possono creare nuovi percorsi di crescita imparando a diventare grandi.

     

    NOTE

    1 È stato coniato anche un termine. «genitori elicottero» (Helicopter parents), per indicare quei genitori che sono molto vicini ai loro figli e che li aiutano a superare tutti gli ostacoli che incontrano, soprattutto in ambito scolastico. Riportiamo da Wikipedia: «I genitori elicottero, come gli elicotteri, sono sempre sopra i propri figli e cercano di provvedere ai loro bisogni, spesso ancor prima che si presentino. Questo atteggiamento nasce dalla paura del genitore che il figlio possa andare incontro a sconfitte e fallimenti e dall'ansia dell'insuccesso. Il genitore controlla e coordina ogni aspetto della vita del figlio e vive con la paura che quest'ultimo non sia all'altezza delle situazioni e delle proprie aspettative. Le conseguenze che questo atteggiamento può causare sul bambino sono danni all'autostima, all'autonomia, difficoltà nella gestione di emozioni e situazioni e problemi nel rendimento scolastico, poiché nel bambino viene meno la possibilità di apprendere mediante gli errori, affrontando così le situazioni con timore e paura».

    * Marco Aime è docente di antropologia culturale all'Università di Genova: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
    Roberto Camarlinghi è membro della direzion di Animazione Sociale

    FONTE: Animazione sociale 2/2024, n. 370, pp. 6-16


    T e r z a
    p a g i n A


    NOVITÀ 2024


    Saper essere
    Competenze trasversali


    L'umano
    nella letteratura


    I sogni dei giovani x
    una Chiesa sinodale


    Strumenti e metodi
    per formare ancora


    Per una
    "buona" politica


    Sport e
    vita cristiana
    rubrica sport


    PROSEGUE DAL 2023


    Assetati d'eterno 
    Nostalgia di Dio e arte


    Abitare la Parola
    Incontrare Gesù


    Dove incontrare
    oggi il Signore


    PG: apprendistato
    alla vita cristiana


    Passeggiate nel
    mondo contemporaneo
     


    NOVITÀ ON LINE


    Di felicità, d'amore,
    di morte e altro
    (Dio compreso)
    Chiara e don Massimo


    Vent'anni di vantaggio
    Universitari in ricerca
    rubrica studio


    Storie di volontari
    A cura del SxS


    Voci dal
    mondo interiore
    A cura dei giovani MGS

    MGS-interiore


    Quello in cui crediamo
    Giovani e ricerca

    Rivista "Testimonianze"


    Universitari in ricerca
    Riflessioni e testimonianze FUCI


    Un "canone" letterario
    per i giovani oggi


    Sguardi in sala
    Tra cinema e teatro

    A cura del CGS


    Recensioni  
    e SEGNALAZIONI

    invetrina2

    Etty Hillesum
    una spiritualità
    per i giovani
     Etty


    Semi e cammini 
    di spiritualità
    Il senso nei frammenti
    spighe


    Ritratti di adolescenti
    A cura del MGS


     

    Main Menu