Pastorale Giovanile

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    Tonalità emotive

    e paesaggi interiori

    nell'esperienza educativa

    Alcune direzioni di senso per educatori-viandanti

    Alessandra Augelli


    Nel concreto contatto col mondo e con gli altri, i sentimenti sono espressione dei modi attraverso cui gli eventi ci «colpiscono», le situazioni ci «toccano», i volti entrano a far parte della personale esistenza.
    Le tonalità emotive che si vivono nel quotidiano lavoro educativo e di cura sono percepite come inafferrabili, inspiegabili, a volte impalpabili, sfuggenti: proprio come la nuvola nel quadro di René Magritte, La bonne aventure (1939), si pongono tra l'intimità del mondo interiore e la multiformità del mondo-della-vita (Lebenswelt). È questa apertura che permette di nutrire gli interrogativi di senso; è questo andirivieni costante che suscita domande, in una ricerca incessante ove la conoscenza diviene «vitale», legata alla vita, all'esperienza vissuta.
    Risulta faticoso elaborare un sapere della cura capace di contemplare la miriade di «casi»di cui ci si occupa comprendendoli e rileggendoli alla luce dei sentimenti e delle emozioni che suscitano e delle domande di cui si fanno portatori. Difficile perché richiede la capacità di abitare gli spazi interstiziali, implica un «essere-tra» il bisogno di sicurezza dato dal fare abitudinario, dalla ripetizione dei gesti, dalla routine lavorativa e il desiderio di aprirsi alla novità, di accogliere la cifra di significato che ogni esistenza racchiude.
    Mettendoci in ascolto delle voci degli operatori sociali che sperimentano ogni giorno la complessità delle relazioni educative, è possibile tracciare una sorta di mappa del quotidiano «prendersi cura»; un tracciato che andrà ogni volta rivisitato, ma che permetterà di scorgere le zone d'ombra e quelle in luce, le zone paludose e quelle più feconde, riuscendo a scorgere limiti e bellezze, confini e valichi di una professione che si costruisce per via.

    Il lavoro sociale tra ambiguità e vulnerabilità

    Rabbia, stima, insofferenza, timore, serenità, gratificazione, stanchezza, impotenza, orgoglio, gioia, imbarazzo, stupore, smarrimento... Le relazioni, il confronto con i colleghi, la vita delle organizzazioni sociali sono costellate di un sentire molteplice, che spesso non trova spazi per venire alla luce, non trova espressioni per essere detto.
    Privati di sentieri praticabili che permettano di riconoscere e di nominare i paesaggi emotivi che si attraversano, si rischia di restringere il proprio spazio relazionale ad una serie di sentimenti che si è abilitati ad esplicitare e ci si preclude, d'altro canto, l'accesso ad emozioni che vengono rimosse, negate, neutralizzate. L'impoverimento del vocabolario affettivo, a cui si è indotti, può portare ad una apparente neutralità, che si scontra con le motivazioni profonde sottese al lavoro di cura, con la sensibilità (apertura ai sensi e al senso) che caratterizza ogni incontro con l'umanità dell'altro.
    Le relazioni non ci lasciano mai indifferenti; c'è sempre un coinvolgimento, una compartecipazione al medesimo «destino».

    Quando hai di fronte una persona, non puoi decidere se offrirgli solo parti di sé, non puoi pensare di lasciar fuori dalla comunità i tuoi sentimenti, il tuo essere. (G., educatrice professionale)

    Ogni educatore percepisce la fatica, il pericolo di entrare con tutto se stessi, di esporsi, di riconoscere le zone d'ombra e spesso si censura l'ambivalenza affettiva, si vive nella solitudine l'incertezza di un lavoro dai confini difficili da tracciare.
    Educare ed educarsi al sentire implica la comprensione di ogni vissuto emotivo, attribuendo valore e dignità ad ogni emozione dell'esperienza relazionale. Non esistono sentimenti o stati d'animo che vale la pena di prendere in considerazione ed altri a cui possiamo non dar credito. Non esiste sofferenza più acuta, o gioia più pura, o rabbia più sottile o emozione più indicibile che non meriti rispetto.
    Nel lavoro educativo coltivare la cura di sé significa prendere tra le mani in modo particolare quei sentimenti che giudichiamo «negativi», difficili da accettare, non confacenti agli standard sociali, per comprendere la loro origine, l'intenzionalità (1) che li ha guidati, come si sono dispiegati nella relazione, cosa vogliono dirci (di noi e del contesto), come orientarli.
    Avvalorare le tonalità emotive che ogni Erlebnis (vissuto esperienziale) esprime, vuol dire ritrovare la possibilità di accesso autentico all'esperienza educativa (2), in quanto permette di riposizionare lo sguardo sull'unicum di ogni persona e di riorientare «il rapporto educativo alla luce di un vissuto leggibile dall'interno» (3). La capacità di cogliere le sfumature di situazioni spesso frammentate e multiformi, la docilità di accogliere quell'insieme di «tenere imprecisazioni» – come le chiama J. L. Borges – comporta la fatica dell'essere in ricerca, l'impegno ad affinare lo sguardo interiore, lo sforzo di «ritagliare» deí tempi quieti per ascoltarsi e ascoltare.

    Ho corso più volte il rischio di cadere in una monotonia di colori, umori e azioni che mi vedevano coinvolta nel mio lavoro sempre più come estranea. Non perché veramente lo fossi! Ma perché la quotidianità e l'abitudine finivano col riempire la relazione rendendola non fredda nei contenuti, ma nei ripensamenti riflessivi... (C., formatrice).

    È la tensione riflessiva che ci aiuta, dunque, a rivedere in che modo gli eventi hanno risuonato in noi, quale senso abbiamo dato, quali nessi abbiamo colto:

    La riflessività consente di armonizzare le contrapposizioni, di rintracciare concordanze, mettendo in luce le reciprocità e i legami tra aspetti apparentemente ovvi. (4)

    L'esperienza che ne scaturisce non è intesa come meccanicità o rapidità di esecuzione di un compito, ma come capacità di leggere i segnali con acutezza, di sapersi muovere con competenza nei propri paesaggi interiori e, di conseguenza, nella relazione con l'altro; non è tanto adattamento a un compito (fare senza accorgersene), quanto saggezza (fare tesoro della realtà) (5). In questo modo le emozioni possono essere vissute non come ostacolo nella relazione, ma come parte di un flusso vitale, espressione di apertura e canali di conoscenza privilegiati. La consapevolezza di sé diviene competenza trasferibile su più livelli di azione.

    Esperienze vissute nel «quotidiano» prendersi cura

    Dalle parole con cui gli educatori si raccontano emerge la complessità dei sentimenti vissuti, la fatica di essere esposti a situazioni che destabilizzano, feriscono, disorientano.

    Sentii in me un forte senso di smarrimento e di impotenza. Non sapevo come avrei potuto avvicinarlo. Non sapevo come M. avrebbe interpretato la mia presenza. Non sapevo cosa avrei potuto dirgli e quale tipo di intervento programmare... per lui che era così poco tollerante... Non sapevo perché fossi li, accanto a un ragazzino di cui conoscevo solo il nome e la cui storia personale e familiare avevo letto su mille fogli di carta, semplice carta! Ebbi paura, paura di incontrarlo da sola. Provai rabbia, rabbia per averlo giudicato... e già sentivo crescere in me un forte senso di colpa. (C., educatrice in comunità di minori)

    Dall'«esperienza fatta di emozioni diverse, sconforto, dolore ma a volte anche sorrisi» (L., logopedista) emerge la fragilità di scoprirsi «consegnati gli uni agli altri, chiamati a una destinazione di gesti e parole, ma vulnerabili perché esposti a gesti e parole d'altri» (6).
    L'esposizione continuativa a situazioni critiche, il dover affrontare contemporaneamente, su più fronti, diverse sfide può essere motivo di «debolezza» nel lavoro di cura. La possibilità di sbagliare (fallibilità), il rischio di disgregarsi (fragilità) e l'assenza di difese, la povertà di mezzi (vulnerabilità) (7) – come condizioni esistenziali – si acuiscono quando lo scontro con il limite, con il disagio costringe a uscire allo scoperto e mostrarsi per ciò che si è, senza veli, né maschere.
    Non sempre si «trova il coraggio per guardare poco alla volta tale nudità» (8), accogliendo anche le zone più oscure e incoerenti del proprio essere.
    D'altro canto la capacità di esporsi dichiarando il limite permette di riscoprire le parti luminose di sé:

    Nello stato d'oscuramento prodotto da turbamenti, colpe, noi vediamo volentieri che brilliamo ancora per gli altri e che essi ravvisano in noi come un chiaro disco lunare. Per questa via indiretta noi prendiamo parte alla nostra propria capacità di illuminare. (9)

    Accogliendo la parzialità e l'unicità della propria personale esperienza è possibile agire sui margini di oltrepassamento. Il tentativo di ri-leggere l'esperienza vissuta di tutti coloro che si «spendono» nella relazione significa tracciare un percorso a partire da ciò che non si è: le ferite possono, così, diventare feritoie, come dice A. Carotenuto, gli ostacoli possono trasformarsi in leve.
    Quando si rema controcorrente. Come l'albatros nella poesia di Baudelaire – «avvezzo alla tempesta, si ride dell'arciere, ma esiliato sulla terra, tra schemi, camminare non può per le sue ali di gigante» (lo) – così la sensibilità degli operatori spesso deve far fronte alle «beffe» dei «pratici» e di un mondo che non apprezza il «volo».
    Immersi in correnti di pensiero consolidate, in flussi di consuetudini prestabilite, il tentativo di invertire il senso di marcia può alimentare il senso di solitudine e lontananza e non di rado si entra in un vortice di incomprensioni, controversie, disaccordi. Si vive la frustrazione di vedere le progettualità scontrarsi con i limiti dei conti di spesa, o le proprie sensibilità e attenzioni venire scalzate dai ritmi frenetici del lavoro. Superando il senso di resa e rinuncia, tali limiti possono motivare la ricerca di nuove soluzioni, la creazione di «comunanze», sviluppare creatività e spirito di iniziativa nel gruppo di lavoro, ridefinire obiettivi più realistici.
    Quando ci si sente inermi. Il lavoro di cura richiede non soltanto gesti, azioni, pratiche (il «fare»); tante volte esige silenzi, soste (il «non fare», il «lasciar essere»). Il senso di impotenza accompagna le situazioni in cui si deve far spazio alla libertà delle scelte altrui, in cui si intravede il bisogno, ma si attende che venga alla luce. La capacità di «abitare il limite» è faticosa e spesso vacilla: di fronte al disagio ci si sente inutili, si indebolisce la motivazione, viene meno la speranza e la fiducia nelle proprie capacità.

    Ho provato un senso di inutilità, perché non sono stata capace di difendere L. Ed ho taciuto... i miei silenzi, che sovente si trasformavano in accettazione passiva di ciò che mi veniva imposto. (G., educatrice professionale)

    D'altro canto il riconoscimento della limitatezza – personale e della situazione – induce un fecondo ridimensionamento, può insegnare a chiedere aiuto, a cercare risorse fuori di noi, a rafforzare la preparazione e la formazione li dove ci si scopre carenti.
    Quando i «grazie» non arrivano. In ogni relazione vi è la necessità di trovare conferme al proprio esserci, segni che ci facciano sentire presenti nella storia, nel mondo. Nel quotidiano «prendersi cura» questo bisogno a volte si amplifica in quanto l'investimento affettivo ci mette in gioco totalmente, senza sconti, né riserve; diventa di «vitale» importanza che i semplici gesti di gratitudine o di riconoscenza ci ri-consegnino l'immagine di una vita spesa bene, per gli altri.

    I momenti di sollievo li provo quando un paziente o un familiare ti dicono «grazie» o quando si apre un sorriso dopo parole di speranza che ho cercato di infondere. (L., logopedista)

    Si comprende la fragilità di un educatore che non riesce a cogliere tracce del suo operare, o fatica a scorgere volti grati per la sua presenza, o a lungo non raccoglie frutti della sua semina.

    Quando nessuno sembra accorgersi del mio impegno, ho imparato a irrobustire il senso dell'attesa...Forse non sarò io a cogliere i frutti, ma altri...Il «senso» viene costruito giorno per giorno ed è bello per la sua novità e per la fatica della ricerca. (C., consulente familiare)

    Quando ci si scontra con l'inspiegabile della vita. Di fronte alle situazioni dolorose, difficili, ci si chiede con insistenza: «Perché? Perché tutto questo?».
    Tante le vicende vissute nel lavoro che si ritengono inaccettabili, che lo sguardo quasi rifiuta di vedere, che il cuore percepisce come ingiuste. È la fragilità di sentirsi impreparati ad incamminarsi sulle strade impervie del dolore: sarebbe meglio non aver visto, non aver udito, non essere stati coinvolti; eppure siamo li, e si dibatte il rifiuto di una situazione inammissibile, la negazione di un dolore immeritato, la rinuncia ad agire.

    Di fronte a una ragazza giovanissima, fortemente compromessa nelle sue facoltà cognitive ho provato rabbia. Rabbia perché ero lì e non avrei mai voluto esserci. Rabbia per quello che da oggi a domani può succedere nella vita, rabbia per il lavoro che ho scelto. Rabbia per paura. (L., logopedista)

    Il rischio di ritirarsi e chiudersi nella solitudine è alto. Occorre riannodare reti di sostegno e di condivisione, nutrire il dialogo, perché il senso possa essere ricercato assieme.
    Quando la paura blocca. Errare humanum est: si sente spesso ripetere questa massima, ma è difficile farla propria nei vissuti di cura. Accettare le sconfitte, «permettersi» di sbagliare sembra quasi non sia concesso in un lavoro delicato e attento, che a volte veste di presunta onnipotenza.
    Il timore di sentirsi fragili può portare al mancato riconoscimento degli errori, la paura di esporsi al rischio di ulteriori cadute può immobilizzare e bloccare sulle soglie dei ricominciamenti. L'ansia di fallire può inibire il pensiero, impedire di vedere le situazioni per quelle che sono, ingigantire gli ostacoli, inducendo a fuggire o a ergere difese eccessive.
    «Dovevo fare di più», «Avrei potuto fare meglio», «E colpa mia»: il senso di colpa, le recriminazioni, se assorbite in eccesso, non contestualizzate e rielaborate possono alimentare lo scoraggiamento per il proprio compito educativo e non promuovere la produzione di cambiamento.
    L'inquietudine dell'errare può, d'altro canto, aiutare a conoscere i pericoli, valutarli e rispondervi con più coraggio; può sostenere la ricerca della giusta distanza e la prudenza; può segnare la crescita quando le paure vengono superate.
    Guadagnare consapevolezza sulle tonalità emotive del prendersi cura permette di scorgere tracce di senso:

    Per la sua dimensione di «operazione a rischio», il lavoro educativo comporta l'accettazione del limite non come barriera da non oltrepassare, ma linea di partenza dalla quale ricominciare. (11)

    A stare con gli ultimi si è più vulnerabili, ma si impara di più, diceva una canzone; quando ti esponi alla vita, in tutte le sue espressioni, sei più fragile, ma lo sguardo si affina a cogliere le sfumature e dentro, serenità e inquietudine si alternano, rendendo l'agire più autentico. (M., consulente familiare)

    Passi discontinui, tra presenza e fuga: l'educatore-viandante

    Attraversando i vissuti di fragilità e vulnerabilità ci si accorge di quanto l'esserci possa essere «frantumato» dalla complessità delle relazioni di cura.
    I passi degli educatori sembrano procedere non secondo una linea retta, ma una sequenza frammentata di brevi tratti, sentieri che si perdono nel bosco (gli Holzwege heideggeriani), percorsi ove è facile restare privi di punti di riferimento. Fermarsi, cadere, rialzarsi, perdersi, tornare indietro, avanzare di corsa, aspettare l'altro sono movimenti e posture esistenziali, che connotano non solo l'essere-nel-mondo, ma l'essere-in-relazione.
    L'apertura al sentire acuisce l'erranza educativa perché il sentimento interroga, smuove, provoca cambiamenti, conduce verso l'altro, spinge a ritornare a se stessi; privilegiando i sentimenti come dimensione sostanziale–non accessoria – del prendersi cura non si può elidere la fatica e lo sforzo dell'essere costantemente in ricerca. In altre parole occorre fare i conti con la fatica di «affrontare anche questioni che erano state faticosamente archiviate in nome di una immediata e superficiale "tranquillità"» (12).
    Nella discontinuità di situazioni diverse non si smette di cercare una coerenza, una continuità, non si placa la ricerca di senso che accosti frammenti, stabilisca nessi tra le esperienze. Il lavoro di cura è teso tra il desiderio di un continuum che si stabilisca tra noi e l'altro, tra la vita personale e quella professionale, e la paura, al contempo, che questo possa fare male, disorientare.

    Ci si porta dietro il pensiero del lavoro, i volti, i sorrisi, i pianti (...) Le relazioni di cura non sono legate ad un marcatempo che segna le tue trentasei ore settimanali, ma a te stesso; per ragioni di «vita» cerchi comunque di legare il tuo lavoro solo e soltanto a quelle ore... (L., logopedista)

    La ricerca di tale continuità è tensione feconda dell'agire educativo perché tenta di ricomporre le fratture tra «cuore, mente e mani», tra il coinvolgersi e il distanziarsi, tra la presenza e la fuga, tra il ruolo e la persona.
    È in questo lavorio, nell'accostare, come in un caleidoscopio, i diversi «pezzi» del percorso professionale e della storia personale, le tessere di un'immagine che si ristruttura e si arricchisce dí volti, gesti, parole, silenzi, che si profila la possibilità di ri-conoscere la bellezza dell'essere-per-l'altro.
    Nella consapevolezza che «la strada si fa camminando» – come dice A. Machado – che in educazione ci si incammina verso mete provvisorie, costeggiando margini di rischio e imprevisto, tentiamo di delineare possibili direzioni di senso per educatori-viandanti.

    Nutrire il pensiero errante. «Abbiate pazienza verso quanto non è ancora risolto nel vostro cuore, e tentate di aver care le domande stesse come stanze serrate e libri scritti in una lingua molto straniera. Vivete ora le domande» (13). Nel concreto del lavoro di cura è necessario coltivare un'attenzione alla domanda, più che alla risposta, al bisogno implicito, più che alle necessità dichiarate; ciò comporta l'esercizio instancabile di una riflessività capace di rimettere in discussione, ri-comprendere i vissuti, di saper ritornare sui propri passi, riconoscendo l'errore, accogliendo la possibilità di perdersi, per poter dare «ragione» alle scelte. «Il sentimento come stile – dice E. Franzini – ci insegna la saggezza dell'incertezza».

    Soste e ricominciamenti. Quando si è per l'altro e non si risparmia alcuna parte di sé, il richiamo a ri-prendersi, a ri-possedersi, a ritrovarsi si fa forte; la relazione di cura, ponendoci di fronte a continue rivisitazioni del nostro modo di agire, rischia di svuotarci, se tale movimento di vaglio e di critica diviene motivo di ripiegamento e non origine per una autentica libertà di esserci. Nella conversazione intima del sé,

    l'importante non è infatti il ripiegamento, ma la concentrazione, la conversione delle forze. La persona non indietreggia se non per spiccare meglio il salto. (14)

    Soltanto nell'azione riflessiva può compiersi la ri-elaborazione e la trasformazione di quei vissuti esperienziali «difficili».
    Dice Etty Hillesum:

    Se abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare, se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione – allora non siamo una generazione vitale.

    A una pedagogia del dono si accosta l'esigenza di una salda formazione alla cura di sé: il rischio di smarrirsi nei sentieri del dare, dell'offrire aiuto è alto se non ci si concede soste che ci permettano di «interiorizzare» i passi fatti e volgere lo sguardo all'origine e alla meta dell'andare.

    Ricercare la giusta distanza, per non fuggire. Una situazione quotidianamente sperimentata è quella che Simone Weil richiama con poesia e asprezza:

    Pietra sul cammino. Gettarsi sulla pietra come se, con un certo sforzo, essa non dovesse più esistere. Oppure andarsene, come se fossimo noi stessi a non esistere. (16)

    Di fronte all'ostacolo, al limite la reazione più comune è quella di fuggire:

    Vorresti scappare via quando tocca a te tentare di dare a quella sofferenza un nome. (L., logopedista)

    Quando la difficoltà è vissuta dall'operatore come minaccia per la propria «integrità», quando la paura di mostrare debolezze prevale sulla forza per fronteggiarla si è portati a sottrarsi, a delegare il compito, a omettere risposte. Tecniche innovative, strumenti formativi sofisticati, non eliminano la sensazione di insicurezza insita nel lavoro di cura, non esimono dalle incognite dei percorsi educativi, dove la relazione si gioca sull'intensità di un gesto, sul significato di una parola, sul valore di un sorriso.
    Si affaccia la necessità di trovare la giusta distanza, che disponga a uno «sguardo un po' più complessivo, la capacità di usare il grandangolo e non solo lo zoom per capire se stessi» (17) e le situazioni.
    Nella riflessione fenomenologica «vicino a me significa nient'altro che alla maggiore portata della mia cura, del mio interesse, del mio orizzonte vitale»: se la vicinanza è «ciò presso cui si sofferma maggiormente il nostro prenderci cura» (18), la distanza – lungi dall'essere equiparata a indifferenza o freddezza – è ugualmente vissuta, abitata.
    Nella partecipazione a un comune mondo-della-vita (Lebenswelt), la giusta distanza permette di concepire la differenza come possibilità per un'autentica relazione empatica, di evitare i rischi connessi alla fusionalità e all'eccessivo coinvolgimento, di vivere il ruolo non come corazza, difesa o garanzia di neutralità.

    Camminare-con. Camminare accanto all'altro non è camminare-con l'altro. L'incontro tra operatori che volgono la loro dedizione verso le stesse persone, negli stessi spazi, va orientato a una comunicazione e una comprensione che non sia puro scambio formale di informazioni, ma compartecipazione dei vissuti e valorizzazione delle competenze di ciascuno.
    Da un gruppo capace di «accordare» diversità si trae forza per recuperare motivazione nell'impegno, coraggio per affrontare limiti e difficoltà, tenerezza per vivere il lavoro non solo come impiego, ma come spazio di vita in cui l'essere persona si esprime e si compie soprattutto grazie all'alterità. Il cammino condiviso implica il saper attendere i tempi altrui, potenzia la creatività di trovare sentieri nuovi, aiuta a vivere la crisi come momento importante di passaggio, perciò di crescita e maturazione.

    Camminare-per. La fiducia nella relazione - e nel più ampio contesto di cura - nasce dall'incontro empatico con l'altro, dove la condivisione delle emozioni permette di riconoscere la comune-umanità che lega tra loro le persone.
    La presenza - con una carezza o con un sorriso - nelle situazioni di sofferenza, il grido di rabbia in una condizione di ingiustizia, il dialogo intessuto nella complessità di alcuni eventi, non sono soltanto gesti circostanziati alla ristretta sfera della relazione educatore-educando, o operatore-utente, ma - come fenomeno «a cascata» - acquistano la forza di azione «politica» quando si riversano nel mondo familiare della persona in cura, quando si diffondono per «contagio» nel gruppo di lavoro, quando diventano buona pratica nella società in cui operiamo.
    I valori che si saggiano nella relazione interpersonale diventano etica pubblica e il lavoro di cura opera di civiltà.

    NOTE

    (1) Cfr. Franzini E., Filosofia dei sentimenti, Mondadori, Milano 1997.
    (2) lori V., Essere per l'educazione, La Nuova Italia, Firenze 1988, p. 9.
    (3) Ivi, p. 102.
    (4) Navarini G., La riflessività sta nel trattino, in «Animazione Sociale», 8/9, 2003, pp. 11-12.
    (5) Cocever E., Chiantera A., Scrivere l'esperienza in educazione, CLUEB, Bologna 1996, p. 12.
    (6) Lizzola I., Tarchini W., Persone e legami nella vulnerabilità. Iniziativa educativa e attivazioni sociali a partire dalla fragilità, UNICOPLI, Milano 2001, p. 70.
    (7) Cfr. Pialli L, Fenomenologia del fragile. Fallibilità e vulnerabilità tra Ricoeur e Lévinas, Edizioni Scientifiche Italiane, Perugia 1998.
    (8) Zambrano M., Verso un sapere dell'anima, Cortina, Milano 1996, p. 82.
    (9) Nietzsche F., Il viandante e la sua ombra, Editrice Monanni, Milano 1927, p. 48.
    (10) Baudelaire C., L'albatros, in Opere, Mondadori, Milano, p. 162.
    (11) Mapelli B., Nuove virtù, Guerini, Milano 2004, p. 101.
    (12) Tratto dal Centro per le Famiglie di Reggio Emilia, in Iori V. (a cura di), Emozioni e sentimenti nel lavoro educativo e di cura, in «Strumenti», 9, 2003, p. 68.
    (13) Rilke R. M., Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 2004, p. 30.
    (14) Mounier E. , Il personalismo, Editrice AVE, Roma 2004, p. 74.
    (15) Hillesum E., Diario 1941-43, Adelphi, Milano 1998, p. 167.
    (16) Weil S., Quaderni, Adelphi, Milano 1989, p. 121.
    (17) Mapelli B., Nuove virtù, op. cit., p. 127.
    (18) Bracco M., Sulla distanza. L'esperienza della vicinanza e della lontananza nelle relazioni umane, Stilo, Bari 2001, p. 36.

    (Animazione Sociale, 8-9 2007, pp. 57-63)

     


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