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    Preadolescenti e religiosità: la fatica del cambio


    Giacomo Dacquino

    (NPG 1987-06-62)



    La preadolescenza non è una semplice conclusione della precedente fanciullezza e neanche un prologo alla successiva adolescenza, ma un periodo specifico di sviluppo con caratteristiche proprie. Ne parlarono per primo Sigmund Freud nel 1910 e soprattutto Anna Freud, ma il considerare tali anni come una fase evolutiva distinta è un fenomeno recente. E sono state proprio le trasformazioni della società in cui viviamo (il dilatarsi del tempo di preparazione alla vita adulta, l'estensione della scolarità d'obbligo), che hanno obbligato l'attenzione scientifica a soffermarsi su tale periodo evolutivo.
    La preadolescenza non è quindi un momento di vita o una svolta, ma una fase di sviluppo di qualche anno, durante la quale avvengono profondi mutamenti fisiologici, psicologici e nei rapporti con la famiglia e la società. Le trasformazioni fisiologiche (pubertà) costituiscono in parte il substrato di molte problematiche; la principale è quella che il preadolescente deve iniziare a ristrutturare autonomamente il suo passato, rifiutando le credenze precedenti accettate passivamente, e attuare un processo di «individualizzazione».

    IL LUNGO CAMMINO VERSO L'IDENTITÀ

    Proprio perché negli anni precedenti il fanciullo ha vissuto una vita quasi esterna a se stesso, in balla dell'ambiente familiare e scolastico, dopo i dieci anni inizia il passaggio dalla dipendenza all'autonomia, dall'identificazione su modelli esterni alla formazione di un'iniziale identità; iniziale, poiché il soggetto è ancora in cammino verso la propria maturità, e una vera progettazione di sé è ancora in questi anni prevalentemente potenziale. Però si può affermare che in questa fase si inizia il passaggio dalla identificazione all'identità, nel senso di un passaggio dall'assimilazione acritica di modelli soprattutto adulti alla scoperta, rielaborazione personale e sperimentazione, di modelli «diversi», nuovi e piú vicini.
    Tale ricerca di uno spazio di autonomia, tale tendenza a prendere in considerazione se stesso, a somigliare a se stesso, a ricercare l'«immedesimazione» con se stesso per arrivare ad un primo concetto di sé, presuppone la precedente fase di identificazione. L'identificazione non è infatti soltanto un processo psicologico di dipendenza, ma è anche una premessa e un passaggio obbligato per la formazione dell'identità, che corrisponde ad un'autodefinizione, cioè ad un farsi autonomo dell'io di fronte alla realtà di sé e del mondo.
    Non è però facile per il preadolescente mettere in atto questo faticoso processo di definire e ridefinire se stesso, ai fini di sperimentare e di elaborare un nuovo io; nella ricerca dell'autonomia, egli deve progressivamente sganciarsi dal passato, cioè autonomizzarsi dall'autorità e dalla protezione dei genitori, e ciò mentre ha ancora un estremo bisogno (anche se consciamente lo nega) della loro guida e della loro solidarietà affettiva. Egli infatti svaluta, inizia a criticare e a contestare i genitori, ma è come il figliol prodigo che, insoddisfatto, tende a lasciare la famiglia, ma poi, rimasto solo, entra in crisi e deve ritornare. E tale pendolarismo, tale dinamica ambivalente verso i genitori, si proietta anche sull'autorità in genere, insegnanti, sacerdoti, Dio compreso.
    Ma se il preadolescente è «in uscita» dal mondo familiare, contemporaneamente è «in entrata» in quello sociale, proprio perché avviene in lui uno spostamento di cariche emotive dal mondo della famiglia a quello piú vasto dell'ambiente sociale. Le figure extrafamiliari non sono piú considerate nemiche e l'amico (I'«altro» come simile a sé) viene cercato proprio fuori dall'ambiente familiare. Il preadolescente sente infatti attrazione per i coetanei e forma il gruppo spontaneo dove, in una rete di interazioni che costituiscono la dinamica del gruppo, realizza il suo desiderio di separazione e di difesa dalla generazione adulta. Nel gruppo infatti può trattare gli altri con sistema paritario e ne riceve un appoggio affettivo che compensa la sua insicurezza, poiché il clan costituisce quella che, in termini di psichiatria sociale, è definita «agenzia di sicurezza».
    La minor importanza degli adulti (genitori compresi) si accompagna dunque ad una maggiore importanza e quindi attrazione per i coetanei, per il gruppo; anzi la diminuzione dell'accordo con i genitori va di pari passo con l'aumento di intesa con gli amici. E gli stessi rapporti esterni, non soltanto insegnano a rapportarsi con gli altri, ma controbilanciano la tensione da conflittualità con i genitori. Inoltre attraverso la socializzazione con i pari e la eterovalutazione (cioè la valutazione che riceve dagli altri), il preadolescente percepisce piú chiaramente se stesso e quindi procede all'autoscoperta, cosí che il suo rispecchiarsi nel gruppo sollecita una sua graduale identificazione dell'io.

    La fatica di un ricupero dell'identità religiosa

    In questa prospettiva psicodinamica è possibile comprendere quello che avviene oggi nella religiosità dei preadolescenti.
    La prima cosa che colpisce al riguardo è il suo alto grado di pratica religiosa istituzionale, al punto che tale periodo evolutivo registra il livello piú elevato di pratica religiosa tra le varie fasce di età dei credenti.
    Se però osserviamo piú da vicino la condotta religiosa dei preadolescenti, rileviamo che essa è spesso fortemente «cosificata» in contenuti di tipo nozionistico, in comportamenti solo parzialmente interiorizzati.
    Infatti la condotta religiosa del preadolescente si estrinseca per lo piú nella operatività, cioè in un alto grado di pratica rituale e sacramentale, in cui prevalgono le pratiche, i riti, le «cose da fare». È quindi una religiosità che potremmo definire d'ambiente, acquisita, prodotto di socializzazione, indotta cioè dai modelli esterni di educazione religiosa.
    Osservando però la religiosità del preadolescente sotto un profilo dinamico, si osserva che, da questo tipo di credenza passiva, inizia una incipiente ricerca di autonomia e quindi una credenza piú personale, soggettiva, attiva. La conseguenza è un'appropriazione della religione. Tale primaria appropriazione della religione viene per lo piú «personalizzata», cioè soggettivata. Ne sono un esempio le risposte molto esplicative del recente volume «L'età negata» (LDC, 1986): «Credo, ma a modo mio... Confesso i miei peccati solo a Dio... Il mio Dio è personalizzato».
    Avviene una «personalizzazione» dell'idea di Dio, che si sostituisce alla precedente concezione di Dio di tipo nozionistico e astratto. Tale personalizzazione della concezione di Dio porta spesso il preadolescente ad una religiosità di tipo fraterno, cioè ad una relazione piú ricca di comunicazione.
    Sulla stessa linea si modifica anche la preghiera, che diventa «mista», cioè sia mnemonico-recitativa con formule fatte sia contemporaneamente spontanea, meno formalizzata, confidenziale. E anche nella preghiera il preadolescente manifesta il suo processo di soggettivazione, ricorrendo spesso a richieste autocentrate, che cioè si riferiscono a se stesso, che rispettano la propria soggettività; richieste che si potrebbero sintetizzare nella frase: «Aiutami, o Dio, a fare quello che io voglio».
    Tuttavia la credenza del preadolescente si configura anche in un aumento del dubbio religioso. Il «credere» in Dio diminuisce durante la preadolescenza (dal 53,2 per cento dei dieci anni al 38,9 per cento dei quattordici). Tali percentuali, ricavate dalla ricerca citata, evidenziano come nel preadolescente la concezione di Dio cambi lentamente, ma progressivamente, sia nella qualità (Dio personalizzato) che nella quantità (calo del numero dei preadolescenti che asseriscono di credere in Dio). Questo crollo si verifica proprio perché la credenza è vissuta in modo conflittuale, in quanto la dinamica ambivalente verso i genitori si proietta anche sull'autorità in genere, Dio compreso.

    Quale appartenenza ecclesiale?

    A questa minor disponibilità alla credenza religiosa fa seguito ovviamente una progressiva diminuzione di appartenenza ecclesiale, anche se fino a quattordici anni, come si è già detto, gli indici di pratica religiosa sono molto elevati. Tuttavia le attività religioso-cultuali (cioè la partecipazione alla messa festiva, la frequenza al catechismo, la preghiera comunitaria) evidenziano, dal decimo al quattordicesimo anno, una progressiva caduta di interesse, al punto che la partecipazione alla cultualità è sempre piú di «sola presenza», mentre resta stabile la frequenza parrocchiale alle attività ludiche (molto importante l'attività sportiva, specie per i maschi), come pure restano importanti le attività relazionali di tipo amicale, anche se ancora molto giocate sull'operativo.
    In questo bisogno di stare e fare insieme si può dire che, sotto certi aspetti, il preadolescente usi le persone e gli ambienti del mondo religioso quasi esclusivamente per soddisfare interessi personali e interpersonali, non tanto per soddisfare bisogni religiosi; oppure che pratichi la religione per sentirsi «protetto»; eserciti cioè una ritualità con aspettative magiche, che faccia andare bene l'interrogazione scolastica, la partita, il compito in classe, tutto ciò che riguarda il suo personale giocarsi nel rischio dell'autoaffermazione. In altri casi la cultualità esprime il bisogno di esorcizzare, quindi di allontanare, la pulsione genitale; oppure di richiedere il perdono per liberarsi dai sentimenti di colpa da autoerotismo; in altri ancora la ritualità è la conseguenza di un bisogno di sicurezza e quindi la richiesta di un «alleato potente» dinanzi ad un pericolo incombente, quale una malattia grave di un parente, il rischio per la vita propria e altrui. Il preadolescente esercita la ritualità anche per esorcizzare un'angoscia profonda di morte.
    È infatti di frequente riscontro, durante i trattamenti psicoanalitici, il fatto che ragazzi, preadolescenti o adolescenti, portino in seduta sogni angosciosi di morte da esplosione atomica (durante i giorni di tensione nel Mediterraneo, o dopo la nube tossica di Chernobyl, ho constatato nei preadolescenti in analisi un intensificarsi di tali sogni di apocalisse nucleare).
    Anche il calo della preghiera è progressivo: a quattordici anni un preadolescente su quattro non prega mai. Inoltre sono frequenti motivazioni alla preghiera di tipo propiziatorio-autocentrato, come richiesta di aiuto, di sostegno, di protezione.
    Del resto il preadolescente è solo capace a stabilire relazioni interpersonali di tipo autocentrato, sia con l'amico che con il gruppo, e quindi anche con Dio.
    Sotto certi aspetti tale religiosità preadolescenziale è una religiosità spesso di comodo, opportunistica («Quando c'è qualcosa che non va, mi rivolgo a Dio»), che rientra in quel modello di condotta religiosa che ho descritto tra le nevrosi religiose dell'adulto etichettandola come «religiosità gratificante» (si veda il mio libro: Religiosità e psicoanalisi, Torino 1980).
    Sta di fatto che, durante la preadolescenza, lo «spazio e il tempo sacro» passano in secondo ordine rispetto ad altri spazi; a volte vengono abbandonati del tutto. Anche l'autoerotismo ricorrente in questo periodo, suscita un sentimento di colpa e la coscienza del peccato rinforza la visione di Dio come giudice severo. Ciò può determinare un intensificarsi della pratica religiosa o anche una sua caduta per reazione di difesa contro la tensione emotiva provocata dalla colpevolezza, oppure un oscillare tra atteggia-. menti di lassismo o di moralismo.
    Il contrasto tra morale religiosa e sessualità, con i conseguenti sentimenti di colpa, evoca spesso nel preadolescente l'idea che la religione rappresenti un fattore repressivo delle sue naturali tendenze affettive e fisiologiche.

    LE DINAMICHE PROFONDE SOTTOSTANTI

    Questi cambiamenti di religiosità e di condotta religiosa, che si configureranno poi in modo ancor piú evidente negli anni successivi dell'adolescenza, non sono solo il prodotto di influssi ambientali, come superficialmente qualcuno crede, ma l'effetto di psicodinamiche profonde. Sappiamo che verso i dieci-dodici anni affiora un atteggiamento di critica nei confronti dei genitori, conseguenza della conflittualità profonda precedentemente iniziata.
    Anche Dio, per un meccanismo di proiezione, diventa per il preadolescente sempre piú un «Dio distante dalla sua vita», e dal quale sente il bisogno di distanziarsi, dando inizio a quella che con un termine tecnico si definisce una «contro-dipendenza». Dio diventa cosí sempre piú una figura astratta (come del resto il padre biologico), vuota di contenuti affettivi e relazionali.
    Del resto la dimensione relazionale (amici), la dimensione affettivo-sessuale (scoperta-confronto e incontro con l'altro sesso), la dimensione cognitiva (scuola), quella progettuale (l'avvenire, nel senso di progettualità e di proiezione dell'immagine ideale di sé nel futuro) contribuiscono ad indebolire la credenza e la pratica religiosa. Non dimentichiamo poi che l'entrata da parte del preadolescente nel mondo sociale, con allargamento delle relazioni interpersonali, compensa il distacco dal sistema familiare e dall'ambiente religioso.
    La causa quindi del dubbio e del calo della pratica religiosa nel preadolescente è da individuarsi nella proiezione delle problematiche dal padre-genitore al padre-prete, al Padre-eterno. In altre parole la crisi della cerniera intergenerazionale, cioè del rapporto figli-genitori, si proietta anche sulle figure dell'ambiente religioso e su Dio.
    Sappiamo che durante la fanciullezza il ragazzo scopre l'istituzione religiosa, e insieme le «persone di Chiesa» (sacerdoti, pastori, suore, catechisti, educatori), che tende ad identificare con le figure parentali, i genitori, come avviene con gli insegnanti durante i primi anni di scuola. Lo stesso meccanismo d'identificazione si verifica anche tra l'immagine delle «persone di Chiesa» e l'immagine di Dio.

    La confusione simbolica

    Nella preadolescenza il soggetto vive, soprattutto a livello inconscio, una certa confusione di ruolo tra padre-genitore e padre-prete, tra padre-prete e padre-Dio. Questa confusione è facilitata anche dal fatto che nel linguaggio corrente il termine «padre» viene attribuito tanto al padre biologico che al sacerdote che a Dio. Ne deriva che l'immagine del padre-genitore è proiettata su quella del prete, e l'immagine del prete su quella di Dio. Analoga confusione di ruolo si verifica tra l'immagine materna e la suora (madre-genitrice e madre-suora), tra l'immagine materna e la Madonna (madre terrena e madre celeste), tra la madre naturale e la comunità dei fedeli (madre Chiesa). Negli anni successivi l'adolescente supererà tale confusione simbolica, prendendo coscienza dei valori specifici che hanno le varie immagini, ridimensionandole realisticamente e distinguendole tra loro.
    Il dubbio religioso del preadolescente, la caduta della pratica religiosa, il disinteresse, l'allontanamento dall'appartenenza istituzionale, devono dunque essere visti nel quadro generale delle psicodinamiche consce e inconsce di tale periodo di sviluppo. Soprattutto non vanno drammatizzate da parte dell'educatore che ben conosce quanto «bolle in pentola».
    Cosí non cadrà nella trappola di pretendere la pratica religiosa tradizionale, alleandosi in negativo alla famiglia che tende a procrastinare lo sganciamento attraverso le piú velate forme di iperprotezione.
    Sappiamo tutti quanto il preadolescente rifiuti, da parte degli educatori religiosi, interventi di tipo paterno-materno, atteggiamenti iperprotettivi o ripetitivi.
    Se l'educatore non commetterà in questo periodo, difficile per tutti, grossolani errori educativi e se, soprattutto negli anni precedenti, si sarà strutturata una buona religiosità nel rapporto genitori-figli, facilmente negli anni successivi alla preadolescenza la fede nella sua espressione religiosa personale verrà ricuperata, nel contesto di nuove e piú mature valenze di significato.


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