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    Le scelte di metodo

    nell'animazione

    dei preadolescenti

    Piero Lucisano

    (NPG 1988-04-78)

    Metodo è una parola che deriva dal greco: il termine greco era composto dalla parola «odos» che vuol dire strada, e dal suffisso «meta» che dà il senso della direzione, del verso.
    Nell'uso corrente il metodo è il cammino attraverso il quale si raggiunge un certo risultato. Insomma, se il metodo è un cammino, il metodo educativo è un mettersi in cammino insieme ai ragazzi, nella direzione del progressivo raggiungimento degli obiettivi insieme a loro prefissati.

    LA DECISIONE DI PARTIRE PER UN'AVVENTURA

    Certo si può interpretare l'educazione anche in modo statico, come trasmissione, ad esempio, di un sapere acquisito: «io che so, insegno a te come si fa»; la scuola è un ottimo esempio di questo modello. Essa infatti si basa sul modello di trasmissione di informazioni attraverso il linguaggio, inoltre tende, per economizzare e semplificare, ad insegnare i risultati e non i procedimenti.
    Scegliere di mettersi in un cammino educativo con dei ragazzi, vuol dire al contrario mettersi in discussione, ripercorrere con loro un itinerario di crescita, senza rinunciare alle proprie esperienze, ma accettando di essere se stessi in una condizione di apprendimento e di cambiamento.
    Chi non ha voglia di partire, non ha il gusto dell'avventura, non ha la curiosità e la gioia del fare insieme con i ragazzi, non può mettersi in cammino con loro e, nella misura in cui per educare intendiamo proprio questo processo dinamico, non può educare.
    Non si può partire per senso del dovere; il fare strada insieme deve essere un'esperienza di libertà.
    Non si può scegliere di educare, solo perché si pensa che i ragazzi ne hanno bisogno, solo perché si pensa che altrimenti potrebbero correre dei pericoli.
    Non si parte né per reprimere, né per prevenire, si parte per esplorare e per costruire.
    Quando si decide di andare, una cosa fondamentale è farlo con persone che ci piacciono, che stimiamo, che ci piacerebbe conoscere meglio, che in un certo senso ci attraggono.
    Si può partire per un'avventura solo con persone dalle quali ci aspettiamo molto, che sappiamo ricche di capacità e di umanità.
    Partire vuol dire avere in mente un percorso; il percorso può essere studiato sulle carte, ma chi ha esperienza di viaggi sa che tra la carte e la strada esistono moltissime differenze. In montagna spesso i sentieri utilizzati anni prima si trovano coperti di erbe, perché caduti in disuso. Il mondo cambia, noi stessi cambiamo e cambiano le persone che abbiamo accanto: la strada non è mai uguale a se stessa. Perciò, se è bene che chi si occupa di educazione conosca alcune elementari nozioni di psicologia dell'età evolutiva, di docimologia, di metodologia e di dinamica di gruppo, molto più importante è che sviluppi capacità di osservazione e di ascolto per meglio conoscere e capire i ragazzi.
    Se si accettano queste premesse, il discorso sul metodo educativo per lavorare con i preadolescenti sarà relativamente semplice.

    UNA PROPOSTA PER LA PERSONA

    Il primo punto fermo del nostro discorso sul metodo è che una proposta educativa deve rivolgersi al ragazzo considerato nella sua globalità, al ragazzo come persona.
    La scuola, abbiamo visto, tende a considerare i ragazzi solo come destinatari di messaggi verbali, al punto che un insegnante tradizionale non si accorgerebbe della differenza se, invece di ragazzi interi, trovasse solo teste fra i banchi; meglio ancora, si accorgerebbe della differenza, perché non sarebbe costretto a lanciare urlacci ogni tanto sullo stile del noto «professor muscolo» del Giornalino di Gianburrasca.
    I ragazzi hanno un corpo ed una mente ed hanno bisogno di correre ed usare le loro mani, quanto bisogno di usare la loro intelligenza per riflettere e discutere.
    Quanto più avremo coscienza della profonda connessione che esiste tra questi due aspetti, tanto più saremo in grado di fare proposte che siano efficaci.
    Oggi è necessario però fermare l'attenzione sul fatto che i ragazzi hanno bisogno di crescere sani, forti, a loro agio con il proprio corpo; capaci di usare le mani per costruire.
    Il nostro obiettivo si distingue ovviamente da quello di fare macchine da record, atleti che spendono la loro vita in piscina o sul campo da tennis. In sostanza ci proponiamo di aiutare i ragazzi a crescere in tutte le loro dimensioni ed in tutte le loro risorse, e di fare in modo di aiutarli ad orientarsi e a scegliere. Le doti che dovremo maggiormente sviluppare nei nostri ragazzi sono dunque il gusto di fare le cose e la flessibilità.

    Educare attraverso l'esperienza

    Il secondo punto fermo del nostro discorso sul metodo è che l'educazione passa attraverso l'esperienza.
    I ragazzi hanno in questa fase della loro vita un grande desiderio di conoscere, scoprire, esplorare.
    La strada deve essere il loro primo maestro.
    Molti educatori pensano che il loro primo compito sia quello di evitare ai ragazzi cattive esperienze, o, al meglio, di rimandare al più tardi possibile esperienze che potrebbero risultare «difficili».
    Il compito di un educatore è invece quello di cercare di scoprire esperienze positive da far fare ai ragazzi, di arricchire quanto più possibile il loro bagaglio di esperienze con gradualità e con rispetto dei loro limiti, ma senza rinunciare a spingerli ad andare un poco oltre.
    La strada però, prima di diventare metodo, luogo e strumento di crescita, è obiettivo da raggiungere: i ragazzi infatti a questa età iniziano non senza difficoltà lo sganciamento dalle dinamiche di dipendenza familiare e non sono ancora in grado di camminare da soli.
    Il gruppo dei pari diventa allora un sostegno fondamentale.

    UN GRUPPO CON LA VOGLIA DI FARE IMPRESE PAZZE

    Se vogliamo iniziare a lavorare con i preadolescenti, il primo passo sarà quello di aiutarli a costituirsi in gruppo, a formare la loro banda, cercando di essere accettati come «consiglieri» da questa banda di ragazzi.
    Per i ragazzi di questa età aggregarsi in piccoli gruppi è una esigenza che tende a realizzarsi in modo spontaneo. Esiste tutta una letteratura sociopedagogica su questi piccoli gruppi spontanei, che non di rado acquisiscono una fisionomia «deviante» rispetto al mondo adulto.
    Il passaggio da un gruppo di pari spontaneo ad un gruppo con caratteristiche educative non è immediato e richiede un intervento specifico dell'educatore.

    Elementi per fare gruppo

    In particolare l'educatore dovrà tenere presenti i seguenti elementi:

    Dimensioni del gruppo
    Come dimensioni numeriche non dovrebbe superare la decina di ragazzi.
    Un piccolo gruppo deve avere le dimensioni che consentono un rapporto faccia a faccia, un confronto franco, la possibilità di agire e recuperare conflitti e tensioni. Il piccolo gruppo deve avere dimensioni tali per cui ciascuno dei membri deve sentirsi ed essere percepito «importante», quasi indispensabile, dagli altri membri del gruppo.
    Un gruppo di queste dimensioni incontrerà dei limiti rispetto ad alcune attività, soprattutto nelle realizzazioni di attività che richiedono un maggior numero di persone, ad esempio nei giochi. Per questo è utile integrare la vita del piccolo gruppo con quella di un gruppo allargato composto da più piccoli gruppi. Nello scautismo, ad esempio, esistono dei piccoli gruppi, chiamati squadriglie, che costituiscono un gruppo allargato detto reparto.
    Il gruppo allargato per norma non dovrebbe superare le trentadue persone. Se si vuole discutere un argomento in trentadue e si vogliono dare cinque minuti a testa per esprimersi, occorreranno più di due ore e mezzo, un tempo che pochi ragazzi sopporterebbero e che comunque sarebbe male che si abituassero a sopportare.
    In questo senso la dinamica delle attività deve essere centrata sui piccoli gruppi e non sul gruppo allargato. Infatti è stato verificato che quanto più la dinamica favorisce il gruppo allargato, tanto più diviene centrale il ruolo dell'adulto o dei leaders e diminuisce lo stimolo all'autonomia ed alla crescita dei singoli.
    Questi suggerimenti sulle dimensioni dei gruppi devono essere considerati con estrema serietà, se si vuole fare educazione.
    Sappiamo che la domanda di educazione è notevole, ma non faremo un buon servizio offrendo come risposta situazioni di massa, nelle quali il prezzo più alto verrà senz'altro pagato proprio dalle persone più deboli, da quelle che hanno più bisogno.

    Livelli di età
    In generale si può dire che lo spirito di banda è favorito da una certa continuità culturale e cioè dalla presenza di ragazzi di età e di esperienze diverse, in modo tale che i più giovani possano apprendere dai più grandi ed avere di fronte a sé dei modelli concreti, simpatici e raggiungibili. Per i più grandi la presenza di ragazzi più giovani ed il ruolo di responsabilità che avranno nei loro confronti sarà di stimolo per crescere capaci di responsabilità nei confronti di persone e non solo di cose; per crescere capaci di disponibilità e di ascolto nei confronti dei più piccoli, che, in quanto portatori di un'esperienza diversa, sono occasione di stimolo e di confronto; infine li aiuterà a sperimentare l'autorità come servizio e come aiuto agli altri.
    Di conseguenza l'arco di età che si deve considerare può variare dagli undici ai quattordici anni.

    Una sede
    Un altro elemento fondamentale perché una banda esista è un territorio, una sede. I ragazzi hanno bisogno di un luogo, uno spazio tutto loro, dove ritrovarsi, e un grande bisogno di connotare questo luogo come «proprio», perciò di arredarlo, di costruire o riadattare i mobili, di caratterizzarlo di simboli. Non si può avere una base a rotazione tra più gruppi. Meglio una cantina, una tenda in giardino, una vecchia baracca, che un salone super- attrezzato da dividere con altri dieci gruppi giovanili.

    Un'organizzazione
    All'interno del gruppo si verranno ovviamente a costituire dei ruoli diversi in relazione alle capacità ed alle caratteristiche di personalità di ciascuno: vedremo in seguito come evitare che queste dinamiche si sclerotizzino e come invece possano essere un mezzo efficace di sviluppo della personalità dei singoli; per ora anticipiamo solo che è bene che questi ruoli vengano accettati e valorizzati, e per questo è necessario in qualche modo formalizzarli. Ad esempio, se c'è qualcuno che emerge come guida del gruppo, ebbene sia lui il leader riconosciuto del piccolo gruppo: questo aiuterà lui e gli altri a fare i conti in modo corretto con le dinamiche di potere e responsabilità.

    Le attività

    Non basta stare insieme, bisogna fare qualcosa, qualche cosa di importante, di grosso. A questa età i ragazzi non si contentano di riflettere su se stessi e su ciò che vivono nella vita quotidiana; hanno bisogno di mettersi alla prova, hanno il gusto per le avventure, per la scoperta di nuove realtà. Invero tutte queste cose li attraggono e a un tempo li terrorizzano, poiché il loro problema è vedere se sono in grado di riuscire, e la paura di fallire spesso li limita notevolmente.
    Bisogna allora aiutarli a trovare il coraggio per lanciarsi in attività nuove, aiutarli a dosare le difficoltà e a tenerle sotto controllo, ad affrontare successi ed insuccessi.
    Educare attraverso le attività è assai più impegnativo che educare attraverso le prediche, così come aiutare i ragazzi a lavorare da soli, porta via molto più tempo che fare le cose noi stessi. Se, ad esempio, i nostri ragazzi hanno deciso di organizzare una gita e noi vogliamo che siano loro a fare i preventivi, raccogliere le quote, fissare il pulmann, decidere i percorsi, ed al tempo stesso vogliamo che la gita riesca, impiegheremo un tempo dieci volte superiore a quello necessario per organizzare da soli una gita. In quel tempo avremmo organizzato dieci gite, ma non educato un solo ragazzo.
    Quantità e qualità appaiono talvolta un dilemma irrisolubile: in educazione però è abbastanza evidente che non è possibile puntare al risparmio delle risorse.
    Perché il gruppo si costituisca sono necessarie esperienze coinvolgenti, affascinanti, sognate; attività che vedono il gruppo vivere in comune, lavorare in comune per raggiungere un risultato, camminare fianco a fianco verso una vetta, dormire sotto le stelle. Perché queste grandi attività non siano episodi e acquistino il giusto significato, è necessario che il gruppo abbia una continuità di esperienza; questo vuol dire programmare non meno di un paio di incontri alla settimana, della durata di un paio di ore, e almeno una giornata piena al mese.

    La coscienza di essere «un gruppo»

    Un gruppo ha bisogno di percepirsi con una identità, un forte senso del «noi». Questo comporta anche un accordo sugli obiettivi ultimi, sui valori, un accordo sulle norme di comportamento, sugli stili da accettare o da rigettare.
    In sostanza chi decide di giocarsi nel gruppo deve avere chiare le regole del gioco ed il senso che ha il giocare insieme.
    L'identità del gruppo è un punto di partenza e un punto di arrivo.
    L'educatore non può imporre al gruppo una identità che ha definito a tavolino, anzi deve egli stesso scoprire la sua identità come membro del gruppo. Questo non vuol dire che l'educatore non giochi un ruolo determinante nel testimoniare uno stile, ma non può imporre delle scelte. Esiste una struttura basilare dell'educazione che pone l'educatore troppo direttivo in una posizione curiosa. Racconta Watzlawick del paradosso di una madre che voleva imporre al figlio di pensare con la propria testa, per cui il poveretto, se anche avesse voluto pensare con la propria testa, avrebbe fatto solo ciò che la madre gli imponeva e dunque non avreb be pensato con la propria testa.
    Per i ragazzi l'identità di gruppo sarà una conquista che dovrà essere costruita attraverso le esperienze, e poi via via attraverso un rapporto dinamico tra modelli testimoniati (legge) e storia del gruppo. Anche quando un gruppo avrà alle spalle molta esperienza ed una forte tradizione, si dovrà tenere conto che, con il ricambio naturale che avviene ad ogni inizio di anno, tutto viene in qualche modo ad essere rimesso in discussione. I nuovi arrivati non dovranno solo essere integrati in un gruppo esistente, ma ne cambieranno il volto.
    Un elemento da considerare è che l'identità del gruppo è favorita anche da elementi esteriori, quali ad esempio uno stile comune di vestire, oppure la capacità di esprimersi assieme. Si usa dire che un gruppo che canta è un gruppo che cammina, proprio per significare che la capacità di esprimersi come gruppo, cantando, è segno di capacità anche di affrontare insieme ostacoli più impegnativi.

    LA COGESTIONE DEL GRUPPO E IL METODO DELL'IMPRESA

    Abbiamo ora un gruppo di ragazzi e sappiamo che è necessario realizzare con loro delle attività. Allora ci sediamo con loro e ci guardiamo intorno.
    Certo la cantina che ci hanno dato come base è un poco conciata male. Forse sarebbe il caso di darle una verniciata, e... poi un tavolo sarebbe utile.
    Nasce così la prima impresa.
    Il metodo dell'impresa permanente è un adattamento particolarmente efficace realizzato dallo scautismo italiano di proposte pedagogiche dell'attivismo, quali ad esempio il metodo dei progetti.
    Si tratta di considerare ogni attività come una sequenza di fasi con una loro logica ed uno sviluppo simile a quello dell'attività del pensiero riflessivo.
    Una impresa ha dunque un momento di ideazione, un momento di progettazione, uno di realizzazione ed uno di verifica. Dalla verifica di un'attività dovrebbe già nascere l'idea per una impresa successiva. Così verificando con orgoglio le pareti della nostra base ridipinta e poggiando sul tavolo da noi costruito, potremo essere tentati di costruire una capanna, o di fare un'escursione; allora le proposte diverse verranno discusse votate e ricomincerà la progettazione.
    Alla base della metodologia dell'impresa permanente c'è l'obiettivo di evitare che la vita di gruppo si riduca ad una serie di attività abitudinarie (inizio riunione, preghiera, giochetto, chiacchierata, giochetto, preghiera) e necessariamente tutte centrate sull'animatore. Osservando in dettaglio la metodologia dell'impresa permanente, vedremo come essa contenga la possibilità di rendere i ragazzi stessi effettivamente protagonisti delle loro attività.

    L'impresa: sarebbe bello fare...

    Parlare dell'impresa permanente come di un metodo, vuol dire prendere le distanze, per un momento, dalle singole attività e fermarsi a riflettere su uno stile, su un modo di fare le cose.
    Vediamo però di arrivare a definire alcune caratteristiche generali partendo dall'analisi di una singola attività.
    Il primo momento è quello in cui nasce l'idea di fare qualcosa insieme. Non si tratta di una fase facile, poiché i ragazzi sono abituati piuttosto a subire che a proporre. Le idee nascono in un clima liberamente ed in situazioni concrete. Possiamo dire che nascono da esperienze o situazioni; ad esempio, se la sede è scomoda o male attrezzata, può nascere l'idea di aggiustarla. Oppure possono nascere dal fatto che abbiamo sentito di altri che hanno fatto qualcosa che piacerebbe fare anche a noi. Se il clima è adeguato non ci saranno limiti alle idee che i ragazzi verranno a proporre: la vita all'aperto, le realizzazioni tecniche, il teatro e le attività espressive, lo studio e la discussione di problemi sociali o personali, il gioco, saranno le aree più rilevanti.
    Un'idea, diceva Gaber in una canzone degli anni '70, finché resta un'idea è soltanto un'astrazione: sarebbe bello fare...; è dunque necessario in primo luogo metterla in comune con il gruppo, discuterla, scegliere tra idee diverse, stabilendo una gerarchia di priorità in base agli interessi, agli obiettivi ed al sistema di valori del gruppo.
    Dunque all'ideazione segue una fase di proposta e decisione: l'idea viene concretizzata in una proposta, se ne approfondisce il carattere, se ne ridiscutono i fini e le motivazioni, il gruppo decide di realizzarla.
    Da qui si passa alla fase di progettazione e preparazione. Il gruppo deve definire un progetto, verificare le sue forze, prepararsi: in gruppo ciascuno sceglie il proprio compito, dovranno essere preparati materiali e attrezzature, si dovranno, se necessario, acquisire competenze.
    La fase successiva è quella della realizzazione, della concretizzazione del progetto. Questa fase costituirà la verifica di tutto il lavoro fatto a monte.
    Infine due momenti ancora costituiscono l'ossatura della nostra attività: la festa e la valutazione dei risultati.
    La valutazione dei risultati comporta da un lato il confronto tra gli obiettivi del progetto e la realizzazione, e tra gli obiettivi che ciascuno si era proposto di raggiungere nella sua partecipazione al progetto e quello che ciascuno è riuscito a fare; dall'altra il confronto tra i valori del gruppo e lo stile di lavoro e l'andamento dell'attività.
    Dunque per valutazione intendiamo due aspetti, uno, che potrebbe essere meglio definito in termini di misurazione quasi obiettiva dei risultati; ed uno di giudizio sul senso di ciò che stiamo facendo.
    Alla valutazione del lavoro non può non seguire il momento celebrativo della festa. La festa dopo il lavoro ha una grande tradizione che forse la nostra società sta perdendo. La festa dopo il lavoro ha il senso della gioia per quanto siamo riusciti a realizzare con le nostre forze, e del ringraziamento per quanto abbiamo scoperto come dono nel nostro successo, che non è mai solo «nostro».
    Le fasi dell'impresa costituiscono dunque una sequenza naturale, il modo intelligente di fare le cose, modo sul quale i ragazzi devono abituarsi a riflettere. Il «learning by doing» non è dunque solo un imparare a fare delle cose, ma è scoprire che c'è un modo intelligente di fare le cose.

    Non si tratta di scalare il K2

    Un'impresa non è dunque necessariamente una attività eccezionale, ma è una attività vissuta in un clima eccezionale. Fare una gita, dipingere una stanza, raccogliere carta straccia, realizzare una recita, invitare qualcuno a discutere con noi, sono tutte imprese. Non c'è bisogno di andare sulla vetta più alta del mondo. C'è anzi da tenere in conto che in realtà, in questa fascia di età, i ragazzi non riescono ad impegnarsi per lunghi periodi di tempo. Dunque un'impresa non potrà durare che qualche settimana, al massimo due mesi. I ragazzi hanno bisogno di risultati concreti, e se il progetto richiede tempi lunghi sarà bene scandirne le fasi in tante piccole imprese.
    Il nostro obiettivo non è realizzare attività, ma educare ragazzi, per questo dovremo tenere conto che una attività deve poter essere vissuta dai ragazzi come esperienza positiva. Non tutte le esperienze sono positive, lo sono solo quelle che incoraggiano ad andare avanti.
    Sono negative invece quelle che negano possibilità di sviluppo, che fanno concludere con un fallimento totale che dalle attività si trasferisce alla percezione di se stessi.
    Molti rifiutano di leggere le formule matematiche, perché hanno avuto della matematica un'esperienza negativa; altri sono incapaci di ballare o di usare in modo espressivo il proprio corpo.
    Questo per dire che nell'aiutare i ragazzi a realizzare le loro attività, dobbiamo avere ben presente che è possibile imparare da un mezzo fallimento, ma che da un fallimento totale spesso se ne esce con le ossa rotte.

    PICCOLO GRUPPO E GRUPPO ALLARGATO

    Abbiamo visto come l'equilibrio nelle attività debba essere a favore del piccolo gruppo tipo «banda», ma è evidente che potrebbe essere necessario unire le forze di più gruppi per imprese, attività o giochi di più ampio respiro. È questo il vantaggio offerto da un «ambiente»
    Il fatto di poter variare le strutture di lavoro è necessariamente legato alla solidità dei piccoli gruppi di base. È comunque possibile, all'interno delle dinamiche di impresa, utilizzare gruppi di lavoro o gruppi di interesse formati con ragazzi dei diversi piccoli gruppi.
    Il gruppo di lavoro è un piccolo gruppo a caratterizzazione secondaria, centrato cioè sugli obiettivi da raggiungere: in esso le persone vengono in genere inserite per motivi funzionali (o perché hanno delle capacità, o perché sono seriamente intenzionati ad acquisirle); la leadership di questi gruppetti non spetta al più anziano, ma al più competente; l'organizzazione è generalmente rigida. È bene che questi gruppi operino con obiettivi circoscritti per una durata di tempo limitata.
    Il gruppo di interesse può costituirsi intorno ad un'area di attività, per adesione spontanea. Anche in questo gruppo si aderisce principalmente per raggiungere uno scopo diverso dal rapporto con le persone che lo compongono e dunque è definibile a caratterizzazione secondaria. La dinamica di un gruppo di interesse è inizialmente molto vivace, in genere: in seguito tende a perdere tensione, perché in molti ragazzi, a quest'età, l'interesse per una attività tende a durare poco. Anche in questo gruppo la leadership spetta al più competente. Il gruppo di interesse tuttavia, soprattutto per i preadolescenti, rappresenta spesso la tappa di partenza per la costruzione di un piccolo gruppo di tipo educativo.
    Può inoltre essere necessario prevedere dei momenti con gruppi separati per fasce di età. Se infatti la esigenza di costituire una situazione di continuità culturale ci spinge a formare il gruppo primario dei ragazzi, è anche vero che tra i più grandi del gruppo emergeranno esigenze di attività e di discussioni di livello più impegnativo, rispetto alle esigenze dei «piccoli».
    Sarà possibile dunque avere una sorta di consiglio degli anziani del gruppo allargato, che di tanto in tanto avrà momenti di attività e di riflessione specifici. Tra questi anche la riflessione sul ruolo di «grandi» rispetto ai piccoli deve occupare uno spazio, anche se non deve monopolizzare gli interessi di questo gruppetto che deve invece operare come momento di apertura rispetto alla vita di gruppo in generale.

    CICLO DEL GRUPPO E CRESCITA DELLE PERSONE

    Il nostro gruppo ora ha una sede, organizza delle attività, cresce ed al tempo stesso crescono le persone che lo compongono.
    C'è il rischio, per gli educatori, di concentrarsi sul gruppo e di cominciare a percepire le persone in funzione del gruppo e non il gruppo in funzione delle persone. Se il nostro obiettivo è di aiutare le persone a crescere libere, indipendenti, capaci di lavorare in gruppo e capaci di scegliere, allora le nostre proposte non dovranno essere rivolte esclusivamente al gruppo, ma, attraverso le attività del gruppo, a ciascuno dei ragazzi.
    Bisogna tenere sempre bene in mente che il gruppo educativo è per ciascun ragazzo un'esperienza limitata nel tempo e che, anche nel tempo in cui il ragazzo vi aderisce, sarebbe dannoso che il gruppo lo assorbisse totalmente.
    Se il gruppo riesce a durare col tempo, si creerà una dinamica tale per cui un ragazzo entrerà nel gruppo a undici anni e ne uscirà a quattordici, avendo in questi anni giocato, all'interno delle attività, ruoli diversi.
    Il cammino del ragazzo nel corso degli anni può essere rappresentato come una strada in salita, una strada che, attraverso il superamento di una serie di compiti evolutivi, porta ad essere adolescente. Questa strada, in particolare nella nostra società, è molto lunga, ed il ragazzo deve poter identificare delle scansioni. I ragazzi hanno infatti bisogno di avere dei fini «in vista», cioè concreti e attingibili, per organizzare le loro azioni, anche se al tempo stesso devono conservare la dimensione dei valori che orientano tutto il cammino.
    È dunque possibile scandire il cammino del ragazzo nel gruppo in momenti, ciascuno dei quali dovrà essere definito e comportare da parte del ragazzo il conseguimento di obiettivi concreti.
    La prima tappa segue la scelta di far parte del gruppo e comporta la disponibilità a ricercare gli obiettivi e i valori del gruppo.
    Un ragazzo accetterà di far parte del gruppo se vede che il gruppo gli offre la possibilità di valorizzare la sua personalità.
    La prima tappa è dunque la scelta di mettersi in cammino nel gruppo: ma questa scelta si attua anche attraverso un movimento di apertura del gruppo nei confronti del ragazzo stesso. L'adulto e gli «anziani» del gruppo devono cercare di scoprire le qualità del ragazzo e offrirgli occasioni di metterle a frutto. Si tratta di scegliere una strategia corretta. Ogni ragazzo ha almeno un cinque per cento di buono; e l'educatore e il gruppo fanno leva su questo. C'è chi è in grado di cantare, chi sa scrivere, chi disegna, chi parla bene, chi ha ottime idee, chi eccelle negli sport, chi se la cava in molte cose.
    Il gruppo deve riconoscere queste capacità attraverso incarichi formali. Alcuni dovrebbero essere relativi alla gestione del gruppo. Ogni gruppo dovrebbe avere un leader, un segretario, qualcuno che si occupi della cassa, qualcuno che si occupi delle attrezzature, e così via.
    Un seconda tappa coincide con una maggiore responsabilizzazione nei confronti del gruppo, e coincide con la acquisizione di abilità specifiche da mettere a profitto all'interno del gruppo.
    La terza tappa coincide con una autonomia di movimento e con una certa capacità propositiva nei confronti del gruppo stesso. In questa fase le singole abilità dovrebbero dal ragazzo essere organizzate in competenze.
    Quello che il ragazzo dovrebbe raggiungere è la capacità di proporsi in attività del suo piccolo gruppo o in attività del gruppo allargato come leader per competenza. La leadership non è infatti una caratteristica della personalità, ma un ruolo che deve essere giocato e che richiede una accettazione da parte del gruppo. Se ci troviamo nella necessità di intonare un canto, tutti guarderemo quello di noi ritenuto competente in questo, per aspettare l'attacco. In quel momento sarà lui il leader del gruppo. Quando chiederemo al ragazzo di costruirsi una competenza per poter essere utile al gruppo, gli chiederemo qualcosa di più che valorizzare una sua inclinazione; gli chiederemo la disciplina necessaria per arricchire il suo talento di tutte quelle competenze accessorie che gli daranno una padronanza completa di un'area di attività.
    Infine l'ultima tappa che il ragazzo percorre nel gruppo è connotata dalla capacità di animare il gruppo, di responsabilizzarsi intorno alla gestione del gruppo, testimoniando le esperienze fatte e mettendole a servizio nella attività di guida del gruppo stesso. In questa fase il ragazzo dovrebbe raggiungere quella capacità di leadership che gli consentirà di guidare un gruppetto di ragazzi più giovani. Anche qui alcuni potrebbero obiettare che la capacità di guida, in generale, è piuttosto una caratteristica personale: in effetti questa capacità di guida rimane invece ancora una leadership di competenza e la competenza richiesta è quella politica. Si tratta di una competenza fatta di capacità di saper ascoltare, di saper valorizzare gli altri, di saper mediare i dissapori, di esperienza di vita di gruppo.

    Da ciascuno secondo le sue capacità e i suoi bisogni

    È evidente che gli obiettivi che ciascuna tappa prevede non possono essere standard e dovranno essere personalizzati, in relazione alle richieste ed ai bisogni di ogni singolo ragazzo. È comunque possibile prevedere alcune abilità di base che tutti in qualche modo dovrebbero conseguire. Se, ad esempio, il gruppo si occupa di alpinismo, tutti dovranno imparare come si fa una imbragatura di sicurezza.
    L'educatore ed il gruppo devono, comunque, aiutare il singolo ragazzo a scoprire in ogni attività degli obiettivi da realizzare e a verificare il conseguimento di questi con rigore.
    Questa prassi dovrebbe aiutare i ragazzi ad entrare in una dinamica di progetto rispetto alla propria crescita, a fare propositi, a misurare lo sforzo, a verificare i risultati. Il fatto di mettere gli altri a conoscenza dei propri obiettivi e di chiedere loro aiuto per realizzarli e per valutarne il conseguimento, ed al tempo stesso il fatto di essere chiamato a suggerire obiettivi ed a valutare altri, aiuterà il ragazzo ad uscire dall'egocentrismo.
    Gli obiettivi di ciascun ragazzo possono da un lato essere suggeriti e condizionati da esigenze di realizzazioni di gruppo, dall'altro essere invece espressione di desideri e stimoli estranei, che il gruppo può valorizzare per arricchirsi aprendosi alla novità e all'ambiente esterno.


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