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    La pastorale

    nel mondo

    dei preadolescenti

    Luigi M. Pignatiello


    Premessa

    Il Concilio Vaticano secondo, tra gli altri meriti suoi numerosi ed alti, ha avuto anche quello di registrare il concetto di pa storale e l'ottica con la quale la pastorale va considerata.
    Tale registrazione è il frutto della rinnovata concezione ecclesiologica, la quale ha rispolverato la dimensione orizzontale della Chiesa, restituendo al loro ruolo originale, e, diciamolo pure, alla loro dignità originale, tutti i membri del Popolo di Dio.
    Tutti ricorderanno la classica distinzione della pastorale come scienza e come arte. Distinzione che non ha perduto il suo valore, ma che appare oggi non esaustiva degli aspetti sotto i quali la pastorale va considerata. Distinzione, anzi, che resta propedeutica ed estrinseca al contenuto sostanziale della pastorale.
    Oggi, l'oggetto della maggiore e più approfondita attenzione, accanto ai fini, restano i soggetti della pastorale, ed essi considorati in un quadro ormai imprescindibile, che si enuncia in modo semplice, ma ricchissimo di imrk canze: la pastorale è opera di tutta la Comunità ecclesiale.
    La prima implicanza che immediatamente salta agli occhi è il superamento della netta contrapposizione tra Clero e Laicato nella costruzione del Regno di Dio, quasi che l'uno fosse l'operatore e l'altro il prodotto grezzo da manipolare. Non che possano sparire le differenze; anzi, io sono convinto che, sul piano delle cose concrete e dei fatti operativi, la distinzione tra azione pastorale ed azione apostolica, come indicative di caratteristiche diverse dei compiti del Clero e di quelli del Laicato, sia non solo tuttora attuale, ma sia necessaria per evitare equivoci e confusioni. E dirò subito che le due espressioni non sono contrapposte, bensì in rapporto tra loro come genere e differenza specifica, in cui il genere è rappresentato dall'apostolato, comune a tutti, e la azione pastorale è la differenza specifica, propria della Gerarchia e partecipata a tutti coloro che, con l'ordine sacro, «sono posti in nome di Cristo a .pascere •la Chiesa «(Lumen Gentium, 11). La distinzione è quindi. essenziale e non solo di grado» (cfr. ivi, 10), e richiede anche una nomenclatura sufficientemente indicativa.
    La distinzione, tuttavia, non è contrapposizione, anche se abbisogna di chiarificazione perché si evitino gli equivoci. Possiamo chiarire il problema partendo, come dice il Congar, «dall'idea di Popolo di Dio tutto intero, attivo, consacrato, testimone e segno della offerta della grazia di Dio che deve essere comunicata al mondo. Questo Popolo di Dio, tutto intero vivente, è strutturato; il segno dinamico della salvezza che esso rappresenta e pone nel mondo è strutturato; si viene così a situare il fatto gerarchico all'interno di quel Popolo di Dio che, tutto intero, è vivente ed inviato, ma senza dividere le parti della missione come altrettante specializzazioni. Ci sono degli atti propri della missione della Chiesa, ma non delle missioni proprie che distinguano i fedeli e il sacerdozio ministeriale. Anche quest'ultimo riconduce ciò che è temporale a Dio nel Cristo; e i semplici fedeli portano, a loro modo, la missione di evangelizzazione della Chiesa o comunicazione della salvezza» (Congar, Per una teologia del Laicato), Brescia, Morcelliana, 1966, p. 650).
    Tutto ciò e comprensibile., però, soltanto se si è capito che la pastorale, come attuazione del piano divino di salvezza, è opera della Chiesa, e cioè di tutta la Comunità ecclesiale e che la Chiesa è innanzi mito mistero di comunione (cfr. Lumen Gentium, I ): comunione verticale con Dio, ed orizzontale fra tutti i membri del Popolo di Dio.
    Si illumina anche il significato della Chiesa come «comunità di salvezza», segno non solo, ma anche strumento di salvezza, non soltanto nel senso che la salvezza si raggiunge entrando nella comunità ecclesiale, ma anche nel senso che la comunità ecclesiale è operatrice di salvezza attraverso l'azione di tutti i suoi membri, ciascuno secondo i propri carismi, intorno al pastore, che è segno ed operatore di comunione.
    Altra implicanza che scaturisce dalla definizione della pastorale come attività di tutta la Comunità ecclesiale è il superamento di una discriminazione all'interno stesso del Laicato sulla misura della età dei suoi membri, quasi che ci fossero, nel Popolo di Dio, membri parassiti solo per l'età, e membri attivi, solo per il fatto di aver superato una data età.
    Indipendentemente dai modi di partecipazione all'azione pastorale della Chiesa, tutti i Membri del Popolo di Dio, proprio in quanto tali, e purché vivi, sono attivi, quale che sia la loro età. Questa considerazione è pregiudiziale per la distribuzione dei compiti all'interno della Chiesa e per la valorizzazione di tutte le possibilità di apporto allo sviluppo del piano divino di salvezza.
    Ed è necessario sottolinearlo nella economia di questa relazione, la quale, pur dedicando la sua maggiore attenzione alla pastorale per i ragazzi, non potrà trascurare di rilevare anche la parte attiva che i ragazzi devono avere nella azione pastorale della Chiesa.
    E, se questo rilievo è importante per qualsiasi educatore deí ragazzi che voglia mirare allo sviluppo armonico di essi quali figli di Dio e membri della Chiesa, è tanto più importante per quegli educatori che, operando nel quadro delle organizzazioni dell'apostolato dei laici, devono considerare la promozione apostolica dei ragazzi come aspetto specifico della loro azione educativa, nonché delle finalità delle organizzazioni cui prestano la loro opera.

    Urgenza di una pastorale dei preadolescenti

    I motivi che rendono urgente una pastorale dei ragazzi, come capitolo fondamentale della pastorale generale, sono quelli di sempre. È un campo questo nel quale non si fanno scoperte nuove. Semmai certi fenomeni del mondo degli adulti e dei giovani costituiscono una verifica di quei motivi ed uno stimolo a risvegliarsi dal torpore nel quale non di rado si cade quando, nella impostazione della propria azione educativa, ci si affida ad una letteratura superficiale o superata, o si continuano a proporre schemi e metodi più o meno validi quando si cominciò a lavorare tra i ragazzi, e che non furono più registrati, meravigliandosi, poi, ingenuamente, del fatto che i ragazzi di oggi non sono entusiasti come quelli di ieri, che non si interessano ad attività ed iniziative che pure erano care alle precedenti generazioni, che sono apatici e distratti e privi di pietà e di zelo apostolico.
    Succede quello che si verifica non di rado tra gli Insegnanti di Religione, parecchi dei quali fecero i loro schemi all'inizio del loro insegnamento e continuarono ad ammannirli ai loro alunni, senza accorgersi che i tempi cambiavano non soltanto perché si metteva in discussione la attualità ed opportunità del celibato ecclesiastico, ma anche e soprattutto perché le nuove generazioni mettevano in discussione gli schemi troppo precisi e troppo dommatici e troppo astratti preparati dieci anni prima. E di fronte ai nuovi programmi di religione, molti insegnanti sono andati in crisi, prendendosela con i programmi nuovi, dopo aver denunciato, ancora ingenuamente, il disinteresse degli alunni per la religione.
    Gli schemi, quelli scolastici e quelli operativi, sono estremamente contingenti, e mai come ora sono soggetti a rapida usura.
    Per cui l'urgenza di una pastorale dei ragazzi si identifica con l'urgenza di un rinnovamento di essa. I motivi di fondo, però, restano sempre gli stessi.
    Nell'aprile di quest'anno, a Parigi, si è tenuto il V Congresso Nazionale dell'insegnamento religioso in Francia. L'attenzione è stata rivolta ai battezzati non praticanti: 21 milioni di francesi adulti rientrano in questa categoria: gente che continua a chiedere il battesimo e la Prima Comunione per i propri figli, il matrimonio ed i funerali religiosi, ma che, anziché vivere la fede, conserva soltanto alcune credenze, insufficienti ad esercitare una influenza sulla vita.
    Sembrerà eccessivo o facilistico attribuire la crisi religiosa degli adulti alla mancanza di una autentica pastorale dei ragazzi. Ma, si trovi un'altra radice della crisi generale all'infuori di una superficiale formazione cristiana nell'età di mezzo tra la fanciullezza e la gioventù, tra l'età cioè della accettazione acritica del mondo degli adulti e l'età della affermazione decisa della propria autonomia. Se non c'è stato un vigoroso raccordo, l'affermazione della autonomia non potrà svilupparsi che al di fuori di un significato cristiano della vita.
    L'urgenza e l'importanza della pastorale dei ragazzi risiede nel valore condizionante di questa età, che, forse, è la più difficile se la si affronta con serietà proporzionata al suo significato. E, forse, proprio per questo, nonostante le apparenze talvolta contrarie, è la più trascurata nelle sue esigenze reali. Non si tratta, qui, di fare il conto degli Aspiranti tesserati nelle due organiz56zazioni giovanili di azione cattolica. I risultati potrebbero essere ingannevoli. Molto più ampio è il numero dei ragazzi che vanno a «giocare» nelle Associazioni e negli oratori di questo o quel tipo. E non si tratta neppure di contare i ragazzi dagli 11 ai 14 anni che vanno alla Messa sociale, sebbene, già in questo campo, i conti comincino a non tornare più.
    Si tratta di verificare quale impiego i ragazzi esercitano nella vita delle comunità ecclesiali e quale apporto ad essi è consentito dare per lo sviluppo della vita del Popolo di Dio, che non sia quello di vendere il settimanale cattolico alla porta della Chiesa o di distribuire i foglietti con i testi della Messa del giorno durante la celebrazione liturgica, senza magari intendere il significato pastorale che pure possono avere anche queste cose.
    Il recupero degli adulti costituisce una impresa enorme e dai risultati sempre piuttosto limitati. È necessario non moltiplicare le generazioni da recuperare. È un bel dire che i ventuno milioni di adulti francesi battezzati e non praticanti costituiscono «la grande chance de la France»: è un ottimismo commovente, che somiglia molto, però, ad una paradossale illusione. La «grande chance» di qualunque comunità è rappresentata dai ragazzi; se questa carta si perde o non si gioca bene, «les jeux sont faits», senza molte «chances» di recupero.
    La vita cristiana è un lancio verso l'infinito. Se non si riesce a sfuggire per la tangente dell'arco alla attrazione centripeta della mediocrità, si finisce per entrare in orbita e restarvi, quand'anche non sì descriva un arco parabolico che termina in un impatto rovinoso con la terra dalla quale si era partiti.
    Tutto dipende dal lancio, cioè dalla fase iniziale del viaggio. Mi riferisco, ovviamente, alla economia ordinaria. I fatti eccezionali si sono verificati e si verificheranno ancora nella storia della salvezza. La programmazione pastorale, però, non può fondarsi sulle eventualità eccezionali, le quali peraltro restano sempre
    eccezionali, e cioè limitate.
    La passività di milioni di adulti battezzati trae la sua origine dalla scarsa spinta che la loro vita ha avuto nel momento decisivo del lancio, e cioè quando erano ragazzi, e pastoralmente furono trattati da bambini, con spinte ascensionali non superiori a quelle dei fuochi pirotecnici, con risultati immediati vistosi e
    scintillanti, ma effimeri.
    Motivi di sempre, come si vede, a sostegno della importanza della pastorale dei ragazzi.
    Forse un motivo nuovo può essere ricercato nella mutata situazione sociologica, la quale denuncia un fatto, in sé positivo, ma potenzialmente ambivalente dal punto di vista educativo. I ragazzi hanno acquistato uno spazio nella società odierna, nel quale si muovono con una certa autonomia e, certamente, con iniziative proprie. Lo sviluppo della scuola dell'obbligo ha soppresso una discriminazione che faceva pascolare nel latifondo della scuola pochi capi di razze pregiate, consentendo un tipo di maturazione, che, a quella età, al di fuori della scuola, non trova adeguate supplenze. Lo spazio di movimento della grande maggioranza dei ragazzi era molto ristretto e l'avviamento precoce al lavoro, e ad un lavoro per lo più provvisorio, precludeva ogni possibilità di espressione personale.
    Oggi, la maggioranza, e ben presto la totalità dei ragazzi avrà nella scuola una spinta ascensionale potente, e lo spazio di movimento, che già si è enormemente allargato rispetto alla situazione antecedente, si allargherà ancora dí più. In quale direzione saranno lanciati questi ragazzi? Quale sarà il significato del loro volo? Ecco un problema pastorale, non nuovo nella sua sostanza, ma certamente nuovo nelle sue proporzioni e nelle prospettive che si aprono dinanzi ai ragazzi. Non basta aver rinnovato i programmi di religione; bisogna rinnovare i programmi di impegno dei ragazzi, rapportandoli alle situazioni nuove in cui essi vengono a trovarsi.

    La pastorale per i preadolescenti

    Le considerazioni fatte finora sono di carattere generale. Conviene ora approfondire i contenuti della pastorale per i ragazzi, con quei riferimenti metodologici che necessariamente un discorso pastorale comporta.

    Recupero alla iniziazione cristiana.

    Il ragazzo non nasce a undici anni. Se così fosse, ci sarebbero problemi in meno. Ma non è così. Il ragazzo arriva a undici anni in una situazione concreta, che non può essere disattesa senza gravi conseguenze. E la situazione concreta più diffusa denuncia una grave anemia spirituale e vistose malformazioni della struttura scheletrica. Fino a quando la pastorale per i fanciulli non avrà ovviato a queste carenze, è necessario che la' pas torale per i ragazzi prenda le mosse da una azione di recupero: occorre recuperare, cioè, i ragazzi alla iniziazione cristiana che non ebbero nella fanciullezza, per ricuperarli alla coscienza dei Sacramenti della iniziazione cristiana, ricevuti senza la iniziazione.
    Il contenuto della iniziazione cristiana è analogo a quello che il Decreto conciliare «Ad Gentes» assegna al catecumenato:
    «lungi dall'essere una semplice esposizione di verità dogmatiche e di norme morali, costituisce una formazione alla vita cristiana integrale, in cui i discepoli vengono uniti con Cristo, loro Maestro. Perciò i catecumeni siano convenientemente iniziati al mistero della salvezza ed alla pratica dei costumi evangelici, e siano introdotti nella vita della fede, della liturgia e della carità del Popolo di Dio» (cfr. «Ad Gentes», 14).
    Ci sono, come si vede, tutti gli elementi di una solida impostazione cristiana della vita, non soltanto in senso personale, ma anche in senso comunitario.
    In questa linea la pastorale dei ragazzi dovrà accertare e sviluppare innanzi tutto, la coscienza del Battesimo e delle sue implicanze di novità di vita nel quadro del mistero pasquale di Cristo, che si prolunga nella nostra storia. L'evento battesimale deve essere colto come un fatto sempre presente e caratterizzante la vita nel suo essere, nelle sue decisioni, nella sua attività. Il riferimento all'esercizio della libertà «con la quale Cristo ci ha liberati» (cfr. Gal, 4, 31), favorisce il senso della attualità del Battesimo come fatto esistenziale, e consente di cogliere il senso della pasqua che continua nella celebrazione dell'Eucarestia. È chiaro che tutto ciò non dovrà essere poi contraddetto da una catechesi moralistica e da atteggiamenti paternalistici, negatori del senso pasquale della libertà.
    La coscienza del proprio Battesimo si presenterà come coscienza della propria vocazione radicale all'esercizio della triplice funzione del Popolo di Dio, profetica, sacerdotale e regale, illuminando così di luce attiva la destinazione al culto ed alla professione della fede ricevuta da Dio mediante la Chiesa (cfr. «Lumen Gentium», 11), e creando le condizioni per dare un senso profondo ed impegnativo al Sacramento della Confermazione.
    La coscienza del proprio Battesimo condiziona anche la consapevolezza della appartenenza alla Chiesa, vista sì nella sua dimensione istituzionale, visibile, gerarchica, ma vista finalmente anche e soprattutto nella sua dimensione misterica, che interiorizza ed approfondisce il senso metagiuridico della solidarietà all'interno del popolo di Dio e nella partecipazione al mistero della morte e resurrezione di Cristo. L'incontro con il prossimo nasce, così, non tanto dalla necessità di soddisfare una esigenza più o meno egoistica di compensazione dei propri limiti, e neppure dalla compassione per i limiti degli altri, ma dalla considerazione di un vincolo ontologico, ancora più stretto del vincolo del sangue, le cui implicanze sono tali che il rapporto verticale con Dio trova la sua verifica e la sua condizione di fatto nell'esercizio e nella qualità dell'esercizio del rapporto di amore con il prossimo.
    È in questo clima che la iniziazione eucaristica trova i motivi della sua concretezza ed attualità, sia come coscienza della continuità del mistero pasquale nella Eucarestia, sia carne valorizzazione della comunione conviviale, liberata dalla strumentalizzazione magica in ordine a benefici immediati e contingenti da ottenere e dallo estetico e pseudonomistico individualismo che detta gli atteggiamenti interiori ed esteriori di totale isolamento da tutto e da tutti per restare «soli con Gesù». L'incontro conviviale con Cristo nell'Eucarestia non può prescindere dall'incontro conviviale con tutti gli altri «participantes»; e gli occhi del «particeps», anziché chiudersi, coperti magari dalle mani per isolarsi dal mondo circostante, devono spaziare sulla teoria di compartecipi che vanno all'altare e ne ritornano più strettamente vincolati vicendevolmente, e devono godere di questo mistero di comunione che appiana le divergenze, supera le differenze, e, senza pianificare banalmente, restaura le dimensioni verticale ed orizzontale della realtà cristiana, cioè «la intima unione con Dio e l'unità di tutto il genere umano» (cfr. «Lumen Gentium», 1). L'analogia del banchetto eucaristico con il banchetto familiare è molto più profonda di quanto non si rilevi normalmente. Ed i segni della partecipazione al banchetto eucaristico non devono essere dissimili dai segni della partecipazione al convito familiare, nel quale non si mangia soltanto, ma ci si incontra, si scambiano sentimenti e segni di affetto, nel momento stesso in cui ci si rinvigorisce attingendo al piatto comune.
    L'iniziazione dei ragazzi all'Eucarestia deve puntare su questi significati, che il ragazzo può cogliere meglio del fanciullo, così come meglio del fanciullo il ragazzo entra nelle conversazioni conviviali.
    Il silenzio totale, indicato tradizionalmente come uno dei motivi caratteristici della vera pietà, costituisce, a mio avviso, uno dei motivi da mettere in discussione, non nel senso che occorra trasformare la sinassi eucaristica in libera conversazione, ma nel senso che con gli occhi e con l'atteggiamento bisogna parlare non solo con Dio, ma anche con coloro che siedono alla stessa mensa eucaristica.
    Queste considerazioni portano anche ad impostare l'iniziazione all'Eucarestia come iniziazione non solo alla comunione eucaristica, ma all'intera celebrazione eucaristica. La Mensa Eucaristica non è la «tavola calda» alla quale si ricorre frettolosamente, sedendosi per pochi momenti accanto a gente ignota e che si continua ad ignorare, per soddisfare soltanto ad una esigenza fisiologica. Capita anche in famiglia che, talvolta, uno dei membri debba affrettare il suo pasto per inderogabili necessità. Ma si tratta di fatto eccezionale. E, se il fatto eccezionale comincia a diventare abituale, anche i vincoli familiari si allentano e, come sovente si sente dire, la casa diventa soltanto un albergo.
    In queste condizioni non ci si deve meravigliare se la vita cristiana si affievolisce e se diventa difficile alimentare il senso della comunità, e se, proprio i ragazzi, cominciano a legare la Comunione eucaristica a fatti e momenti che hanno soltanto un valore individuale (esami), o celebrativo (precetto pasquale scolastico, festa del tesseramento, ecc.).
    Su di una solida formazione eucaristica poggia anche una autentica concezione dell'apostolato ed una dedizione che nasca dall'interno. Prescindendo ora dalle controversie storico-teologiche circa la collocazione del Sacramento della Cresima prima o dopo la Prima Comunione, si può affermare senz'altro che, senza un chiara coscienza del significato dell'Eucarestia nella realtà della Chiesa e nella vita cristiana, diventa pura illusione la valorizzazione della Cresima come il sacramento con il quale i battezzati «vengono vincolati più perfettamente alla Chiesa, sono arricchiti di una speciale forza dallo Spirito Santo, e in questo modo sono più strettamente obbligati a diffondere e difendere con la parola e con l'opera la fede come veri testimoni di Cristo» (cfr. «Lumen Gentium», 11). Senza il riferimento all'Eucarestia vengono a mancare i segni delle motivazioni più profonde dell'impegno apostolico. Potremo senz'altro avere ragazzi attivissimi in certe iniziative, le quali però finiscono per apparire più come avventure (e la parola «avventura» è stata adoperata non di rado con discutibile validità pedagogica, tanto più discutibile quanto più stimolante eIa la parola), che come fatti salvifici, più come esibizioni personali che come momenti profetici.
    Ed è così che la spinta ascensionale, pur col grande rumore prodotto dal lancio, si esaurisce in breve volgere di tempo, nel tempo cioè necessario perché il ragazzo si accorga di essere non un veicolo lanciato nello spazio, ma un bengala destinato a dare spettacolo.
    Il ripiegamento su se stesso e l'orientamento verso una vita sociale banalmente vista in funzione di se stesso, dei propri piccoli interessi, delle proprie personali soddisfazioni, del conseguimento delle prime piccole ambizioni costituisce la conclusione logica della parabola. E, pur senza assumere atteggiamenti di opposizione e di rottura violenta, le giustificazioni per isolarsi nel proprio piccolo mondo si troveranno sempre. E varrà poco insistere perché accedano alla vita della comunità, dove «tutto è pronto per la cena». Se non saranno i buoi da provare, o il podere da visitare, o la moglie presa di recente, i motivi per non partecipare all'incontro conviviale si troveranno nello studio, negli esami, nella partita di calcio, nello spettacolo televisivo, nel balletto, nella gita con gli amici: tutte cose degne di ogni considerazione, ma in sé compossibili con una visione aperta della vita cristiana, ed assunte invece a motivo giustificativo della contrazione del proprio mondo.
    Anche la pastorale della Penitenza sacramentale perde senso avulsa dalla Eucarestia. Non nel senso corrente di considerare la confessione come una delle condizioni per ben comunicarsi. Ma nel senso, ben più profondo e ricco, di riconciliazione con i membri della comunità, defraudati col peccato; riconciliazione che non può trovare cornice e culmine più espressivo che nella partecipazione al convito eucaristico, e che non sarà preparata e stimolata meglio che con l'invito a tornare alla mensa comune. Forse non si è sufficientemente approfondito il significato dell'incontro di Gesù con Zaccheo. Gesù non dice a Zaccheo: ripara i tuoi torti, ed io, poi, verrò a trovarti. Gli dice invece: Zaccheo, oggi vengo a pranzo a casa tua. E Zaccheo, prima di assidersi a tavola, si confessa e si impegna a riparare tutto: «Ecco Signore, io do ai poveri le metà dei miei beni; e se ho frodato qualcosa a qualcuno, gli rendo il quadruplo» (cfr. Lc. 19, 1-8). E così la salvezza entra nella casa di Zaccheo nell'incontro conviviale con Gesù, ma anche con il suo prossimo, cui restituisce il mal tolto e dal quale è accolto di nuovo come membro di famiglia.
    Né si tratta di una forzatura di significato della pastorale penitenziale. In definitiva, la riconciliazione con Dio avviene nel momento stesso del pentimento, prima ancora della confessione, perché Dio vede nel profondo del cuore. La riconciliazione con il prossimo, con la comunità abbisogna di essere espressa esteriormente, dall'una e dall'altra parte.
    È chiaro che di tutto ciò occorre riprendere e far riprendere coscienza. E la confessione, così, pur mantenendo la sua caratteristica penitenziale, riprende la sua caratteristica di festa (cfr. Le. 15, 7; 15, 10; 15, 23, 32; 19, 9).
    È chiaro che tutti i motivi di queste riflessioni valgono non solo per i ragazzi, ma per tutti. L'importanza di una impostazione pastorale siffatta nei confronti dei ragazzi va ricercata nel fatto che, alla loro età, è possibile inserire quei motivi come dimensione di una mentalità, che, in seguito, sarà molto difficile costruire. D'altra parte sono questi i motivi della iniziazione cristiana, la quale trova il suo momento più fecondo proprio in questa età, anche se l'iniziazione cristiana è stata realizzata nella fanciullezza. Senza dire che proprio da questi motivi parte eprende vigore una proposta di vita cristiana, da accogliersi consapevolmente e da realizzarsi con impegno riflesso.

    Proposta di vita cristiana.

    Le implicanze della iniziazione cristiana, centrata sul Battesimo,.sulla Cresima e sulla Eucarestia, e arricchita dalla Penitenza, costituiscono la più solida proposta di vita cristiana. Qui non le ripeteremo, ma ne espliciteremo alcuni aspetti e ne rileveremo alcuni motivi di ordine metodologico, precisando subito che la proposta di vita cristiana deve scaturire non come corollario della iniziazione cristiana, ma come sintesi che si va costruendo man mano che la maturazione progredisce.
    Vorrei anche precisare che una valida proposta di vita cristiana non è una silloge di cose da farsi, bensì la definizione di un modo di essere, da cui scaturiscono gli atteggiamenti ed i motivi operativi.
    In questo senso, si può dire che la più valida proposta di vita .cristiana coincide con la definizione della Chiesa: «segno e strumento dell'insieme unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (cfr. «Lumen Gentium», 1).
    La concretezza è la caratteristica pregiudiziale di ogni proposta di vita cristiana, ma in particolar modo di una proposta rivolta ai ragazzi. La concretezza non è però attivismo ad oltranza, ma è incarnazione dei valori e dei motivi trascendenti nel contesto reale nel quale i ragazzi vivono, e nelle possibilità reali che ad essi sono offerte.
    I motivi della iniziazione cristiana, che abbiamo esposti, costituiscono il contenuto della proposta di vita cristiana, e, nella loro funzionalità, nella loro molteplicità e varietà, costituiscono anche un eloquente richiamo ad una metodologia esistenziale. Una proposta di vita cristiana concreta non sarà certamente una proposta angelistica. Fortunatamente il quarto centenario di S. Luigi Gonzaga ha offerto la buona occasione per riscattarne la figura da quell'alone extra-terrestre, che, se aveva fatto la gioia di educatori frettolosi e superficiali, aveva finito per rendere inviso, se non ridicolo, il Santo giovane agli occhi della gioventù del nostro secolo, e per offrire motivi di valutazioni negative alla indagine psicologica.
    L'itinerario della iniziazione cristiana mette in risalto che la proposta di vita cristiana da offrire ai ragazzi, pur delineando un termine ideale di perfezione, tuttavia ne vede la reali/ zazione in una progressione che non termina se non con la vita, e che non esclude limiti e debolezze, che giustificano appunto la esigenza di una conversione continua, non intesa come passaggio da un estremo all'altro, bensì come conquista di segmenti successivi di una linea, senza escludere neppure, anzi prevedendo, la necessità di riconquista di segmenti conquistati e perduti.
    Per essere concreta una proposta di vita cristiana non ha neppur bisogno però di essere terrenista ad oltranza. L'incarnazione dei valori soprannaturali non è annullamento, e neppure mimetizzazione di essi. Del resto la centralità dell'Eucarestia e la attualità del Battesimo, unitamente alla funzionalità della Cresima e della Penitenza, che abbiamo sopra sottolineato, lo dicono chiaramente. Il carattere stesso di itinerario della vita cristiana richiama, e deve richiamare, continuamente il termine verso il quale si cammina, il compimento ultimo della salvezza e la ricapitolazione di tutte le cose in Cristo (cfr. Ef. 1, 10). Questa angolazione della vita non è negativa dei valori terrestri, ma di essi offre la misura esatta e concreta, poiché non pone in uno stato di paziente attesa, ma di intenso movimento, dal momento che «la promessa restaurazione, che aspettiamo, è già cominciata con Cristo, è portata innanzi con l'invio dello Spirito Santo e per mezzo di lui continua nella Chiesa» (cfr. «Lumen Gentium», 48), e l'Eucarestia è in qualche modo anticipazione della parousia (cfr. I Cor. 11, 26).
    Non si tratta neppure di falsare la fisionomia terrestre delle realtà terrene, ma di svelarne i tratti autentici: come Cristo, «proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (cfr. «Gaudium et spes», 22), così, prospettando l'avvento di cieli nuovi e terra nuova, in cui tutto giungerà a perfezione, non intende «indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell'umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo» (cfr. «Gaudium et spes», 39).
    È proprio da questa angolazione che la pastorale dei ragazzi offrirà una proposta di vita cristiana che li impegna ad inserire una dimensione trasformatirce anche nelle realtà e nei fenomeni apparentemente più profani, senza richiedere da essi un equivoco disimpegno degli interessi comuni ai loro coetanei, si tratti della musica leggera o delle agitazioni studentesche, dello sport o della moda.
    È dalla concretezza e vitalità di una proposta di vita cristiana che scaturisce un'altra caratteristica della proposta stessa: una autentica proposta cristiana non può non essere ricca di speranze e di gioia. L'escatologia tenebrosa e pavida dei Tessalonicesi (cfr. 1 Tes. 14, 13 ss; 2 Tes. 2 e 1 ss) e dei millenaristi non trova riscontro nelle promesse di Cristo: «La vostra tristezza sarà mutata in letizia» cfr. Gv. 16, 20), riecheggiate da S. Paolo: «siate liberi... il Signore è vicino» (cfr. Filip. 4, 4-5); egli «ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna ed una grande speranza» (cfr. 2 Tes. 2, 16). E non si tratta di consolazione pietosa, o di speranza illusoria o di godimento psichedelico, espedienti artificiosi per mascherare la tragicità della vita. Si tratta di implicanze del fatto radicale della nostra pasqua, per la quale abbiamo ricevuto uno spirito di adozione che ci consente di chiamare Dio col nome di Padre (cfr. Rom. 8, 15; Gal. 4, 6) e di considerare Gesù Cristo come fratello, ed il prossimo come famiglia (cfr. Rom. 8, 29; 1 Gv. 3, 1) e di raccogliere abbondantemente i frutti dello spirito che sono «carità, gioia, pace, fedeltà, dolcezza, pazienza, benignità, bontà (cfr. Gal. 5, 23-24).
    Una autentica proposta cristiana è decisamente ottimista, anche di fronte alle tragedie della vita e della storia: «quando vedrete tutte queste cose, sappiate che il figlio dell'uomo è vicino» (cfr. Mt. 24, 33). Ed è ottimista non soltanto perché «le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria che si rivelerà a noi» (Rom. 8, 18), ma anche perché «noi sappiamo che per coloro che amano Dio tutto si risolve in bene» (ivi, 28) e che «la creazione stessa sarà liberata dalla servitù della corruzione per avere parte alla libertà della gloria dei figli di Dio» (ivi, 21).
    La pastorale dei ragazzi deve insistere su questi aspetti della vita cristiana, curando però di non teorizzarli rapportandoli ad una dottrina astratta relativa ad un Dio impersonale, ma verificando nella Sacra Scrittura la rivelazione viva di queste realtà nella parola del Padre, al quale «piacque rivelare se stesso ed il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini, per mezzo di Gesù Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso a Lui e sono resi partecipi della divina natura» ed invitati ed ammessi alla comunione con Lui (cfr. «Dei Verbum», 2).
    La concretezza della proposta cristiana è condizionata anche dalla concretezza dell'itinerario metodologico per l'accesso al Padre. La scoperta della fisionomia personale del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nella Sacra Scrittura non sarà facile se non sarà accompagnata dallo sforzo di scoprire il volto del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo dietro il volto dei figli di Dio. E poiché il segno è «prius cognitum» rispetto alla realtà significata, l'annuncio della paternità di Dio, della solidarietà di Gesù Cristo, della invasione santificatrice dello Spirito Santo, da fatto conoscitivo, si trasformerà in fatto vitale man mano che nella vita si verificherà la fraternità reciproca tra i figli di Dio.
    Secondo me, ha torto Urs von Balthasar quando, in «Cordula», si scandalizza ed ironizza sulla identificazione dell'amore del prossimo con l'amore di Dio, e quando dimostra di non capire che la priorità dell'amore del prossimo rispetto all'amore di Dio non investe la gerarchia dei valori, ma soltanto la concretezza di un itinerario logico e metodologico. È in questo senso che S. Paolo scrive ai Romani: «chi ama il prossimo ha adempiuto la legge» (cfr. Rom. 13, 8); ed ai Galati: «Tutta la legge si compendia in questo solo comando: ama il prossimo tuo come te stesso» (cfr. Gal. 5, 14). L'aver trascurato questo elementare accorgimento metodologico ha fatto sì che la storia della ascetica cristiana fosse piena di rigorosi adoratori di Dio, macerati nella ricerca di un volto sempre nascosto, e chiusi ad un rapporto di amore cordiale e caldo per gli uomini, nei quali quel volto poteva più facilmente, se non unicamente, essere scoperto. E per lo stesso motivo la storia della architettura sacra coincide non di rado con la storia della fame degli uomini. È inevitabile che l'autentico amore di Dio passi attraverso l'amore per gli uomini. L'affermazione, del resto, è di S. Giovanni nella sua prima lettera, la quale è tutta una altissima lezione di metodologia dell'amore di Dio, testimoniato nell'amore per il prossimo.
    Una proposta concreta di vita cristiana si guarderà, però, da un amore platonico, fatto di sentimenti, destinati a restare vuoti o a trasformarsi in compassione o a tradursi in umanitarismo più o meno assistenziale. Il «quod superest date pauperibus» investe la giustizia più che l'amore. L'amore è partecipazione a tutto, alla gioia come al dolore, al successo come all'insuccesso; e, di fronte al bisogno del fratello, è partecipazione sacrificale, al di là, molto al di là del «superfluo».
    In questo quadro la formazione liturgica e la partecipazione all'Eucarestia assumono per i ragazzi vigoroso significato. Che senso ha l'Assemblea liturgica se essa, come adunanza dei figli di Dio, non è convergenza di gente che si ama, che si aiuta reciprocamente, che, nel convito sacramentale, cerca l'alimento per una profonda comunione vicendevole? Che senso ha avvicinarsi all'altare per offrire il sacrificio, quando una profonda frattura divide l'uno dagli altri? E, parlando di profonda frattura, non intendo riferirmi alla frattura violenta, nata dallo scontro di vedute e di interessi; ma intendo riferirmi a quell'abisso scavato dalla reciproca indifferenza, forse più difficile da colmare che non quello nato da una lite.
    L'Eucarestia illumina il senso della fraternità e lo alimenta; ma, a sua volta deve essere il segno della volontà di amore per tutti gli uomini, a cominciare da quelli più bisognosi di essere amati.
    I ragazzi devono essere educati a considerare l'Assemblea liturgica domenicale non come la riunione degli «osservanti» di una legge. Anche il fariseo della parabola era fedele osservante della legge; eppure Gesù ha parole dure nei suoi confronti, perché il suo cuore è duro e chiuso all'amore. L'Assemblea liturgica domenicale deve invece apparire ed essere per i ragazzi l'incontro di coloro che si amano in Cristo, e che, nel loro amore reciproco, esprimono ed alimentano l'amore di Dio, che vivifica il culto. Insomma l'Assemblea domenicale deve essere festa dell'amore, cui si partecipa per interiore esigenza di espressione, che, ovviamente, suppone l'esistenza di qualcosa da esprimere e che è andata crescendo nell'esercizio della vita cristiana quotidiana.
    È così che anche il senso della Chiesa viene colto dai ragazzi più adeguatamente: la Chiesa non è solo comunità di culto, ma è anche comunità di fede e di amore. Molto bene si esprime il decreto «Apostolicam actuositatem»: «La Santa Chiesa, come fin dalle sue prime origini, unendo insieme la "agape" con la Cena Eucaristica, si manifestava tutta unita nel vincolo della carità attorno a Cristo, così, in ogni tempo, si riconosce da questo contrassegno della carità» (n. 8).
    Queste considerazioni portano a rivedere, nel quadro di una feconda pastorale dei ragazzi, la consuetudine, ancora largamente diffusa, della Messa cosiddetta sociale, cui partecipa una presunta élite di cristiani di prima categoria, o da sola o in settore riservato, conservando assurdamente una divisione proprio laddove tutti, «convenientes in unum», dovrebbero abbattere tutte le barriere, perché non si ripeta, seppure in modo diverso, quanto S. Paolo rimprovera ai Corinti sulla degenerazione della celebrazione della Cena del Signore (cfr. 1 Cor. 11, 17-22).
    È fuor di dubbio che i ragazzi hanno bisogno di imparare a partecipare alla Assemblea generale della comunità cristiana, e, perciò, hanno bisogno di un momento particolare di esercizio. Ebbene tale esercizio si faccia nel corso della settimana; ma la domenica, come è il giorno del Signore, sia anche il giorno della famiglia del Signore, in cui si avverta nel senso più totale che «tutti quelli che partecipano del medesimo pane sono una cosa sola» (cfr. 1 Cor. 10, 17).
    Nel concerto delle riflessioni che stiamo facendo, è necessario un altro rilievo: una proposta cristiana concreta cd autentica esige una apertura di carità che superi, non soltanto i confini della Parrocchia e della Diocesi, bensì anche i confini della Chiesa: «Cristo è la luce delle genti, e pertanto questo Sacro Concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera con la luce di Lui, splendente sul volto della Chiesa, illuminare tutti gli uomini, annunciando il Vangelo ad ogni creatura» («Lumen Gentium, 1). Quest'opera della Chiesa si realizza non soltanto mediante il ministero della parola, ma anche mediante la circolazione intensa dell'amore di carità. I ragazzi devono imparare a conoscere ed a stimare non soltanto coloro che «sono pienamente incorporati nella società della Chiesa (perché), avendo lo Spirito di Cristo, accettano integralmente la sua organizzazione e tutti i mezzi di salute in essa istituiti e nel suo corpo visibile sono congiunti con Cristo dai vincoli della professione di fede, dei sacramenti, del regime ecclesiastico e della comunione» (cfr. «Lumen Gentium», 14), ma anche i cristiani non cattolici, che, sebbene «non conservino la unità di comunione sotto il Successore di Pietro», sono per più ragioni congiunti alla Chiesa, «hanno in onore la Sacra Scrittura come norma di fede e di vita, e mostrano sincero zelo religioso, credono amorosamente in Dio Padre onnipotente e in Cristo, Figlio di Dio e Salvatore, sono segnati dal battesimo, col quale vengono congiunti con Cristo, anzi riconoscono ed accettano nelle proprie chiese o comunità ecclesiastiche anche altri sacramenti» (ivi, 15). La conoscenza, la stima e l'amore devono estendersi a coloro che non hanno ancora ricevuto il Battesimo, e, in primo luogo a «quel popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse e dal quale Cristo è nato secondo la carne, popolo, in virtù della elezione, carissimo in ragione dei suoi padri, poiché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili» (ivi, 16). E, con gli Ebrei, i musulmani, gli idolatri, gli atei: tutti, insomma, gli uomini, poiché tutti sono chiamati alla salvezza ed alla conoscenza della verità (cfr. 1 Tim. 2, 4).
    Senza cadere in un patetico irenismo e tanto meno in un assurdo liberalismo religioso, la pastorale dei ragazzi deve rilevare «ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro destino. I vari popoli costituiscono infatti una sola comunità; essi hanno una sola origine, poiché Dio ha fatto abitare l'intero genere umano su tutta la faccia della terra; hanno anche un solo ultimo fine, Dio, la cui provvidenza e testimonianza di bontà e disegni di salvezza si estendono a tutti, finché gli eletti saranno riuniti nella Città Santa, che la gloria di Dio illuminerà, e dove le genti cammineranno nella sua luce» (cfr. «Nostra aetate», 1).
    Infine, la proposta di vita cristiana, che la pastorale dei ragazzi deve offrire, deve essere caratterizzata da un profondo rispetto.
    Si tratta di proposta, non di imposizione. Sarà una proposta urgente, la risposta alla quale condiziona l'autenticità della vita cristiana; ma deve restare una proposta. E la risposta deve essere libera, consapevole, gioiosa, sia pure nei limiti possibili alla età dei ragazzi.
    Abbiamo già troppo peccato di presunzione quando abbiamo fatto ricorso ad un autoritarismo pedagogico lesivo della più elementare dignità della persona umana. La pastorale, come l'educazione, di cui è uno sviluppo, deve aiutare l'uomo a crescere, non deve calarlo in una forma per stamparne la fisionomia.
    Quando, qualche anno addietro, ho sviluppato ampiamente questo concetto, sono stato accusato di «orizzontalismo» da persona molto autorevole, che recentemente, richiamandosi al convegno in cui tenni quella relazione, ha ribadito l'addebito.
    Le etichette hanno un grosso difetto; quello di ridurre a denominatore comune fenomeni e posizioni profondamente diverse; e l'equivocazione dei termini porta fatalmente ad un nominalismo, che non solo confonde le idee, ma impedisce l'approfondimento dei problemi.
    Ecco che cosa affermavo allora, e riaffermo adesso: È molto frequente, oggi, la constatazione, fatta talvolta con accenti addirittura drammatici, della rotazione dell'asse del rapporto tra quelli che sono comunemente considerati i termini del processo educativo: educatore-discepolo. La posizione dell'asse, si afferma, che un tempo era verticale, è andata ruotando con moto progressivo, assumendo, prima un orientamento diagonale, e poi addirittura orizzontale, con tendenza, almeno in alcuni casi limite, al capovolgimento del rapporto. L'educatore, il maestro, che, tradizionalmente, dominava dall'alto il suo discepolo, ha prima dovuto ridurre gli scalini della sua cattedra o del suo trono, e, poi, scendere al livello del discepolo. Talvolta è stato umiliato addirittura dal discepolo. Il magistero, dalla dignità di causalità principale è stato ridotto alla strumentalità di una mediazione, dalla gloria della autorità alla umiliazione di un servizio. Dove andremo a finire? è la domanda di prammatica, gravida di visioni apocalittiche.
    Ed osservavo: la domanda da porsi è un'altra: il fenomeno è proprio segno della nequizia dei tempi? E, più radicalmente ancora: si tratta effettivamente di un capovolgimento eversivo dei valori? O non potrebbe, piuttosto, trattarsi di un ritorno dell'asse del rapporto alla sua posizione naturale, congeniale? E gli stessi fatti parossistici non potrebbero spiegarsi come superamento momentaneo della linea di equilibrio, prodotto dalla forza di inerzia nella discesa dell'asse dalla posizione verticale a quella orizzontale, e che si esauriranno per spontaneo assestamento se non ci saranno sollecitazioni tendenti a riportare l'asse nella posizione verticale?
    Ecco il problema, ed implicita la mia risposta.
    A ben riflettere, la stessa rivelazione di Dio metodologicamente avalla questa tesi, e costituisce un capolavoro di pedagogia. L'asse del rapporto tra Dio e l'uomo, trascendentalmente verticale, era stato da Dio stesso metodologicamente corretto e portato su di un piano pedagogico orizzontale, prima attraverso quel paradosso, umanamente inconcepibile, ma divinamente attuato, della alleanza stretta da Dio con il suo popolo, e poi nella più grandiosa delle meraviglie, l'Incarnazione del Verbo. Anzi, la rotazione dell'asse fu spinta da Dio fino al capovolgimento nella crocifissione di Cristo, «scandalo per i Giudei, e follia per i Gentili; ma, per i chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza dell'altissimo, perché la follia di Dio è più sapiente degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte dei mortali» (1 Cor. 1, 23-25). Di siffatta «pedagogia di Dio «(cfr. «Dei Verbum», 15) e di tale divina «condiscendenza» (cfr. «Dei Verbum», 13) dà continua testimonianza la costituzione conciliare sulla divina rivelazione: «Con questa rivelazione Dio invisibile parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé» («Dei Verbum», 2); «a Dio che rivela è dovuta l'obbedienza della fede, con la quale l'uomo si abbandona a Dio tutt'intero liberamente, prestandogli il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà e acconsentendo volontariamente alla rivelazione data da Lui» («Dei Verbum», 5); «nella Sacra Scrittura si manifesta l'ammirabile condiscendenza dell'eterna Sapienza» («Dei Verbum», 13).
    La proposta di vita cristiana fatta ai ragazzi non può seguire una linea pedagogica diversa dalla linea seguita da Dio per proporre agli uomini la salvezza e la via da percorrere per conseguirla.
    In questo senso deve innovarsi l'atto catechetico, ed il Movimento Aspiranti è già decisamente orientato così, in modo da sviluppare esistenzialmente un momento pastorale di fondamentale importanza.

    Coordinamento della pastorale per i preadolescenti.

    Il documento di base sulla pastorale dei ragazzi, predisposto per questo convegno, nota opportunamente che «la pastorale dei ragazzi deve essere organica; deve cioè prevedere e mettere in atto un fecondo rapporto di coordinamento e di integrazione tra le varie forze che agiscono sui ragazzi: la famiglia, la scuola, i liberi movimenti educativo-apostolici. Il rapporto e il coordinamento, oggi, è richiesto più che mai. I ragazzi sono sottoposti a molteplici e diverse influenze. L'unità della loro coscienza potrebbe essere seriamente minacciata se questi diversi influssi non trovano una convergenza ed una intesa. D'altra parte, l'essere stesso della Chiesa richiede che all'opera della educazione dei ragazzi contribuiscano le diverse forze, dando ciascuna il proprio apporto specifico. Nell'ambito di una parrocchia, quindi, bisognerà sempre cercare le modalità, e i tempi e gli strumenti migliori per favorire e realizzare tale incontro».
    La chiarezza e la ricchezza di questa enunciazione diagnostica mi dispensano dal tornarvi sopra con un più ampio discorso.
    Ritengo utile, invece, integrare quelle considerazioni, le quali resterebbero validissime anche se le istituzioni cui si riferiscono fossero ben attrezzate per il loro ministero.
    Il fatto è che quelle istituzioni, sul terreno concreto, denunciano difetti ed insufficienze non irrilevanti.
    E cominciamo con la famiglia. Nessuna obiezione è lecito muovere alla affermazione teorica del primato educativo della famiglia (cfr. «Gravissimum educationis», 3). Sul piano pratico, però, bisogna obiettivamente ed onestamente riconoscere che la famiglia ormai è insufficiente come ambiente educativo, sia generico che specifico. Resta sempre vero, in teoria, che «i coniugi cristiani sono cooperatori della grazia e testimoni della fede reciprocamente e nei confronti dei figli e degli altri familiari. Per i propri figli sono essi i primi araldi della fede e gli educatori; li formano alla vita cristiana e apostolica con la parola e con l'esempio, li aiutano con prudenza nella scelta della loro vocazione e favoriscono con ogni diligenza la sacra vocazione in essi scoperta» («Apostolicam actuositatem», 11). In pratica, a parte il fatto che non di rado i genitori vengono meno a questi compiti, quand'anche essi rispondessero al quadro descritto, resterebbero purtuttavia handicappati da fatti che non dipendono da loro e, che, senza diminuire il valore della loro testimonianza, tuttavia lo rendono insufficiente.
    Innanzi tutto i genitori hanno una esperienza in gran parte inutilizzabile, anche sul piano della vita cristiana. La vita cristiana, infatti, si sviluppa in un contesto culturale concreto, che concorre a determinare quelle cristallizzazioni ottiche, che costituiscono la mentalità. I figli vivono una esperienza culturale spesso profondamente diversa, cui, anche con la maggiore buona volontà, i genitori non sono in grado di adeguarsi, poiché il ritmo di scoperta da parte dei figli supera il ritmo di aggiornamento da parte dei genitori, quando questi hanno riconosciuto la necessità dell'aggiornamento e si impegnano a realizzarlo. La famiglia ormai non soltanto non è più la fonte della esperienza culturale, ma, tra le fonti di esperienza culturale, non è neppure la maggiore. Ed è difficile dire se sia possibile e prevedibile un ritorno allo «statu quo ante».
    In secondo luogo, la scuola. La scuola avrebbe potenzialmente risorse enormi per svolgere, accanto al suo ruolo specifico, anche una azione di supplenza delle carenze familiari. Ma, anche qui, il discorso resta teorico. Senza voler attribuire valore superiore a quello, del resto non irrilevante, che merita al libro «Lettera ad una professoressa», bisogna convenire che la denuncia in esso contenuta, a parte qualche gratuita cattiveria, esprime le reali possibilità che, oggi, la scuola possiede. Le agitazioni studentesche possono essere eccessive, possono rivelare la mancanza di una profonda consapevolezza dei problemi o addirittura la mancanza di una qualsiasi alternativa concreta al sistema vigente, possono essere manovrate e strumentalizzate a fini politici; e tuttavia non sono immotivate. E le alternative che affiorano, se saranno concretizzate, risolveranno alcuni problemi, ma ne creeranno altri, soprattutto di carattere educativo. Lo spazio educativo potenziale della scuola finisce così per restringersi anch'esso, e non è escluso che di tale contrazione di spazio educativo faccia le spese la formazione religiosa, per la parte che spetta alla scuola anche al di là dell'insegnamento religioso vero e proprio.
    Quanto poi a questo, fino a che punto gli operatori pastorali della scuola coprono effettivamente lo spazio ad essi riservato? Pongo soltanto la domanda, perché la risposta diventerebbe lunga, complessa e, forse, rischiosa.
    In terzo luogo, le comunità ecclesiali. Parlo di esse, anziché delle Parrocchie, che vi sono del resto incluse, perché non vi sono implicate soltanto le Parrocchie, ma anche le altre comunità ecclesiali più ampie delle Parrocchie.
    Non è mistero per nessuno che il settore più scoperto della pastorale nelle comunità ecclesiali è proprio quello che riguarda i ragazzi e i giovani. Ne facevo cenno già all'inizio di questa relazione. Ed è un settore scoperto sia per insufficienza di strutture, sia soprattutto per insufficienza metodologica. Le comunità ecclesiali forse non avvertono neppure con sufficienza i termini e la gravità dei problemi pastorali relativi ai ragazzi. Non avvertono per esempio che il mondo religioso del ragazzo è un mondo in crisi: ed è in crisi per la inconsistenza delle strutture gioiose costruite nelle età precedenti, per la mancanza di valide alternative dall'interno a causa della inesperienza ed instabilità caratteristica che pongono il ragazzo in uno stato di pericolosa disponibilità, ed infine per il confronto con i fatti sociologici del contesto in cui il ragazzo vive e che, ad onta delle contestazioni di moda, che egli non ancora riesce a percepire nel loro significato, finiscono per inserire il ragazzo precisamente in un sistema.
    Le comunità ecclesiali continuano ad offrire al ragazzo il campo sportivo e la lezione di cultura religiosa, la tessera associativa e la Messa sociale, ma non ancora capiscono che il ragazzo deve crescere operando nella comunità, partecipando alla sua vita, alle sue decisioni, alle sue opere caritative ed apostoliche. Non mi consta, e spero di essere male informato, che in qualche Consiglio parrocchiale siano rappresentati anche i ragazzi, non per ascoltare le decisioni dei grandi, ma per contribuire, con la sensibilità dei ragazzi e con le esigenze e possibilità apostoliche dei ragazzi, alla programmazione pastorale della comunità parrocchiale.
    Le comunità ecclesiali si ostinano ancora a tenere separati ragazzi e ragazze, in un tentativo tanto ingenuo quanto miope di creare un ambiente sterilizzato contro le tentazioni della carne, quasi che bastasse questa sorta di separazione per eliminare le tentazioni, e, soprattutto, quasi che queste fossero le uniche e più gravi tentazioni cui è esposta la vita del ragazzo, spettatore continuo ed indifeso delle sconfitte degli adulti sul fronte della giustizia e della carità. Mentre l'idolo del denaro, delle ambizioni, dello spreco cresce continuamente, e le disuguaglianze sociali si approfondiscono e la civiltà dei consumi travolge, in una alienazione che non conosce precedenti, non soltanto i ricchi industriali, i prosperi borghesi, ma anche la parte privilegiata della classe operaia, ed anche preti e monache, minando alla radice le fonti stesse della moralità, noi ci preoccupiamo di tenere separati ragazzi e ragazze, ed anzi noi li teniamo alla corda, nei pochi momenti in cui essi stanno con noi, stimolando, proprio così, il desiderio, del resto legittimo, di incontri diventati frattanto meno spontanei a causa della costrizione. E questi incontri si dovranno effettuare proprio in quell'ambiente saturo di tensione, nato dalla idolatria cui si accennava prima, mentre molto meglio sarebbe se essi si verificassero in un ambiente più ossigenato ed istituzionalmente formativo. Il che non comporta la unificazione sul piano organizzativo e della formazione specifica, dei gruppi maschili e femminili di Aspiranti.
    Ci sono esigenze diverse che vanno adeguate in modi diversi e con strutture diverse.
    I rischi: chi nega che ci siano i rischi; ma dove non ci sono rischi: forse sulle panche della chiesa? Magari fosse vero! E, d'altra parte, chi è mai cresciuto normalmente in un ambiente totalmente sterilizzato? E chi ha conquistato mai qualcosa senza correre rischi e rischi proporzionati all'impresa? È precauzione la nostra o è disimpegno educativo? E l'amore dell'uomo per la donna non rientra forse nei capitoli della educazione? E chi svolgerà questo capitolo? Forse la famiglia? Forse la scuola? Vorrei dire, non qui, ma in una piazza piena di preti e di monache: chi ci crede alzi la mano! Che colpa hanno questi ragazzzi se sono costretti a studiare questo delicato capitolo della loro formazione umana e cristiana lungo le strade, o nelle oscure sale cinematografiche, o dietro le siepi?
    La pastorale dei ragazzi va ben oltre la Messa sociale e la lezione di cultura religiosa e la partita a pallone o a tennis da tavolo e i campi scuola, ed anche oltre i convegni di studio degli educatori in sedicesimo, preoccupati di non andare contro le tradizioni.
    Il discorso potrebbe continuare. Ma lo scopo di questi accenni era soltanto di far rilevare che le istituzioni che devono operare pastoralmente per i ragazzi denunciano, sul terreno concreto, difetti ed insufficienze che ne limitano la incidenza potenziale.
    E questo rilievo era fatto per confermare la necessità di un coordinamento, che non solo serva ad evitare divergenze di orientamento, ma serva anche e soprattutto a realizzare quella reciproca integrazione di vedute e di energie, che, mentre attenua il peso delle deficienze dei singoli, contribuisce ad evidenziare i problemi concreti, a chiarire le idee, a rettificare gli indirizzi. La pastorale dei ragazzi, come del resto tutta la pastorale, deve essere opera di tutta la comunità, sia perché è della natura della pastorale derivare la sua forza dalla realtà ecclesiale, sia perché è necessaria la convergenza di tutti per sopperire ai limiti ed ai difetti di ciascuno.
    Un'ultima osservazione vorrei fare in tema di coordinamento: il coordinamento non è soltanto problema di vertici. La pastorale dei ragazzi non la fanno soltanto gli adulti, bensì anche i ragazzi stessi. Il coordinamento è anche problema di basi. È chiara la implicanza primaria che scaturisce da questa osservazione: la vita associativa, pur preziosa, diventa momento molto ristretto della vita cristiana del ragazzo. Appartenere ad una associazione deve essere frutto di una libera scelta. E, come tale, investirà sempre una aliquota molto ridotta di ragazzi. Questi devono integrarsi nella comunità dei ragazzi e vivervi. La pastorale dei ragazzi non ancora si è posto questo problema. E così noi vediamo ragazzi passare in associazione interi pomeriggi, e, forse, ci consoliamo vedendoli al sicuro dai pericoli del mondo. E la massa dei ragazzi invece resta trascurata. Teniamoli meno nelle nostre associazioni, e mandiamoli nel mondo dei ragazzi a vivere con essi, a passeggiare con essi, a giocare con essi, ad esporsi con essi, ricchi però di una carica apostolica, che non potrà non influire sugli altri. Attirino i nostri ragazzi con il loro esempio altri ragazzi alle opere di misericordia spirituale e corporale; partecipino alle contestazioni del mondo dei ragazzi, portandovi il correttivo della visione.cristiana dei problemi, che, nonché svigorire le contestazioni, le riempiono di validi contenuti, le qualificano per le alternative costruttive che propongono, le difendono dal rischio di compromettere in nome della giustizia i valori della carità, di quella umana e di quella cristiana; entrino nei gruppi per contribuire alla filtrazione delle idee e delle informazioni che vengono dalla famiglia, dalla scuola, dagli strumenti di comunicazione sociale, dai costumi correnti, e per offrire una loro proposta cristiana di vita, dimostrando con il proprio esempio che la vita cristiana non è vita da invertebrati, ma vita da forti e liberi, e, che, pur svolgendosi all'insegna della croce, e pur coinvolgendo inquietudini e tensioni, non è travolta da esse, ma è illuminata da speranze fondate su promesse irrevocabili; scoprano il male che c'è nel mondo e si vaccinino a contatto con esso, non per eliminarlo totalmente dalla storia umana, ma per aiutare almeno qualcuno a non soccombervi, per imparare a compatire quelli che ne sono travolti, per offrire una mano a chiunque la richieda. Solo dopo aver fatto tutto questo, i nostri ragazzi potranno indicare agli altri ragazzi una comunità di fede, di culto e di amore, ed invitarli ad entrarvi; perché la loro testimonianza costituisce la migliore garanzia che effettivamente ne valga la pena.

    Conclusione

    E concludo tornando su di una considerazione fatta all'inizio; stiamo vivendo per rinnovare questo nostro mondo con la luce dello Spirito Santo filtrata attraverso il Concilio Vaticano II. La pastorale è tutta impegnata in questa opera. Non dimentichiamo però che il rinnovamento avverrà soprattutto in forza del ricambio operato dalle nuove generazioni. Per cui una concreta pastorale dei ragazzi costituisce la maggiore «chance» per il ringiovanimento della Chiesa e per il rinnovamento del mondo nella luce di Cristo.
    Non è questione di operare qualche lieve correzione metodologica ed organizzativa; è questione di cambiare l'ottica pastorale con la quale abbiamo valutato il problema dei ragazzi. È questione di rivedere una mentalità e di adoperare i solventi necessari ed efficaci per sciogliere le cristallizzazioni formatesi in essa. È questione di rassegnarci non solo ad assistere, ma a provocare la rotazione dell'asse del rapporto pastorale, senza la pretesa di vederne immediatamente i frutti, ma accettando il travaglio doloroso della trasformazione, sicuri peraltro che Colui che diede inizio all'opera, la compirà fino alla fine.


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