Pastorale Giovanile

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    «Scrivo a voi giovani,

    perché siete forti»

    (1 Gv 2, 14)

    Lettura biblico-teologica
    della condizione giovanile

    Cesare Bissoli

    determinazione

    Titoli come il nostro sono tanto seducenti, quanto complessi.
    Da una parte attira il sa ere come la Bibbia, rivelazione di Dio all'interno dea storia i un popo o, consideri le giovani generazioni, certamente presenti ieri come oggi nel farsi dell'Alleanza; ma insieme si prova una difficoltà reale quanto al modo di considerare la figura del giovane nel Libro Sacro, per più motivi: il quadro sociale e culturale di riferimento è assai diverso dal nostro, a partire dalla stessa categoria di giovinezza; ci è in larga parte sconosciuto il ruolo umano e religioso che i giovani potevano svolgere nella società e comunità credente (così sovrapposte nel mondo biblico); ben poco conosciamo dei processi di socializzazione ed educazione che non potevano mancare nemmeno allora, ma di cui sappiamo poco di preciso.
    Con discrezione quindi, e per via di approssimazione, consideriamo una serie di dati sulla figura del «minore» (chiamiamo così globalmente la figura giovanile), prima nella società e nel credo di Israele (AT) e poi nelle prime comunità cristiane ai loro inizi (NT), avendo prete.di non fermarci su una descrizione fenomenica dei quanto piuttosto cogliere la Parola di rivelazione di cui l'età giovanile è vista portatrice, il senso teologico cioè con cui a giovinezza viene considerata nella storia della salvezza.

    La figura del minore nel Antico Testamento

    A livello fenomenico

    • In Israele (sia prima di Gesù che ai suoi tempi) sono generalmente distinte tre fasi della vita: bambini, ragazzi e ragazze cresciuti (bahur e betula) e uomini e donne mature (cfr. Ger 51, 22). Contrassegno della giovinezza è l'essere introdotto alla vita degli adulti. Nella Bibbia si possono riscontrare diversi tratti dell'età giovanile, quali la bellezza maschile e femminile (Gn 24, 16; Ct 4, 1-7; 5, 10-16; 7, 2-6), la forza e quindi la disposizione per la guerra (Ger 48, 15; Sal 78, 31), la gioia di vivere (Qo 11, 9), ma anche l'immaturità e l'indecisione, l'assenza di esperienza, una certa insofferenza verso l'età anziana (Gdc 8, 20, 1 Re 3, 7; 12, 8ss; Ger 1, 6; Prv 23, 22).
    Alcune citazioni emblematiche:
    - «Vanto dei giovani è la loro forza, ornamento dei vecchi è la canizie» (Prv 20, 29).
    - «Sta' lieto, giovane, della tua giovinezza, e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua gioventù» (Qo 11, 9).
    - «Il giovane non estrasse la spada, perché aveva paura, perché era ancora giovane» (Gdc 8, 20).
    - «Risposi: Ahimè, Signore, ecco io non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1, 6).
    Il riferimento dei giovani agli anziani è molto accentuato nel mondo biblico, secondo una dialettica bipolare: 1) l'anziano è colui che non gode della energia dei giovani. Il Qohelet lo dice efficacemente rivolgendosi al giovane perché tenga conto degli acciacchi dell'età anziana. Ed in verità sono tanti: «Ricordati del tuo creatore nei giorni
    della tua giovinezza, prima che vengano i giorni tristi (della vecchiaia) e giungano gli anni in cui dovrai dire: Non ci provo alcun gusto...» (12, 1-7); 2) d'altra parte «Nei canuti sta la saggezza e nella vita lunga la prudenza» (Gb 12, 12). Sicché ai giovani compete di crescere ascoltando a fondo gli anziani: «Alzati davanti a chi ha i capelli bianchi, onora la persona del vecchio e temi il tuo Dío. Io sono il Signore» (Lv 19, 32).
    • In sintesi si può affermare che i testi biblici paiono ultimamente convergere su un dato a due facce: la giovane generazione è compiutamente definibile soltanto in rapporto alla generazione adulta, per cui, primo effetto, nella normalità dei casi i giovani sono visti nella loro relazione con i genitori, con gli anziani in particolare, e più ampiamente in relazione alla collettività; di conseguenza, secondo effetto, la giovane generazione vale più per ciò che sarà che per quello che è, si contraddistingue per le attese che vi sono su di essa e per gli scopi che il gruppo sociale pone sui giovani e che essi sono chiamati a realizzare. Vi sta sotto (non solo nel mondo ebraico) una concezione patriarcalista ed adultista di società che oggi fa arricciare il naso. Ma è innegabile che in questo modo si garantisce un dialogo vitale tra generazioni che sarebbe veramente insensato trascurare, pur dentro un quadro culturale differente da quello antico. Il quarto comandamento esprime molto bene il rapporto di causa ed effetto che sta tra la cura per gli anziani da parte dei giovani e la continuità della vita di costoro: «Onora il padre e la madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese» (Es 20, 12).

    A livello teologico

    Se ora dai dati raccolti, passiamo alla loro interpretazione teologica, ossia alla rilevanza che il discorso sui giovani assume agli occhi della fede in Dio, il giudizio si fa più complesso, ed appare singolare ed originale rispetto al contiguo mondo medio orientale.
    Possiamo dire in sintesi che la figura giovanile una volta collocata nel Credo di Israele ne viene profondamente segnata: esprime sempre una fase positiva della vita in quanto voluta da Dio creatore, ma insieme viene idealmente spezzato il patriarcalismo sociale dominante, giacché Dio stesso interviene al di là delle comuni norme sociali. Per tal modo ogni lettura naturalista, biologica della giovinezza viene superata, e questa acquista presso Dio qualità e credibilità, in sé disattese dalla cultura del tempo.
    Intendiamo rilevare ciò considerando tre luoghi-momenti della rivelazione biblica: nel quadro della famiglia secondo le tradizioni soprattutto patriarcali, nel pensiero dei sapienziali, in relazione alle tradizioni storico-profetiche.

    A. La valutazione del minore nel quadro della famiglia: il giovane come figlio, bene comune e dono di Dio

    • L'abbiamo già accennato sopra, sottolineando la ristrettezza propria di una concezione patriarcalista. Ora vediamone la valenza positiva. Il minore nella famiglia è il figlio, e il figlio è in se stesso un bene indiscutibile, in quanto, molto concretamente, portando il nome del padre ed ereditando il patrimonio familiare, permette in certo modo al padre di continuare ad essere ed influenzare oltre la morte.
    Solo così si capisce bene, da una parte, la vergogna indicibile della sterilità (Gen 29, 32s; 1 Sam 1) e, dall'altra, la gioia di avere un figlio, molti figli: «La tua sposa come vite feconda nell'intimità della tua casa; i tuoi figli come virgulti d'ulivo intorno alla tua mensa» (Sal 128, 3; cfr. il singolare istituto del levirato: Gen 38; Dt 25, 5ss; Rt 3ss).
    Crescendo, lo abbiamo notato sopra, il figlio è chiamato ad esprimere concretamente la sua lealtà alla famiglia e il IV comandamento ne diventa canonica espressione (Es 30, 12; Dt 5, 16).
    • Gioia profonda dell'uomo, il figlio non cessa però di restare radicalmente dono di Dio, da accogliere con riconoscenza e con fede e segno della sua benedizione. Prova ne sia l'intervento diretto, «miracoloso» di Dio a favore di donne sterili (Gen 25, 1; 29, 31; 30, ls; Gdc 13, 2; 1 Sam 1, 2), il fatto di nascite del tutto inattese (Gen 17, 17; 18, 1 ls; 2 Re 4, 4. 16), infine la promessa di numerosi figli e di età lunga per il tempo messianico: «Le piazze della città formicoleranno di fanciulli e di fanciulle che giocheranno sulle piazze» (Zc 8, 5; cfr. Is 65, 20).
    Tutto ciò è espressione di un «pensiero» preciso di Dio: un giovane, che è sempre un figlio, è contrassegnato dunque da un rapporto intrinseco con i genitori per i quali egli vale come sì di Dio alla vita e alla dignità di coloro che l'hanno generato; e, d'altra parte, Dio spezza attese possessive, per quanto siano di un padre, di una madre, di una famiglia: è lui ultimamente che decide la consegna del figlio, dotandolo sovente di un compito nuovo fissato direttamente da Lui: «Ecco, tu concepirai e partorirai un figlio, sulla cui testa non passerà rasoio, perché il fanciullo sarà un nazireo consacrato a Dio fin dal seno materno: egli comincerà a liberare Israele dalle mani dei Filistei» (Gdc 13, 5; cfr. 1 Sam 1, 11). Tutto ciò emergerà soprattutto nel contesto della elezione divina del minore, di cui più avanti.

    B. La valutazione del minore nella riflessione dei sapienziali: il giovane come discepolo,
    chiamato alla realizzazione di sé in relazione con Dio

    • È proprio della tradizione sapienziale (espressa dai libri omonimi, quali Proverbi, Qohelet, Giobbe, ma non soltanto) trattare il minore come un «discepolo» chiamato alla realizzazione di sé attraverso la grande scuola dell'esperienza della vita. Tale rapporto tra maestro ed alunno è quanto mai intenso, tanto che lo scriba chiama «figlio» il giovane seduto ai suoi piedi in ascolto (Prv 1, 8). Si verifica uno spostamento caratteristico rispetto alla visuale precedente, possiamo dire, meno collettivistica, più attenta alla persona del minore.
    • Già dalla formulazione del IV comandamento, l'atto di obbedienza viene unito alla promessa di una vita lunga e di una felicità personale: «perché la tua vita sia lunga e tu sii felice nel paese che il Signore Dio tuo ti darà» (Dt 5, 16). I sapienziali o saggi vi apportano un contributo incisivo. Secondo Prv 10-22; 25-29, la felicità o riuscita, che tocca la sfera dell'esistenza di ciascuno e a cui il maestro di sapienza mira condurre gli alunni, è un valore dipendente da qualità etiche necessariamente individuali, quali l'obbedienza, la saggezza, la giustizia. Anzi saranno proprio tali qualità personali a fare da criterio sicuro per sapere se il giovane corrisponde veramente alle attese collettive nei suoi confronti: «Abitua il giovane secondo la via da seguire; neppure da vecchio se ne allontanerà... Chi semina l'ingiustizia raccoglie miseria... chi ha l'orecchio generoso sarà benedetto perché egli dona il suo pane al povero» (Prv 22, 6-9). Di qui il forte impegno educativo di cui i saggi si fanno carico, con la fermezza di una rude disciplina (cfr. Prv 13, 24), ma anche con la consapevolezza che un giovane educato è un uomo realizzato: «Chi risparmia il bastone odia suo figlio, chi lo ama è pronto a correggerlo» (Prv 13, 24).
    • A questa concezione più personalizzata ed insieme sanamente naturale e ragionevole della figura giovanile, la fede non si oppone (i saggi sono dei credenti sinceri), ma certamente vi introduce una importante specificazione: il timore di Dio, tanto da affermare che «il timore del Signore prolunga i giorni» (Prv 10, 27), «perché il Signore dà la sapienza, dalla sua bocca esce scienza e prudenza» (Prv 2, 6). In questo modo l'attenzione all'ordine della creazione e dell'esperienza, e agli ordinamenti naturali dell'educazione, come tali voluti da Dio, si coniuga con la certezza che, ben oltre le risorse umane, Dio stesso inten-
    de essere alla guida della crescita dell'uomo, integrandola nei suoi disegni e rompendo in tal modo l'insidia di un mero edonismo terreno. «Figlio non disprezzare l'istruzione del Signore, perché il Signore corregge (= educa) chi ama, come un padre un figlio prediletto» (Prv 3, 12).
    • Il versetto ora citato, emblematico della sintesi umano-divina dei saggi, trova la sua migliore rappresentazione (noi diremmo oggi la sua icona) nella storia di Giuseppe (Gen 37ss). Essa è una vera e propria novella sapienziale, paradigma luminoso e modello prezioso di come un giovane, Giuseppe, possa giungere dalla condizione più disperata al successo più pieno, grazie ad un incrollabile senso del timore di Dio: «Fate questo e avrete salva la vita; io temo Dio!» (Gen 42, 18; cfr. 39, 9).
    In conclusione, dalla visione sapienziale, potremmo dire che la figura giovanile, esce profondamente apprezzata, e ciò grazie all'impegno educativo realizzato nel nome di Jahvé e nel quadro del Credo. In tal modo la figura del minore fatto discepolo, sente allentare la morsa delle coercizioni familiari e sociali eccessive, può trovare stimoli all'iniziativa, ed insieme viene a riconoscere che la valutazione del suo successo non sta in se stesso, ma in Dio.

    C. La valutazione del minore nelle tradizioni storico-profetiche: il giovane come eletto da Dio

    È l'ultimo angolo di visuale che ci presenta la Bibbia: ultimo inteso nel senso di più radicale e che influisce sui precedenti. È sintetízzabile nel noto tema biblico della «scelta del minore» rispetto al maggiore in funzione storico-salvifica.
    Vengono alla memoria la scelta di Giuseppe rispetto ai suoi fratelli, di Samuele rispetto all'anziano Eli, di Davide rispetto a Saul, come pure la scelta del timido Geremia... Che senso riveste tale scelta?
    Ricorderemo come tratti salienti comuni:
    – la scelta di Dio cade sul giovane singolo anzitutto non per chissà quali intrinseche risorse dell'età giovanile, ma piuttosto come portatore di inesperienza e immaturità tali per cui può apparire più apertamente l'esclusività dell'azione di Dio nella storia. È nel nome di Jahvé che Davide può affrontare il gigante Golia (1 Sam 17, 45), ed è Dio stesso che garantisce a Geremia la forza profetica nonostante sia giovane (Ger 1, 6s);
    – in secondo luogo, si tratta di una scelta con finalità religiosa, per il bene della comunità, dunque dentro un disegno vocazionale: «Il Signore mi disse: Non dire: sono giovane; ma va' da coloro cui ti manderò e annunzia ciò che ti ordinerò» (Ger 1, 7);
    – in terzo luogo, la scelta del giovane non comporta affatto una vita facile per l'eletto. Piuttosto si stabilisce un intreccio più o meno drammatico tra azione di Dio e risposta dell'uomo, dove Dio stesso matura, attraverso prove, il giovane eletto.
    In tale visuale è il futuro che dà valore al giovane, il futuro del progetto di Dio, della cui trascendenza tutta l'esistenza dell'eletto diventa segno evidente.

    In conclusione

    La comprensione teologica del giovane si può descrivere globalmente così. Il minore vive le sue appartenenze alla famiglia, alla comunità, a se stesso in quanto dono di Dio, nel quadro dunque dei valori religiosi cui presiede il mistero di Dio, mistero che si manifesta nel suo piano di salvezza. Entro tale piano ci è dato di cogliere come tratto sintetico il seguente: il giovane rappresenta il tipo dell'attesa e della speranza: della collettività (famiglia) per la sua continuità, del giovane stesso rispetto alla realizzazione di sé, di Dio per i suoi piani.
    Proprio per questa proiezione sul futuro umano e divino, l'AT sembra interdire la possibilità di riconoscere ai giovani una posizione preferenziale o dei privilegi a sé stanti e tanto meno chiusi e definitivi, e d'altra parte proprio interessandosi dí loro, assumendoli come segnale dell'agire di Dio nella storia, ne riconosce il valore profetico.
    In certo modo essi valgono per quello che saranno, ma resta vero che potranno essere ciò che Dio vuole per loro già a partire dalla loro condizione di giovinezza.
    Per questo l'impegno educativo per loro è una giusta e doverosa preoccupazione, ma insieme per svolgersi deve tener quanto mai conto delle sovrane attenzioni di Dio.

    La figura del minore nel Nuovo Testamento

    La radice ebraica del mondo di Gesù e della prima Chiesa fa sì che quanto in esso si dice della figura giovanile ricalchi forme e pensieri del tempo precedente. Ciò che di nuovo si può cogliere proviene piuttosto dalla interpretazione teologica di tale fase della vita, così come Gesù e poi gli apostoli hanno voluto mettere in luce.
    Ma il loro punto di vista passa attraverso informazioni su concrete figure giovanili, e anzitutto mediante la terminologia usata nel parlarne. Si apre quindi anche qui la possibilità di distinguere un livello fenomenico descrittivo da quello teologico interpretativo.

    A livello fenomenico

    Nei 27 libri del NT sono numerosi i dati che evidenziano la presenza del minore (bambino, ragazzo, giovane) nelle comunità cristiane, come un dato pacifico, di cui non ci si dilunga a parlare. Cogliamone i dati salienti.
    • Certamente più nominata è la figura del bambino (151 indicazioni). Classiche sono le testimonianze relative all'infanzia del Battista (Lc 1, 36) e di Gesù: «Il bambino cresceva e si fortificava... in età, sapienza e grazia» (Lc 2, 40. 51); l'incontro di Gesù con i bambini (Mc 9, 36s; 10, 13s); l'uso che fa Paolo del bambino come simbolo di tenerezza (cfr. Gal 4, 19) e di immaturità (1 Cor 3, 11).
    • Il NT parla spesso anche della figura del giovane (neanias, neaniskos, neoteros, una quindicina di volte) di cui è difficile puntualizzare esattamente l'età.
    Nei Vangeli sono ricordate figure maschili, come il giovane ricco (Mt 19, 20. 22); il giovane sconosciuto presente all'arresto di Gesù (Mc 14, 51); il giovinetto figlio della vedova di Naim risuscitato da Gesù (Lc 7, 14; cfr. Gv 4, 49); il ragazzo con i pani e i pesci (Gv 6, 9); sono nominate pure ragazze, come la figlia di Erodiade che, sollecitata dalla madre, chiede la testa del Battista (Mt 14, 11); la figlia di Giairo risuscitata da Gesù (Mc 5, 42).
    Nelle prime comunità, sono menzionati i giovani che portano via i cadaveri di Anania e Saffira (At 5, 6. 10); il ragazzo che cade dal davanzale mentre assiste all'assemblea cristiana, e che Paolo risuscita (At 20, 9s); il giovane nipote di Paolo che mette in guardia lo zio dal complotto nei suoi confronti (At 23, 16s).

    A livello teologico

    A prima vista quanto il NT dice sull'età giovanile non pare avere particolare rilevanza teologica, o meglio, continua ad avere quella ereditata dal mondo biblico, di cui abbiamo sopra parlato. Ma nondimeno vi si aggiungono ulteriori connotazioni meritevoli di interesse, e che proponiamo per alcuni aspetti.

    A. La figura del minore è accolta positivamente, come un bene

    È una ovvietà dà esplicitare, richiamando il fatto che Gesù con alcuni giovani ha una relazione positiva, anzi benefica: si avvale del piccolo cibo di un ragazzo per fare
    un grande miracolo, altri restituisce alla vita e alla famiglia in pianto.
    La sintesi più efficace è espressa da Marco quando a proposito del giovane ricco si dice che «Gesù, fissatolo, lo amò» (10, 21). È un atteggiamento di stima, anzi di affetto singolare, che si manifesta in altri passi del NT, come sotto diremo.

    B. La figura del minore si iscrive in una lettura della vita come passaggio dall'immaturità alla maturità

    Colpisce in tutto il NT la polarizzazione dei diversi gradi di età nel binomio «immaturità-maturità», espresso a sua volta nei binomi nepios/aner (infante-adulto), paidion/teleios (bambino-uomo maturo), neoteroi/presbyteroi (giovani-anziani). Questo è per sé significativo di una concezione, presente del resto in tutto il mondo antico, secondo cui la giovinezza è preziosa, ma acerba, bisognosa di crescita per poter esprimere autenticamente le qualità della vita.
    In questo senso risuonano i moniti di Gesù e di Paolo.
    Nel caso del Maestro, il suo incontro con il giovane ricco, che pure egli «ama», si risolve in un'amara separazione: «Udito questo (ossia l'invito di Gesù a seguirlo), il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze» (Mt 19, 22).
    Paolo pensa la totalità dell'esistenza cristiana come una crescita, un progresso continuo e necessario dalla condizione infantile a quella adulta: «Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l'ho abbandonato» (1 Cor 13, 11; cfr. 3, 1-3; Eb 5, 12-14).
    Nella 2 Tm 2, 22, l'autore della lettera si rivolge a Timoteo ammonendolo a fuggire «le passioni giovanili» (epithymai neoteikai) (cfr. 1 Gv 2, 14). Vi è chi le riferisce alla sfera sessuale, e chi più in generale le considera come atteggiamenti intemperanti, aggressivi.
    Da questi passi non si può negare un certo deprezzamento, o almeno una considerazione molto realistica della figura giovanile, consona con il modo di pensare piuttosto patriarcalísta del mondo giudaico e di ambiente. Ma non è tutto il contributo del NT.

    C. La figura del minore è vista nel duplice segno della divina benevolenza e della vittoria sul male

     

    Ma oltre alla qualifica di immaturità ora ricordata, il minore viene visto secondo altre due valenze: per ciò che non è, ossia per la sua fragilità, è compreso come segno della potenza misericordiosa di Dio; per quello che deve fare e riesce a fare, viene elogiato come modello esemplare di lotta vittoriosa contro il male.
    • La giovane generazione, in quanto ancora non dotata delle risorse umane e sociali dell'adulto, diventa segno dell'indigenza, segnatamente nella figura del bambino. Per questo si dice che Gesù «prendendo i bambini fra le braccia e ponendo le mani sopra di loro li benediceva». In questo modo il bambino assume un chiaro valore simbolico, emblematico, che Gesù stesso esprime con quelle gravi parole: «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10, 14-16).
    • Ma í giovani sono anche capaci di qualcosa. C. Spicq, studiando íl mondo giovanile del I secolo dell'era cristiana, si è posto l'interrogativo se nella costituzione della Chiesa di Gerusalemme non sia sorto spontaneamente un raggruppamento di convertiti giovani, il cui numero doveva essere imponente (cfr. At 5, 14; 6, 7), assumendo magari, secondo l'usanza del tempo, cariche o servizi adeguati alla loro condizione. Testi come At 5, 6.10; 1 Pt 5, 5; 1 Tm 5, 1-2; Tt 2, 6; 1 Gv 2, 13-14 anche se non portano a concludere ín termini precisi, rivelano che i giovani contano nella vita comune dei cristiani come una categoria importante.
    In particolare la lotta e la vittoria contro il diavolo (forse tentazioni di ordine sessuale) stanno al centro di 1 Gv 2, 13 -14 (cfr. pure Tt 2, 6-8). Scrive Giovanni nella sua lettera: «Scrivo a voi, giovani, perché avete vinto il maligno... Ho scritto a voi, giovani, perché siete forti, e la parola di Dio dimora in voi e avete vinto il maligno». L'apostolo attesta dunque per i giovani cristiani del suo tempo sia il fatto di una lotta dura contro il male, ma insieme – e con particolare enfasi amorosa – attesta l'esito vittorioso, grazie ad una armonica coniugazione di parola di Dio e di generoso impegno umano.

    D. Incontrare i giovani «nell'educazione e disciplina del Signore» (Ef 6, 1-4)

    Da che mondo è mondo, la condotta che una società ha verso la fascia giovanile si manifesta e si verifica nel processo educativo che essa assume.
    • Nell'AT, specialmente nella tradizione sapienziale, appare una notevole sensibilità educativa verso i minori. Sviluppando i cenni fatti sopra, notiamo che la preoccupazione educativa si manifesta nell'intensità del rapporto tra scriba e discepolo visto come tra padre e figlio, si avvale di un apparato scolastico di tutto rilievo già avanti l'esilio, conosciamo la misura altamente disciplinare dei metodi, e soprattutto ricordiamo la meta dell:educazione: la realizzazione di sé, l'arrivare all'età matura, attraverso la docilità alla sapienza, meta che si consegue con il riconoscimento e l'impiego delle tante risorse umane donate dal Creatore ed insieme sotto la guida del «timore di Dio».
    • Questo «umanesimo educativo devoto» nel NT non viene smentito, ma piuttosto assume la novità apportata dal Cristo.
    Nella tavola domestica (ossia nel catalogo dei doveri) che riguarda la relazione genitori e figli (Ef 6, 1-4) compare in singolare semplicità, ma con straordinario vigore l'invito di Paolo ai genitori di «allevare i figli nell'educazione e nella disciplina del Signore» (Ef 6, 4). Per educazione viene adoperato il prestigiosissimo termine «paideia», connesso con l'altrettanto prestigioso per i cristiani termine «Kyrios», Gesù come Signore Risorto. Si intende dire che la paideia classica, meta 'ultima dell'educazione greca, ed insieme indicatore dell'uomo veramente riuscito, ebbene tutto questo ha nel Kyrios, dentro l'ambito del suo vangelo, la forma, la forza e quindi la norma.
    È compito ineludibile della famiglia educare i giovani figli; lo spirito che anima tale compito altro non può essere che l'agape: «Voi, padri, non inasprite i vostri figli» (Ef 6, 4); la meta è l'acquisizione di quell'umanesimo tanto aperto quanto sereno di cui parla Paolo ai Filippesi: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4, 8); l'energia indispensabile e vittoriosa è il Kyrios, altrove espressa nei termini di «grazia educatrice» (Tt 2, 11-12).

    Conclusione

    La Bibbia, intesa nella sua forza rivelante, ossia quale Parola incarnata di Dio, come intende la condizione giovanile?
    Il cammino fin qui compiuto permette di raccogliere alcuni dati interessanti certamente impastati dentro un mondo culturale. che non è più il nostro, ma anche segnat da una verità che vale oggi come ieri. Eccoli in sintesi:
    • Nella concezione dell'AT e del NT, il minore, quindi anche il giovane, è un bene, un dono di Dio, una benedizione, portatore di tante attese che scaturiscono pro- p"asisrio ambito familiare e sociale.
    Gesù incontra i minori, li prende in considerazione, li ama: fa ad uno di loro invito esplicito alla sequela (Mt 19, 21); ad altri ridona la stessa vita perduta. Nella prima Chiesa diventano preziosi testimoni di lotta vittoriosa sul male.
    La loro indigenza rispetto alla condizione degli adulti richiama su di loro l'abbraccio di Cristo. E se sono proposti come simbolo di chi entra nel Regno, essi stessi vanno accolti come portatori della benevolenza misericordiosa di Dio che li rende cittadini del Regno.
    • Questo non significa nessuna idolatria o esaltazione eccessiva dell'età giovanile. Dobbiamo anzi dire che nei due Testamenti, i giovani sono ammoniti per la loro immaturità, incapaci di essere coerente loro impulso generoso, come il giovane ricco (Mt 19, 22). Per loro vi è immanente la chiamata ad una crescita armonica, «in età, sapienza e grazia» (Lc 2, 52) di cui la stona di Gesù giovane diventa esemplare testimonianza valida per tutti.
    • Tale crescita o maturazione, sia nell'AT che nel NT, mira a far sì che il giovane sviluppi  le risorse che il creatore gli ha donato. L'esperienza saggiamente analizzata è voce di Dio.
    • E d'altra parte i giovani vanno compresi in Dio. Basti ricordare per l'AT il principio della sce ta e più piccolo, del giovane rispetto al grande, secondo il quale Dio opera la storia della salvezza, andando contro la mentalità patriarcalista ed adultista vigente; nel NT, l'episodio di Gesù dodicenne al tempio (Lc 2, 41-52) continua questa libertà di Dio nel confronto delle interpretazioni pur ragionevoli dell'uomo: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre Mio?» (Lc 2, 49).
    La chiamata alla sequela del giovane ricco da parte di Gesù non viene meno, anche se il primo ha deluso. Piuttosto ricorda che anche per un giovane le ricchezze (con tutta la estensione di significato) rischiano di essere, anzi sono, un micidiale ostacolo ad una sequela radicale del Maestro.
    • Tra le risorse previste per la crescita del giovane, la Bibbia rimarca l'educazione: quella umana che nasce per tanta parte dalla riflessione sull'esperienza, si fa saggezza, lasciandosi lievitare dal «timore del Signore». Il NT propone sinteticamente la «paideia Kyriou» (Ef 6, 4), che altro non è che l'agape ardente del Kyrios espressa concretamente nella cura ordinaria, in famiglia e fuori, verso il figlio, più globalmente nei confronti della figura giovanile. Primo effetto di tale agape è di togliere la crudezza di una educazione punitiva; altro effetto sarà di aprire il cuore verso «tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato...» (Fil 4, 8); mentre al centro di tutto, quale meta suprema, starà l'impegno di tendere «allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4, 14).

    Cenno bibliografico

    BISSOLI C., Bibbia e educazione. Contributo storico critico ad una teologia dell'educazione, LAS, Roma 9
    SPICQ C., La place ou le rôle des jeunes dans certaines communautés néotestamentaires, ín RB 76 (1969) 508-527.
    WOLFF H.W., Antropologia dell'AT, Queriniana, Brescia 1975.


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