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    Vivere il corpo. Appunti per un’educazione alla corporeità


     

    Mario Pollo

    (NPG 2001-05-39)



    Nonostante la nostra consapevolezza che esistiamo nel corpo, sentiamo che la nostra vita non appartiene totalmente ad esso.

    Si potrebbe dire, paradossalmente, che noi siamo il nostro corpo ma che questo non è mai noi completamente.
    La presenza di questo paradosso accompagna l’uomo sin dal giorno in cui è emerso alla luce della coscienza.
    L’impossibilità di ridurre il nostro essere noi stessi al nostro corpo, pur riconoscendo che senza di esso non esistiamo, è all’origine di quel pensiero dualista che sin dalle origini segna il rapporto della civiltà dell’occidente con il corpo.
    Rapporto che può essere ben esemplificata dall’immagine del corpo come luogo dell’esilio dell’anima.
    Questo modo di pensare il corpo in contrapposizione all’anima, nato all’interno del pensiero greco classico ha attraversato le barriere del tempo ed è giunto in pieno e rigoglioso vigore sino alle soglie dei nostri giorni, dove peraltro seppur in modo più discreto e debole sopravvive.
    Questo dualismo che affida all’anima il primato sul corpo e fa del corpo una parte inferiore dell’essere umano, quella in cui si annida la tentazione del peccato, non è mai del tutto scomparso dalla nostra cultura sociale, nonostante che la teologia cristiana abbia da tempi remoti sottolineato che anche il corpo è stato creato da Dio e che è chiamato alla trasformazione finale nella resurrezione.
    S. Tommaso, ad esempio, sottolineava l’unità sostanziale originaria di anima e corpo con la formula «anima forma corporis» e quindi che non c’è anima senza corpo e non c’è corpo senza anima.
    Si potrebbe citare a questo proposito anche il concilio di Vienne del 1312 a sostegno di questa affermazione.
    Queste citazioni rendono evidente che nel pensiero cristiano autentico non può esistere persona umana senza uno dei due termini.
    Nella modernità questa concezione viene ulteriormente consolidata con l’affermare non tanto il fatto che l’uomo ha un’anima e un corpo ma che egli è, invece, anima e corpo, ovvero che egli è un sistema in cui anima e corpo sono inscindibilmente interrelati e si influenzano reciprocamente.
    Un sistema che vive in una dimensione di confine, che da un lato rende l’uomo un abitatore dello spazio e del tempo sottomesso al limite della mortalità e dall’altro lato aperto alla trascendenza e alla chiamata all’immortalità.
    Di questa concezione cristiana, peraltro classica, del rapporto tra anima e corpo, è necessario sottolineare come essa faccia abitare la dimensione del finito e quella del trascendente tanto all’anima quanto al corpo. E non come alcuni dualismi di origine greca che assegnavano all’anima il trascendente e l’immortale, e al corpo l’immanente e il mortale. C’è però da sottolineare come l’acquisizione di questa concezione non abbia posto fine al rapporto paradossale che l’uomo dell’occidente vive con il suo corpo.
    Per esplorare i motivi di questo condizione di paradossalità può essere utile una incursione nelle acquisizioni delle scienze naturali moderne.

    Il corpo, la vita, la mente e la coscienza

    La moderna ricerca biologica ha messo in evidenza come «la vita e l’impulso alla vita esistano all’interno di un confine», come «l’idea di organismo sia imperniata sull’esistere di tale confine» e, quindi, come «se non c’è confine non c’è corpo e se non c’è corpo non c’è organismo».
    Ma non solo. Le stesse ricerche hanno messo in luce che la mente, che normalmente definisce la persona umana, esiste solo se c’è il corpo, ovvero solo se esiste un luogo che ne fissa le condizioni di esistenza nello spazio e nel tempo.
    L’uomo diviene cosciente di sé e della propria unicità solo grazie al suo corpo, all’interno di quella relazione biunivoca che fa sì che ad ogni mente corrisponda un solo corpo e ad ogni corpo una sola mente.
    Si può affermare addirittura che la caratteristica costitutiva della condizione umana, rispetto alle altre specie viventi, nasce dal fatto che essa è l’incontro di un oggetto vivente limitato, ben circoscritto, facilmente identificabile: il corpo, con una mente apparentemente priva di confini spaziotemporali, invisibile e difficile, se non impossibile, da localizzare, ma che tuttavia si può esprimere solo all’interno dello spazio-tempo, ovvero della materia di cui è fatto il corpo umano.
    Infatti qualsiasi cosa accada nella mente accade nel tempo e nello spazio, accade cioè in quell’istante in cui il corpo occupa una determinata porzione di spazio.
    Senza corpo non esisterebbe la coscienza perché essa esercita il suo dominio sulle relazioni del corpo con gli altri elementi spazio-temporali che costituiscono il mondo.
    Il bambino comincia il suo cammino verso la sua identità/unicità e la coscienza prendendo consapevolezza del proprio corpo e della sua relazione con gli oggetti che ne costituiscono il mondo.
    Da questo punto di vista l’uomo appare il prodotto di uno strano matrimonio tra il materiale e l’immateriale che spingeva Nietzsche a identificare l’essere umano come un ibrido di «pianta e spettro».
    Da questa sommaria e ultrarapida incursione in alcune acquisizioni fondamentali delle neuroscienze si può ricevere la conferma che la condizione di paradossalità della condizione umana, che la rende irriducibile, nonostante il desiderio di alcuni ricercatori, al piano della materia o al contrario a quello dello spirito, che è alla base dei dualismi tradizionali, continua a caratterizzare la natura umana alimentandone, invece di ridurlo, il mistero.

    Il corpo come confine

    Ritornando alla constatazione del corpo come luogo reso possibile da un confine, si può evocare la metafora del corpo come patria della vita umana, che come ogni patria identifica chi la abita ma nello stesso tempo non ne esaurisce le potenzialità umane, che possono realizzarsi compiutamente solo se c’è anche l’incontro con ciò che è oltre il confine.
    Infatti il corpo se da un lato rinchiude l’uomo nei confini dello spazio-tempo, dall’altro lato, proprio grazie alla sua funzione di confine, apre allo sguardo dell’uomo l’oltre il confine.
    Un confine ha sempre anche una funzione relazionale in quanto separa e identifica due realtà: il dentro e il fuori e nello stesso tempo le congiunge mettendole in relazione.
    Da questo punto di vista il corpo è pienamente un confine, in quanto da un lato identifica l’unicità e la solitudine dell’uomo e del suo sé, e dall’altro lato gli consente la relazione facendogli vivere concretamente che la sua identità è definita da un’alterità. Che la sua identità non potrebbe esistere senza l’alterità da cui il corpo separa ma a cui unisce.
    Il corpo è il luogo del gioco attraverso cui l’uomo sperimenta la grandezza e il mistero della propria condizione, definisce il senso della propria vita ai bordi di quel confine che da un lato ha la visibilità e la concretezza della materia e dall’altro l’invisibilità e leggerezza dello spirito.
    Il corpo, come detto, è però anche il luogo privilegiato della relazione dell’uomo con se stesso, con gli altri e con il mondo. Anzi si potrebbe dire che il corpo è la comunicazione dell’uomo.

    Realtà virtuale, corpo e comunicazione

    Se il corpo è il luogo della possibilità della comunicazione umana, tutte le forme e i mezzi di comunicazione debbono necessariamente collocarlo al proprio centro. Raccogliendo alcune suggestioni di Mc Luhan si può addirittura affermare che i mezzi di comunicazione non sono che estensioni degli organi sensoriali e del sistema nervoso dell’uomo che da un lato lo esprimono ma dall’altro lo condizionano nel suo essere nello spazio e nel tempo.
    Questo significa che il corpo dell’uomo non è solo definito dai suoi limiti biologici, ma anche da quelli più ampi disegnati dalle forme e dai mezzi di comunicazione che utilizza.
    Se si accetta questo punto di vista, si deve accettare il fatto che l’uomo non abita solo il tempo e il luogo in cui è fisicamente presente, ma anche i tempi e i luoghi in cui è presente attraverso gli strumenti della comunicazione.
    Il corpo dell’uomo contemporaneo appare di conseguenza come un corpo per alcuni versi de-spazializzato e de-temporalizzato.
    Un corpo cioè che ha sempre di più una componente immateriale, fatta di immagini, di segni e simboli che sono presenti in modo puramente virtuale.
    Un corpo che si fa presente agli altri corpi senza la propria fisicità e senza la propria paradossalità dell’essere qualcosa di più di ciò che apparentemente è, ma solo con l’espressione di una sua potenzialità e possibilità, che è assai parziale e che può essere addirittura illusoria.
    Un corpo che è sempre di più visto attraverso il gioco delle immagini in cui le persone sono immerse e i segni che esso manda all’esterno e che ad esso ritornano strutturati in interpretazioni.
    Un corpo che le persone perdono la capacità di ascoltare direttamente e il cui stato di benessere spesso è dato da indicatori attraverso cui alcuni suoi stati sono letti dall’esterno, attraverso diagnosi di specialisti, test vari, modelli e pregiudizi e stereotipi dell’immaginario collettivo.
    Un corpo che, addirittura, è riconosciuto come proprio solo quando la sua immagine rientra all’interno dei modelli che collettivamente vengono definiti come socialmente accettabili e positivi.
    Quando questo non avviene perché il proprio corpo è diverso da quello dei modelli socialmente accettati e riconosciuti, il corpo è fonte di disagio, di difficoltà da parte della persona di riconoscere in esso il proprio sé e diviene, in molti casi, l’oggetto di cure ossessive al fine di renderlo simile ai modelli culturalmente valorizzati.
    Ginnastiche, di cui il cosiddetto body-building è l’esempio più chiaro, attività sportive varie, interventi chirurgici, cosmesi e diete sono spesso il segno del tentativo di ricondurre il proprio corpo all’interno dei modelli sociali.
    Alcune malattie che investono il rapporto delle persone con il cibo sono il segno del fallimento di questo tentativo che induce le persone alla scelta più radicale e terribile: distruggere il proprio corpo nell’illusione che questo liberi quel sé idealizzato che il proprio corpo nega.
    Ma oltre a questo la riduzione del corpo a semplice elemento simbolico, a segno e non più luogo della comunicazione, produce una profonda alienazione delle persone da se stesse e dagli altri.
    Questa alienazione è provocata dall’indebolimento della coppia identità/alterità prodotta dallo smarrimento del corpo all’interno dell’universo della comunicazione elettronica.
    Smarrimento reso possibile dal fatto che la vita delle persone è sempre più immersa nella «finzione», ovvero nel mondo delle immagini prodotto dai mass media elettronici.
    Questa immersione sembra aver dilatato enormemente le conoscenze su di sé e sugli altri di cui le persone sono in possesso, mentre in realtà ha solo reso astratti gli oggetti del loro conoscere.
    Infatti sempre più oggi si è convinti di conoscere quando in realtà si è in grado solo di riconoscere. Solo perché una cosa la si è vista si pensa di conoscerla, come ad esempio accade nei confronti dei personaggi televisivi che la gente crede di conoscere ma che in realtà riconosce solamente, perché vedere non significa necessariamente osservare, comprendere e interpretare.
    Questa confusione tra il conoscere e il riconoscere passa attraverso l’incapacità di conoscere, ascoltandolo nell’interiorità profonda del proprio sé, il proprio corpo e, quindi, quello dell’altro.
    E questo fa sì che si produca un indebolimento della capacità di rapportarsi all’altro, che è sì visto ma che contemporaneamente è privato della sua realtà complessa e reso astratto in una immagine.
    L’aver sostituito le immagini dei media alle mediazioni simboliche ha prodotto una interruzione o un rallentamento della dialettica identità/alterità.
    I media, infatti, consentono spesso solo di ri-conoscere, dando però l’illusione di conoscere.
    Questo indebolisce indubbiamente la possibilità di stabilire un contatto con l’altro reale offrendo in cambio la possibilità di un contatto esteso con il simulacro dell’altro. Se l’alterità è un simulacro, anche l’identità diviene un simulacro. Perdere il contatto con l’altro significa perdere il contatto con se stessi e, quindi, con il proprio corpo che è il fondamento della propria identità.
    Questa crisi della capacità di alterità mette in crisi anche l’identità delle persone che, come è noto, si nutre della dialettica identità/alterità.
    Alcuni studiosi osservano, sulla scia della lezione di Durkheim, nell’indebolimento della dialettica tra alterità e identità un fattore di produzione della violenza.
    Alcuni episodi di cronaca recenti sembrerebbero confermare gli effetti distruttivi dell’indebolimento della coppia identità/alterità.
    Infatti di fronte ad alcuni delitti efferati compiuti da adolescenti, ma non solo, ci si domanda spesso se chi li compie ha avuto prima, durante e dopo il suo gesto tragico una percezione reale del mistero rappresentato dalla vita della persona che aveva di fronte e che si manifestava nel corpo dell’altro o se, viceversa, ha avuto una percezione in cui il corpo dell’altro era, di fatto, null’altro che un simulacro e, quindi, anche la sua vita non era percepita nella profondità della sua grandezza e del suo mistero.
    È molto diverso ferire ed uccidere un simulacro o un corpo che manifesta il mistero e la complessità della vita che si condensa nel suo spazio-tempo.
    La stessa riflessione può essere sviluppata nei confronti del rapporto della persona con se stessa, perché se l’altro è un simulacro, anche la persona è per se stessa un simulacro.
    Molte forme di autodistruzione hanno al centro la riduzione del proprio sé ad un simulacro. È chiaro che perché questa riduzione si realizzi è necessario che la persona abbia perso il rapporto con la realtà della materialità del proprio corpo e della spiritualità che in esso si esprime.
    Il corpo come simulacro è l’espressione della tentazione della riduzione dell’essere al niente, dell’esistere ad una forma che si esaurisce nell’apparire come immagine senza tempo e spazio.
    E far acquisire così alla vita la consistenza di una finzione (fiction), di una storia che non rimanda alla realtà concreta e profonda delle persone che la interpretano.
    È la tentazione di pensare alla vita come un teatro di ombre in cui il corpo dei protagonisti è solo lo strumento tecnico per proiettare le immagini sullo schermo e non il luogo in cui si declina il senso profondo della loro vita.
    Non si distrugge, non si uccide un’ombra, la si restituisce semplicemente al nulla da cui proviene. In questo estremismo della virtualità si ha forse la radice più profonda della violenza come espressione dell’angoscia di essere null’altro che niente.
    In questo gioco del simulacro, o se si preferisce della virtualità, può collocarsi anche il rapporto che più di ogni altro presuppone il corpo e che, addirittura, può generare nuovi corpi: quello sessuale tende a perdere la sua consistenza per divenire anch’esso un gioco d’ombre.
    L’incontro tra simulacri sterili che tendono a negare la radice profonda della sessualità, che è quella di essere generatrice di nuova vita, per inseguire un piacere che non può mai essere raggiunto in modo pienamente soddisfacente ed appagante, non è, come qualcuno ingenuamente pensa, una esaltazione della corporeità contro la spiritualità ma, al contrario, la negazione della stessa corporeità e, quindi, del fondamento che può renderlo il dono radicale vicendevole tra Io e Tu.
    La sessualità esibita in modo indecente nella comunicazione di massa, ma anche nella comunicazione interpersonale non è, paradossalmente, il segno della materialità della nostra epoca storica, ma della sua immaterialità.
    Una immaterialità che però non ha nulla a che vedere con la spiritualità, che può nascere solo laddove la persona ha un rapporto autentico con la materialità del proprio corpo e non un rapporto virtuale con il suo simulacro.

    Educare l’anima per vivere il corpo, educare il corpo per vivere l’anima

    In questa crisi del corpo che attraversa la cultura sociale dell’occidente economicamente più sviluppato è possibile un’educazione che aiuti le nuove generazioni a scoprire e vivere in modo autentico il rapporto con il loro corpo?
    La risposta è sì! Ma alla condizione di assumere il corpo come luogo indispensabile di una vita che non si esaurisce nei suoi confini biologici.
    Questo significa che l’educazione al corpo non si può esaurire nella conoscenza, nell’ascolto e nella capacità di gestione del proprio corpo, ma che deve aprirsi all’esplorazione di quel mondo dello spirito a cui lo stesso corpo apre.
    Per amare il proprio corpo occorre amare anche il proprio spirito e, quindi, averlo scoperto e ascoltato.
    In altre parole, occorre avere esplorato la conoscenza di sé, aver iniziato cioè quella ricerca che giunge alla fine solo quando la vita svanisce della propria unicità, di ciò che fa della vita di ogni persona una storia unica e irrepetibile e un dono assolutamente originale per l’umanità.
    Ma questa ricerca per essere efficace deve realizzarsi, oltre che nell’interiorità della persona, nella sua alterità.
    È infatti l’incontro con l’altro nella sua unicità, con la sua concreta corporeità che può generare la scoperta dell’unicità e dell’identità personale.
    Ma non solo l’accettazione dell’altro nella sua unicità è l’unico modo per arrivare ad accettare se stessi, il proprio corpo nonostante i limiti e i difetti di cui si è portatori.
    Accettare e amare gli altri nella loro totalità, nonostante le loro imperfezioni, significa acquisire la capacità di amare se stessi nonostante i propri limiti, le proprie imperfezioni e le proprie debolezze.
    Educare al corpo significa, quindi, essenzialmente tre cose:
    - educare alla conoscenza, all’ascolto e alla gestione del proprio corpo;
    - educare all’interiorità, alla ricerca del senso attraverso l’ascolto dello Spirito;
    - educare all’alterità.
    La distinzione analitica tra questi momenti è solo didattica, perché nella vita delle persone essi sono parte di un unico momento, indivisibile.
    Infatti educare all’ascolto del corpo è un modo per educare all’interiorità. Basta a questo proposito osservare le tecniche di meditazione e di preghiera in cui questi due ascolti sono intrecciati in un unico ascolto.
    Allo stesso modo ascoltare l’altro mette in moto l’ascolto di se stessi.
    Concludendo si può affermare che l’educazione ad un rapporto corretto e autentico con il corpo non è nient’altro che un volto dell’educazione della persona alla scoperta della sua identità, radicata in una storia personale e sociale, alla abilitazione alla partecipazione solidale alla vita sociale e alla apertura della sua vita alla trascendenza.
    L’educazione al corpo in questa prospettiva è, per quanto detto, sia un passo dell’educazione più globale della persona a scoprire il senso del suo essere nel mondo come unicità solidale, sia un risultato di questa educazione.
    Il corpo è causa ma anche effetto della costruzione del nostro sé.

     


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