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    Prendersi cura

    delle relazioni

    Luigina Mortari


    I
    l pensare può sembrare la più solitaria di tutte le attività, invece non può esistere senza qualche interlocutore o una qualsiasi compagnia. L' interazionismo di matrice vygotskiana spiega lo sviluppo delle attività mentali superiori come interiorizzazione dei processi cognitivi vissuti in interazione con altri. Il pensare è sempre un pensare-con-altri, un dialogare con l'altro generalizzato che, secondo la definizione di George H. Mead, è quella comunità sociale di appartenenza la quale, qualificandosi come universo di discorso, rende possibile il pensare intrasoggettivo. Noi siamo il nodo di relazioni in cui ci troviamo a essere e quindi anche il nostro pensare è forma emergente di queste relazioni. Già Kant aveva parlato di una «costruzione sociale del pensiero» conseguente al fatto che noi possiamo pensare correttamente solo nella misura in cui «pensiamo in comune con altri a cui comunichiamo i nostri pensieri, e che ci comunicano i loro». Per questo l'essere privati della possibilità di confrontarsi con altri è tutt'uno con l'essere privati della possibilità di pensare (Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero?, Adelphi, Milano 1996, pp. 62-3).

    Nel contesto relazionale si coltiva non soltanto il pensare ma anche il sentire, perché i sentimenti che aiutano a vivere (saper accettare, avere speranza, nutrire fiducia, sentire tenerezza) hanno necessità dello sguardo e del gesto di altri, mentre nell'isolamento dello spazio intrasoggettivo annichiliscono. I «momenti supremi dell'anima» forse non sono quelli che segnano la radicale distanza dalle situazioni terrestri (Emily Dickinson, poesia 306), ma accadono quando l'essere-congli-altri nutre la fioritura del nostro esserci. Come ci ricorda Cicerone, è la relazione amicale che tiene viva la luce della speranza impedendo che l'anima si avvilisca (Cicerone, De amicitia, VII, 23). È stando in una relazione di cura che si ha cura della propria vita.
    Dopo la dissoluzione del soggetto non è più possibile concepire la mente come un grumo di pensieri dai contorni ben definiti, che la ragione cartesiana potrebbe gestire in termini manageriali. Con la svolta epistemologica provocata dal paradigma ecologico il concetto di "mente'', che la psicologia freudiana aveva dilatato verso l'interno fino a includere i processi inconsci, viene ora dilatato verso l'esterno: le nostre menti sarebbero forme emergenti da una più estesa materia cognitiva trasparente, nelle quali si annodano eventi cognitivi che fluiscono nel più vasto ecosistema mentale. Pertanto non si dovrebbe pensare alla mente come unità discreta soggetta solo a un principio interno di auto-organizzazione, ma come intrecciata in una struttura circuitale complessa, rispetto alla quale il principio autopoietico è diffuso nell'intero sistema e si autocostituisce sulla base di una logica evolutiva immanente. La mente individuale può essere pensata come una rete di nodi noetici intessuti in un network informativo esteso con il quale starebbe in un' inaggirabile relazione di codipendenza costruttiva; di conseguenza il pensare andrebbe concepito in termini auto-eco-logici.
    Sottesa a questa concezione interazionista dei processi cognitivi c'è l'ontologia della relazionalità, ossia il pensare l'esserci come coesistenza, nel senso che l'esistenza singolare non è mai individuale, ma sempre copartecipata. L'essere singolare è sempre plurale, cioè forma emergente dell'annodarsi di una pluralità di relazioni in cui l'esistenza di ciascuno trova la matrice generativa del suo divenire in quanto con-essere. Nell'ontologia della relazionalità la dimensione sociale o intersoggettiva non si aggiunge a quella individuale come se questa preesistesse all'incontro con altri, ma è l'essere-con che struttura l'essere singolare. La relazionalità, lo scambio, il dialogo sono all'origine della possibilità di esserci. In questo senso la pluralità è al cuore dell'essere (Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1989, p. 173). Enunciare la primarietà ontologica dell'essere in relazione non significa, però, negare la solitudine inaggirabile dell'esistenza singolare, in cui ciascuno si trova a sopportare da solo la fatica di esistere; significa invece sottolineare che la condizione umana porta al suo cuore un paradosso che segna originariamente l'esserci: ciascuno è un essere singolare e plurale nello stesso tempo, poiché patisce in solitudine il farsi dell'esistenza, che è però possibile solo nella copartecipazione plurale.
    Il fatto che l'essere in relazione sia la possibilità stessa dell'esserci ha come implicazione che non c'è possibilità di senso nell'isolamento; il senso si struttura nello scambio con altri, prende forma laddove c'è un tessuto vivo di relazioni; nell' isolamento c'è solo possibilità di consumo di sensi già dati. È in quell'esistenza singolare che attualizza la sua tensione originaria alla pluralità che si dà l'auto-eco -poiesi del senso.
    Presupporre la primarietà ontogenetica della pluralità significa offrire al discorso una sintassi con cui smantellare il linguaggio atomistico-disgiuntivo e meccanicistico con cui a lungo abbiamo nominato la vita, e con essa la vita della mente. Ne consegue che l'ontologia della relazionalità applicata ai processi cognitivi non può non avere significative implicazioni rispetto al concetto di cura della vita della mente.
    Se il confronto con altri è condizione dell'emergere della capacità di pensiero, si può presumere che la qualità del contesto relazionale in cui si apprende a pensare abbia significative implicazioni sulla qualità delle capacità cognitive sviluppate. Il verificarsi di un'esperienza educativa richiede necessariamente un processo di affidamento nella relazione con chi ci può essere maestro. Ma proprio perché in gioco c'è il materiale più delicato e più prezioso – la vita della mente – occorre che chi ha responsabilità dei processi educativi si prenda a cuore la qualità delle relazioni in cui si gioca l'affidamento magistrale. Nel Protagora Socrate sottolinea la delicatezza dell'affidamento educativo: poiché l'educazione è un processo relazionale in cui qualcuno non ancora esperto nell'arte di vivere viene affidato a qualcuno cui si chiede di aver cura dell'anima, occorre riflettere accuratamente sulle scelte che si fanno per «non mettere in pericolo ciò che si ha di più caro» (Platone, Protagora, 314a).
    La mente è materiale delicato, nel quale le esperienze si imprimono indelebilmente; degli insegnamenti ricevuti non ci si può liberare facilmente: una volta appresi si rimane danneggiati o avvantaggiati. È pericolosa, non solo sul piano personale ma anche su quello sociale e politico, quell'indifferenza, piuttosto comune, che porta a non curarsi dei contesti relazionali entro i quali si coltiva il pensiero.
    Che sia importante coltivare la vita della mente stando in relazione con persone che si sente essere autorevoli, quindi maestre di pensiero, era convinzione fortemente presente nella cultura antica dove la cura di sé era intesa come una vera e propria pratica sociale (Foucault, La cura di sé, Feltrinelli, Milano 1996, p. 55). Non solo c'era nelle comunità filosofiche una gerarchia riconosciuta che consentiva ai più esperti di orientare gli altri, ma era fortemente sentita la necessità di affidarsi a un maestro realmente capace di coltivare la vita interiore. Un interessante documento di questa pratica magistrale è costituito dalle Lettere a Lucilio, nelle quali Seneca non solo mette in scena alcune pratiche di cura dell'altro (fornire consigli morali, fare dono giornaliero di "pensieri saggi" per aiutare l'allievo a costruirsi un proprio ordine simbolico di riferimento), ma mostra come questo impegno vada praticato regolarmente così che l'altro si senta dentro una relazione di cura. È lo stare dentro relazioni di cura che fa lievitare il pensiero, perché sentirsi oggetto di cura rende possibile arrischiare la ricerca radicale della verità, che richiede di trovare la forza di lasciare biodegradare verità trite e asfittiche cui la mente tende a rimanere legata per sperimentare la ricerca di quegli orizzonti di verità che attraverso il dialogo aperto con l'altro riconosciamo essere vitali.
    Da coltivare sono quelle relazioni alle quali sentiamo di poter accordare il nostro consenso interiore, perché hanno come riferimento persone per le quali proviamo un sincero sentimento di ammirazione. L'ammirazione è una passione fondamentale, la prima di tutte le passioni, la definisce Cartesio in Le passioni dell'anima, perché ha il potere di catalizzare la forza vitale orientandola all'ulteriore. L'ammirazione non è, però, qui intesa come quella risposta emotiva che esplode improvvisa allorché la mente registra qualcosa di nuovo; è invece un atto mentale che prende forma col tempo, come conseguenza del riconoscimento di autorità dell'altro guadagnato attraverso una riflessione valoriale.
    Ci sono verità che ci passano accanto: razionalmente le cogliamo, ma non hanno la forza di scavare nella nostra anima. Accade, invece, che quando sono formulate da persone il cui pensiero riteniamo essere degno di attenzione sono capaci di innescare una vera trasformazione interiore. L'ammirazione è quel sentimento che crea movimento, produce spostamento dell'ordine simbolico. Essere capaci di ammirazione significa uscire dall'autarchia del sé e aprirsi all'alterità. Quando è sostenuta da quello sguardo intelligente che dà misura al nostro sentire e ai nostri pensieri evitando sentimenti smisurati, la capacità di ammirazione è risorsa simbolica. È l'ammirazione a metterci in ascolto della verità. Quando si sta in ascolto di chi si ammira, l'anima trema. Segno che dentro c'è movimento. Si sente nella carne il rapporto asimmetrico che c'è con chi si ammira e nessun desiderio di andare a parità si accampa nella mente. L'unico desiderio è quello di riuscire a stare in ascolto del dire dell'altro e trovare da lì guadagni essenziali.
    Sono i sentimenti positivi, come l'amicizia, l'ammirazione e la simpatia, che proviamo nei confronti di certe persone a disporre la mente a quel certo grado di attenzione che la rende sensibile alla verità: la circolazione della verità è in stretta connessione con il clima emotivo che permea i contesti relazionali e «questo vale per qualsiasi genere di verità» (Weil, La prima radice, SE-Mondadori, Milano 1990, p. 188). L'ammirazione consente di strutturare una relazione asimmetrica in cui il soggetto educativo riconosce ad altri un di più, quel di più che legittima l'affidamento magistrale.
    Ma il processo educativo non ha bisogno solo di questo tipo di relazioni, come sono quelle magistrali: a costituire la matrice di un lavoro simbolico che nutre la mente sono anche le relazioni tra pari, precisamente quelle in cui si materializza l'aver cura reciproco. Esemplare di un contesto di cura tra pari è la relazione di amicizia. È la relazione amicale, infatti, che insieme a quella materna è considerata paradigma della relazione di cura.
    L'amico è franco e sincero mentre si cura di te. Ed è di questo tipo di cura comprensiva ma allo stesso tempo critica e severa che la mente necessita per crescere. Non di complicità che rinuncia a dire la verità per timore di spezzare ciò che lega, né d'altra parte di critiche violente dove l'aggressività sul pensiero dell'altro viene contrabbandata per severità. Certo il pensiero ha bisogno di urti, ma di urti necessari, non smisurati. Quegli urti che solo l'amico franco, ma insieme capace di una profonda comprensione empatica, può provocare.
    L'amicizia cui mi riferisco non è quel fenomeno d'intimità in cui gli amici aprono reciprocamente la loro anima incuranti del mondo, ma è una relazione rilevante sul piano politico perché si costituisce come il luogo privilegiato per l'esercizio del pensare che va in cerca della verità. La relazione amicale non è scambio di parole fra individui che si sono ritagliati uno spazio lontano dal mondo, ma è dialogo che ha per oggetto il mondo comune dell'esperienza, e come tale attiva un discorso fatto di domande che mantengono il pensiero ancorato al reale.
    Il dialogo che avviene fra amici ha la qualità della continua apertura al mondo, proprio perché è costitutivo del pensare amicale il non presumere mai di aver agguantato la verità definitiva, quella definizione coercitiva che metterebbe fine a ogni ricerca. Il dialogo autentico è quello che rimane aperto all'esplorazione di un'infinità di opinioni possibili; e questo tipo di apertura, in cui si accetta che le nostre teorie vengano biodegradate, richiede un contesto relazionale in cui sentirsi accolti e compresi anche quando le nostre idee si frantumano e le nostre epistemologie mostrano tutta la loro fragilità. Ed è proprio la relazione amicale quella che fornisce un humus affettivo tale da sentire di poter arrischiare la radicale messa in discussione di sé. In questo senso l'amicizia è quella relazione privilegiata in cui del pensare si ha cura autentica, perché gli amici non si limitano a dire ciò che viene in mente in quel momento, ma si prendono cura di quel pensare che va in cerca della giusta misura con cui mettere ordine nel mondo.
    La relazione amicale autentica è generativa di un pensare che sta nell'ordine della verità in virtù del fatto che è proprio dell'amico stare col pensiero dell'altro in una relazione di ricerca della verità. L'amico vero, infatti, va in cerca della verità che rischiara l'esperienza, e in questa ricerca non accetta infingimenti e ipocriti nascondimenti, poiché sa che il bene sta in una relazione essenziale col vero. È possibile che l'amico mi giudichi in modo più giusto di quanto io faccia con me stesso, chiarendo aspetti di me che non vedo. Questo accade perché, in quanto attento alla mia singolarità, l'amico è capace di quell'atto empatico che consiste nel presentificare il mio vissuto per cercare di esso una comprensione quanto più possibile originaria. Fra amici il dire la verità, pur nella durezza che accompagna certe enunciazioni e nel groviglio di emozioni che può suscitare, è generativo di ulteriori mosse vitali del pensiero poiché ha profonde somiglianze con la verità materna: quella che, mossa da un sentimento di benevolenza e di intera accoglienza dell'altro, non fa sentire giudicati, bensì accolti da un pensiero che sa aver cura. Proprio la relazione amicale, quindi, può fornire quelle risorse emotive di cui la ricerca della verità deve nutrirsi per poter sostenere un pensare che non rinunci mai al suo impegno interrogante, anche quando ha l'impressione di mancare l'approdo a isole di pensieri veri.
    Questo legare l'aver cura di sé alla cura delle relazioni con altri può essere interpretato come un aumentare il tasso di fragilità della nostra esistenza, perché ci renderebbe più dipendenti dal contesto. È questo un vecchio argomento dibattuto fin dall'antichità (Nussbaum, La fragilità del bene, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 626-7) che sta in relazione con la tesi che concepisce la felicità non come un agire bene con altri, ma come una condizione interiore conseguente al guadagnare una condizione di autosufficienza. Sembrerebbe che il far affidamento su una rete di relazioni annulli automaticamente ogni possibile sfera di libertà; l'unica salvezza consisterebbe nel confidare solo su sé stessi. Ma il far coincidere lo stato di autosufficienza, cioè quell'ipotetico bastare a sé stessi che si darebbe in una condizione sciolta da ogni vincolo relazionale, con la libertà è un errore, perché se autosufficienza e libertà coincidessero, allora l'essere umano non potrebbe mai godere della libertà, dal momento che a nessuno è dato vivere una vita svincolata da reti di relazioni essendo la condizione umana quella della pluralità: l'essenza dell'essere è nella sua co-essenza. Co-essenzialità significa che l'essere singolare diviene tale nella pluralità delle relazioni in cui ciascun essente sta in una dipendenza co-strutturale. Dire che la pluralità è l'essenza dell'esser-ci significa affermare che non c'è prima un essere singolare che poi in seconda battuta si aprirebbe agli altri, poiché la pluralità sta al cuore dell'essere. Non è, dunque, che noi rendiamo fragile e incerta la nostra esperienza quando decidiamo di tessere le relazioni che definiscono lo spazio del nostro agire; è la condizione umana, in cui la singolarità dell'esistere è plurale nella sua essenza, a essere intrinsecamente fragile proprio perché, dal momento che essere è con-essere, nessuno è autosufficiente rispetto al problema del dare senso alla propria vita. È impossibile pensare a un essere singolare che realizza la sua essenza in una chiusura autoreferenziale.
    Ragionando nell'orizzonte aperto dall'ontologia della pluralità, ossia di quel pensiero che concepisce la relazionalità come matrice morfogenetica dell'esserci, per cui ogni essente nella sua singolarità è forma emergente dai nodi di relazioni in cui l'essere diviene in quanto con-essere, allora aver cura di sé avendo cura del tessuto di relazioni in cui siamo significa cercare orizzonti di senso mantenendosi fedeli al proprio della condizione umana, quello che ci fa essere costitutivamente aperti agli altri. Nulla, infatti, è più necessario della relazione; ciascuno ha bisogno di legami, perché al di fuori di una rete di relazioni significative non si può vivere interamente. L'autosufficienza è possibile solo in quell'immaginazione che ha sciolto ogni legame con la realtà.
    Se si assume come presupposto l'ontologia della relazionalità, quella che descrive il farsi di ogni forma di vita, e quindi anche di quella mentale, come insuperabilmente dipendente dall'annodarsi di relazioni, allora l'interpretare l'aver cura in termini auto-sociologici assume i contorni di una necessità, ossia di una scelta che sta al reale della condizione umana. È vero che le relazioni, anche quelle più importanti come quelle amicali e politiche, sono legami instabili, soggetti a continue perturbazioni, e che per questo richiedono molto lavoro di cura, sia sul piano cognitivo e affettivo che pratico, legami che quando vengono meno può accadere di patire un senso di desertitudine che blocca ogni spinta ad agire, ma è comunque altrettanto vero che anziché cercare una finta autosufficienza ego-logica è preferibile vincolarsi a isole precarie di certezza in quell'oceano di incertezza che resta la condizione umana.
    Ciò che fa la differenza è il modo di stare in un contesto: se a dominare è la logica del controllo, allora il singolo si trova a vivere le relazioni con altri costantemente angosciato dal sentimento della perdita, un timore questo che annichilisce le energie; se invece ci si fa orientare dal principio dell'aver cura, allora – per la natura stessa di questa disposizione che implica un soggetto delocalizzato empaticamente verso l'altro – ci si libera dalla paura di perdere autonomia e lo stare con altri diventa lo spazio esperienziale da investire di senso. Dove viene meno ogni spinta al controllo e al dominio degli altri, l'aver cura si fa efficace principio d'ordine.
    Investire un progetto di vita sull'aver cura delle relazioni significa rischiare, ma evitare tale investimento equivale a una decurtazione grave delle possibilità di realizzazione esistenziale. È preferibile arrischiare di aver cura di relazioni significative come quelle amicali e politiche che, pur fragili e incerte, sono quelle che secondo Aristotele fanno della vita umana un bene degno di essere vissuto.

    (da: Aver cura della vita della mente, Carocci, Roma 2013, pp. 130-137) 


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