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    Verso una teologia del corpo


     

    Giannino Piana

    (NPG 01-05-31)


    Svilupperò la tematica della teologia del corpo facendo riferimento a due grandi categorie: la categoria dell’incarnazione e quella della escatologia.
    È necessario tuttavia partire dalla considerazione delle ambivalenze che caratterizzano la tradizione cristiana circa le problematiche del corpo e della corporeità. Infatti esiste tutta una visione positiva della corporeità nella Bibbia (con qualche «caduta» negli ultimi libri dell’Antico Testamento, dove l’influenza del mondo greco è già presente con le sue tentazioni dualistiche), mentre assistiamo poi nella tradizione successiva a una svalutazione graduale e accentuata della corporeità e della sessualità, che viene facendosi strada sia nel periodo patristico che in quello medievale (con il rigorismo e la penitenza corporale degli albigesi, dei catari, che fanno del corpo considerato fonte del vizio, un luogo di controllo esasperato attraverso forme penitenziali e ascetiche). Si pensi a come è tuttora dura a morire all’interno della tradizione cristiana la cosiddetta eresia docetista (dalla quale nasce poi una visione dualistica dell’uomo), che sosteneva che Cristo si è fatto uomo ma soltanto apparentemente. Tra le rare eccezioni vi è S.Tommaso d’Aquino, che ha una visione diversa da quella della tradizione a lui precedente e successiva, perché egli accosta il tema del corpo e della sessualità non con categorie platoniche (e dunque dualiste), ma con categorie aristoteliche. Partendo dall’unità dell’uomo Tommaso sottolinea come le facoltà spirituali dell’uomo non operano senza il corpo, che le passioni sono ricchezza per la piena espressione dell’uomo, che il corpo è il luogo della comunicazione. Aristotele parlava di animale politico, Tommaso lo trasforma in animale sociale, cioè essere costitutivamente relazionale grazie alla corporeità che lo immerge nelle relazioni.

    La visione biblica e i suoi fraintendimenti

    È subito da precisare che l’antropologia biblica è tutta contrassegnata da una visione unitaria della persona umana, e ciò che la contraddistingue è proprio l’assenza di una qualsiasi forma di dualismo. Basterebbe pensare ai termini usati per parlare dell’uomo, termini che si riferiscono tanto agli aspetti corporei che a quelli spirituali in maniera indifferenziata ed indicano sempre la globalità dell’uomo.
    I termini fondamentali che in ebraico definiscono l’uomo sono essenzialmente tre: bašar, nepeš e ruah. Bašar significa l’uomo come carne, nella sua struttura corporea originaria, addirittura nella sua muscolatura, la sostanza carnale dell’uomo. L’altro termine, nepeš, dice l’uomo come essere vivente, come soggetto di vita; e il termine ruah, spiritus, è l’alito di Dio con cui Dio dà vita. La ruah designa l’uomo in questo suo dipendere da Dio. L’uomo è strutturalmente corpo spiritualizzato, spirito incarnato, ma soprattutto essere in cui agisce lo spirito, lo pneuma, la ruah di Dio, che non è più soltanto principio di vita naturale ma anche di vita nuova.
    Nella teologia paolina troviamo la contrapposizione tra il «secondo la carne» e il «secondo lo spirito»: l’uomo che è chiamato a vivere secondo lo spirito, che deve rifuggire dal vivere secondo la carne. In realtà la lettura teologica che si deve fare di quei testi va nella direzione dell’intendere il «secondo lo spirito» come il vivere lasciandosi guidare da un principio che viene dall’alto, e il «secondo la carne» significa il vivere lasciandosi guidare dalla propria autosufficienza umana, e quindi non ha nulla a che fare con la contrapposizione dualista corpo-anima.
    Si può dire che l’antropologia biblica è dunque una antropologia unitaria e dinamica.
    I significati che la corporeità evidenzia dentro questa antropologia unitaria nell’ambito della rivelazione ebraica sono molto interessanti.
    * La corporeità rivela la dimensione mondana dell’uomo. È interessante da questo punto di vista il racconto della creazione da parte dello jahvista (Genesi 2): l’uomo che viene tratto dalla terra e che è fatto da Dio immediatamente custode della terra. Il corpo istituisce questo rapporto con la terra da cui l’uomo viene e a cui è destinato.
    * La corporeità è soprattutto fondamento e linguaggio della struttura relazionale dell’umano. Dalla tradizione jahvista di Genesi 2 occorre aprirsi alla tradizione sacerdotale di Genesi 1, il famoso racconto della creazione in cui il tema dominante della antropologia è il tema dell’immagine di Dio. Quel «a sua immagine lo creò» è la dualità che vuole l’uomo nella differenza fondamentale dell’essere maschio e femmina, come differenza costitutiva e come differenza relazionale. L’immagine di Dio si realizza pienamente nella relazione, tanto è vero che il Dio della rivelazione biblica così come ci verrà definitivamente manifestato nella persona di Gesù – il quale evocherà il Padre ma nello stesso tempo annuncerà anche lo Spirito – non è un Dio solitario, ma è un Dio che vive in comunione di persone, è il Dio trinitario. Comunione di persone che si istituisce nella reciprocità del dono: il Padre e il Figlio e lo Spirito sono in quanto reciprocamente si donano. Ecco che prende senso compiuto quel tema dell’immagine evocato nel testo biblico, dove l’immagine non riguarda tanto la singolarità della persona ma la relazionalità come costituiva dell’umano. Il corpo allora appare come fondamento e linguaggio di questa struttura relazionale.
    * Il corpo come metafora che descrive la bellezza naturale della persona. Inevitabile è il rinvio al Cantico dei Cantici, che – a dimostrazione di come gli ebrei non avessero falsi pudori – è entrato nel canone ebraico (cioè tra quei libri a cui occorre fare riferimento per orientare la propria vita nella prospettiva della rivelazione) fin dall’inizio come cantico di amore. Soltanto dopo gli si darà una interpretazione allegorica, allusiva al rapporto che lega Dio al suo popolo, Israele. Ed è un poema d’amore in cui si assiste all’esaltazione per esempio della nudità fisica, senza false inibizioni, senza falsi pudori. Si assiste all’affermazione della positività dell’attrazione sessuale, alla descrizione analitica dell’eros in tutti i suoi aspetti, alla esaltazione dell’amore erotico, come riconoscimento reciproco, come comunicazione corporea, alla sollecitazione a vivere il desiderio fisico in pienezza, desiderio carico di risonanze affettive, spirituali ma a partire proprio dalla fisicità del desiderio. Questa esaltazione della bellezza della donna e dell’incontro dei corpi è la conferma piena della visione altamente positiva che del corpo e della sessualità aveva il mondo ebraico.

    La categoria dell’incarnazione

    E qui si collega il secondo momento, quello dedicato a un recupero del significato del corpo nella storia della salvezza con riferimento specifico o particolare a quel momento ultimo più alto della storia della salvezza che è l’incarnazione. Per arrivare all’incarnazione tuttavia è importante partire da categorie che in qualche modo precedono e spiegano il senso dell’incarnazione, il senso di una salvezza che contrariamente a quanto pensavano altre religioni, egizia e mesopotamica, con una concezione cosmovitalistica di Dio, è una visione storica, non una visione naturalistica. La salvezza non viene dal cosmo, viene dalla storia dell’uomo in cui Dio è in qualche modo a sua volta co-attore. Ebbene, in questo contesto storico-salvifico, che spiega il senso dell’incarnazione, va ripreso il messaggio già accennato della creazione. La teologia del corpo affonda le sue radici senza dubbio nel contesto della creazione, nei racconti della Genesi che hanno un messaggio che può essere espresso in questi termini: la salvezza fin dall’inizio è pensata da Dio come salvezza dell’uomo integrale, in quanto l’uomo nella sua integralità viene da Dio. La creazione sta a indicare questa provenienza dell’uomo da Dio e dunque questa chiamata alla salvezza dell’uomo nella sua integralità. Sono due cose che si rapportano tra loro strettamente. Se tutto l’uomo viene da Dio, allora tutto l’uomo è chiamato da Dio alla salvezza. In questo contesto emerge quella teologia del corpo che sottolinea come il corpo – realtà molto bella e molto buona – è epifania della benevolenza divina. Ma nello stesso tempo il corpo è anche segno della nostra solidarietà con il processo evolutivo del cosmo, richiamo già fatto al venire dell’uomo dalla terra che in qualche modo indica questo passaggio graduale. Il concetto di creazione non è un concetto statico, è un concetto dinamico; creazionale è certamente l’atto di Dio che inaugura un processo, destinato ad evolversi con la comparsa dell’uomo e con l’assunzione di responsabilità da parte sua in quanto co-attore insieme a Dio della creazione. Per cui creazionale è anche lo sviluppo successivo, non soltanto l’atto originario.
    Allora il corpo in questa prospettiva diventa segno della nostra solidarietà con il processo evolutivo della creazione, o ancora realtà che ci inserisce solidalmente nella storia della umanità e del mondo. Ma più radicalmente ancora il corpo diventa realtà che situa l’uomo di fronte a Dio nella prospettiva della creaturalità, come segno di una esistenza donata. Il termine vocazione indica questa chiamata unica, irripetibile, che Dio fa di ciascuno di noi. Noi siamo vocati, chiamati per nome, come frutto di un dono assolutamente gratuito.
    Questa creazione ci viene riproposta nel Nuovo Testamento come evento che ha la sua radice in Cristo. C’è una continuità tra Cristo e la creazione, al punto che la letteratura neo-testamentaria, soprattutto quella paolina, evidenzia ripetutamente come la creazione è pensata, voluta, fatta in Cristo. La creazione è evento cristico.
    Il cosmo e l’umanità sono pensati sin dall’inizio in questa prospettiva e in vista di questo evento, che è il farsi storia di Dio in Cristo. La venuta di Cristo è rivelazione del senso cristologico già inscritto nella creazione, ed è l’avvio di quel compimento verso cui la creazione tende, che è poi il compimento escatologico: Cristo cioè rappresenta il punto di arrivo della storia della creazione, ma anche il punto di partenza di quel rinnovamento radicale dell’umanità e del mondo che troverà la sua consumazione nei cieli nuovi e nelle nuove terre così come si realizzeranno alla fine dei tempi.
    L’incarnazione proclama allora la grandezza e la promessa racchiusa nell’esistenza terrena dell’essere umano. La grandezza, perché Dio non ha avuto paura di assumere il corpo facendosi a sua volta solidale con la nostra corporeità. Dove l’incarnazione va letta come il situarsi di Dio nello spazio e nel tempo: l’autolimitarsi di Dio. C’è tutta una tradizione mistica dell’ebraismo e anche del cristianesimo che va in direzione opposta, che legge la creazione come il momento non tanto della rivelazione della onnipotenza ma dell’impotenza di Dio. Egli infatti, facendo essere l’altro da sé e eleggendolo suo interlocutore e affidandogli il mondo nel grande rispetto della libertà con cui lo ha creato pur sapendo che l’uomo avrebbe abusato di questa libertà, si ritira pericolosamente. Inizia qui il processo di silenzio, di nascondimento di Dio, quel processo che condurrà Dio a nascondersi definitivamente fino a diventare impotente sulla croce, fino a rivelare la potenza attraverso l’impotenza, come dice Paolo, attraverso la kenosis, lo spogliamento. Ma nello stesso tempo l’incarnazione è anche promessa, perché nella corporeità di Cristo inizia il processo di trasfigurazione dell’uomo e del cosmo.
    Il corpo di Gesù diviene evento sacramentale che proclama la salvezza che si realizza non al di fuori del corpo ma dentro al corpo. C’è una bellissima espressione di Tertulliano: «caro salutis cardo», il cardine della salvezza è la carne. La corporeità di Cristo diventa il sacramento dell’incontro dell’uomo con Dio attraverso la carne: è lo sguardo di Gesù che incrocia il volto dell’altro, il «vieni e seguimi» è sempre frutto di quello sguardo. I miracoli di Gesù sono gesti corporei, che indicano una salvezza che a sua volta assume la totalità dell’umano a partire dalla corporeità. Sono gesti corporei che realizzano il miracolo, e il miracolo al tempo stesso è trasformazione degli aspetti di caducità del corpo, la malattia, la sofferenza, anche se dietro a questo c’è il rinvio ad una salvezza ulteriore che è la salvezza dell’interiorità, la conversione, l’adesione nella fede alla persona di Cristo.
    L’economia cristiana ha un essenziale spessore corporeo che implica allora l’abbandono di ogni forma di spiritualismo astratto, che spinge a fare i conti con una salvezza che si istituzionalizza anche attraverso segni visibili costitutivi dell’economia sacramentale. I sacramenti altro non sono se non un assumere da parte di Dio alcuni elementi materiali (l’acqua, l’olio, il pane e il vino), e assumere nello stesso tempo alcune situazioni esistenziali forti dell’esperienza umana (dalla nascita alla morte) per significare appunto il farsi di questa salvezza dentro lo spazio e il tempo, continuando la pedagogia dell’incarnazione. La cosiddetta vita secondo lo spirito non può essere pensata come vita fuori dal corpo, ma come vita nel corpo, come vita che manifesta la persona nella sua interezza, come persona votata a quel cammino incontro a Dio che è il cammino dell’esperienza cristiana quotidiana. La vita secondo lo spirito descrive come categoria questa esperienza della vita quotidiana. Il corpo non è qualcosa che si oppone allo spirito, è l’esistenza concreta dello stesso spirito nello spazio e nel tempo, è la dimensione rivelatrice dello spirito, come dice Karl Rahner.
    Sappiamo tuttavia che le tentazioni dualiste che si sono sviluppate al di fuori – ma anche al di dentro – della tradizione cristiana, hanno spesso inteso la salvezza come salvezza dell’anima contraddicendo quella visione della salvezza che investe l’uomo per intero, proposta da tutta la tradizione ebraica e ripresa attraverso il mistero dell’incarnazione dalla tradizione più genuina del cristianesimo. E la conferma di questa sta nel fatto che tra le verità fondamentali del credo, del simbolo apostolico che abitualmente recitiamo, c’è quella che forse rischiamo di dimenticare o di sottovalutare che è la verità della risurrezione della carne.

    La categoria dell’escatologia

    Per molto tempo (e ancora oggi per molti aspetti) ha prevalso una interpretazione riduttiva dell’escatologia: riduttiva anzitutto nel senso che l’escatologica è stata spesso identificata esclusivamente con l’aldilà, e non invece come una dimensione costitutiva dell’intera vita cristiana che si sviluppa nell’aldiqua e che trova poi un suo compimento nell’aldilà. In realtà noi sappiamo che l’incarnazione segna, attraverso l’introdursi nella storia di Dio, l’inizio del regno. E la storia comincia a essere una storia salvata, in cui già si rende presente la vita eterna. Giovanni, quando parla della vita eterna, ne parla come di una realtà che è già iniziata, perché soprattutto attraverso il mistero della resurrezione di Gesù noi siamo ormai uomini nuovi, partecipi della vita del risorto. Ecco perché allora occorre ricollegare l’escatologia all’aldiqua, cioè concepire l’escatologia nella dinamica del «già» e del «non ancora». Del «già» del regno di Dio, in quanto presente nella storia dalla venuta di Cristo; del «non ancora» del suo compimento definitivo, perché questo compimento avverrà oltre la storia, alla fine, al termine. L’escatologia implica allora attenzione al presente e costante proiezione nel futuro assoluto di Dio.
    L’altro tentativo di riduzionismo è poi la radicale contrapposizione tra l’aldiqua e l’aldilà. Moltmann, nella sua opera fondamentale Teologia della speranza, afferma che questa contrapposizione ha generato dei cristiani senza terra e degli uomini senza tensione al cielo, cioè dei cristiani incapaci di aderire alla corposità della vita quotidiana come vita terrestre e degli uomini che, proprio perché vedevano nella predicazione cristiana l’annuncio di qualche cosa che stava soltanto al di là, hanno rifiutato il cristianesimo.
    La perdita del rapporto con la terrestrità, con il corpo, mutila il senso pieno della salvezza cristiana. Ripeto un concetto già espresso: che il nucleo portante della riflessione escatologica alla quale vogliamo fare riferimento è costituito da quella verità di fede che recitiamo spesso nel Credo. La vita eterna è vita che assume la totalità dell’umano. Questa affermazione significa credere nella resurrezione dell’umanità e del cosmo. Il dogma della resurrezione della carne implica che la vita eterna sia vita di solidarietà tra gli uomini intesi come persone nella loro fisicità, e sia vita di partecipazione a un cosmo nuovo, redento ma in continuità col cosmo che abbiamo abitato. Il fondamento di tutto questo è la resurrezione di Cristo, che la tradizione ci presenta come il compimento di tutte le promesse. Tutta la storia dell’Antico Testamento è orientata verso questo momento. La promessa si incarna in eventi liberatori che confluiscono in quell’evento liberatorio per eccellenza che è la resurrezione di Cristo. Ma la resurrezione di Cristo è, a sua volta, promessa di un ulteriore compimento per l’umanità e per il mondo. L’uomo nella risurrezione di Cristo è uomo risorto, anche se ovviamente la partecipazione che l’uomo e il mondo hanno alla resurrezione di Cristo in questa fase storica è parziale, è limitata, è data come caparra in vista di una pienezza che si realizzerà nella vita eterna.
    Il concetto veramente fondante nella fede cristiana è la risurrezione, non l’immortalità. Il pensiero biblico non parla mai di immortalità dell’anima, tranne in alcuni momenti conclusivi dell’Antico Testamento; ma parla sempre di risurrezione personale dell’uomo, ponendo l’accento sull’unità dell’essere umano e sulla impossibilità di separare il corpo dallo spirito. Risurrezione che diventa, nella prospettiva ebraico-cristiana, evento che rivela l’essere umano nella sua realtà più profonda, che manifesta come l’essere umano è unitario, relazionale e cosmico, e come quindi non possa salvarsi l’essere umano se non salvandosi queste diverse componenti che lo costituiscono. È la rivelazione di ciò che l’uomo è. Evento non solo futuro, ma che agisce già fin d’ora, nelle profondità della storia del mondo, dopo la risurrezione di Cristo. La condizione di risorti è già iniziata per il cristiano, unito al Cristo risorto, al Cristo glorioso, perché con la morte di Cristo la vittoria sulla morte è definitivamente segnata per l’umanità e per il mondo. La morte, questo evento kenotico, di spogliamento radicale, di impotenza che è scacco, fallimento, non senso, assurdità, diventa luogo a partire dal quale acquista senso l’esistere eterno.
    È il grande capovolgimento che anche Paolo propone quando mette in contrapposizione la sapienza umana con la sapienza di Dio: ciò che presso gli uomini era stoltezza presso Dio è sapienza. Questo ribaltamento di logica fa della morte di croce un evento salvifico, di liberazione e di vita, per cui la speranza cristiana fiorisce a partire dalla croce, come sconfessione della morte nella morte, non oltre la morte.
    Un altro elemento, sviluppatosi nella tradizione cristiana per significare la vita eterna, e che ancora una volta riproporrà l’attenzione sull’integralità dell’uomo in quanto chiamato a partecipare della salvezza definitiva, è il Paradiso. Il termine «paradiso» è un termine che viene dal vocabolario persiano e che significa «giardino». La fede cristiana ha come oggetto il paradiso. L’inferno è soltanto il contrappunto, come possibilità alternativa che è data all’uomo e che è data proprio per significare quanto la partecipazione alla vita eterna che è dono di Dio deve in qualche modo essere anche dono accolto. Il dono di Dio suppone la risposta libera dell’uomo, e la possibilità c’è dove io ho l’alternativa. Il paradiso è stato immaginato in modo diverso a seconda delle diverse epoche, con una varietà di simboli che tendono a descrivere ciò che esso sarà partendo dall’esperienza umana. Nella stessa Bibbia c’è il paradiso come giardino lussureggiante, oppure, quando la civiltà che non è più agro-pastorale ma diventa una civiltà urbana, il paradiso è concepito come la città santa, Gerusalemme. Queste immagini risentono della diversa condizione socioculturale in cui ci si trova a vivere. Noi dovremmo anche oggi risimboleggiare queste realtà utilizzando elementi nuovi. Il Nuovo Testamento ci offre delle indicazioni in proposito che sono molto interessanti: il tema del banchetto, il convito, dove si fa comunione tra le persone e si condividono le cose; il tema delle nozze, della festa permanente sono tutte immagini che simboleggiano una condizione di piena armonia in senso allargato, di comunione con Dio, con gli altri, con le cose. Questo paradiso è la patria dell’identità integrale, dell’uomo con se stesso, con gli altri e col cosmo. La sostanza del discorso è la sottolineatura di questa integralità.
    Qualcuno ha poi visto un introdursi della concezione dualista nella cosiddetta teoria del doppio giudizio, il giudizio finale per ciascuna persona (particolare) che è giudizio che definisce uno stato ancora provvisorio, e il giudizio finale che è il giudizio in cui si ricostituisce la resurrezione della carne. Si deve essere molto cauti nell’interpretare in senso temporale questi due giudizi, perché in realtà non si tratta di una distinzione tra un momento e un altro momento. E neppure si tratta di possibilità di permanenza dell’anima da sola per un certo tempo. Già Tommaso d’Aquino diceva che l’anima è così segnata dal corpo che non può più vivere senza il corpo, essendo un tutt’uno con il corpo. Si tratta piuttosto del modo con cui avviene il giudizio di Dio sull’umanità. Anche perché Dio crea ciascuno per nome e crea l’universalità dell’umano. Sono i due aspetti: l’aspetto del giudizio sulla singola persona e l’aspetto del giudizio sull’umanità nella sua globalità. Sono due momenti che non implicano un momento in cui il salvato è soltanto l’anima separata dal corpo e poi un momento in cui successivamente si ricongiunge.

    Per una spiritualità dell’aldiqua

    Interessanti spunti per una spiritualità dell’aldiqua tesa all’aldilà si possono trovare rileggendo il discorso della montagna, che è il grande messaggio dell’uomo nuovo, dell’uomo che vive la realtà del regno di Dio e la vive trasformandola in atteggiamenti che permeano di sé l’esistenza quotidiana. Sono spunti che si richiamano alle beatitudini e che recuperano il corpo in una prospettiva di apertura verso l’aldilà.
    Pensiamo a come il corpo è anzitutto segno della nostra condizione di povertà creaturale: siamo creature in quanto non abbiamo autodeterminato da noi l’esistenza, ma l’abbiamo ricevuta come dono. Questo implica un atteggiamento di «umiltà metafisica» a partire dalla quale la povertà si fa dono di sé. L’esistenza ricevuta in dono abilita ad una povertà che si fa dono, abilita a ricambiare con amore l’amore, a dire di sì all’amore in un atto di amore. La povertà diventa allora affidamento a Dio come superamento della presunzione dell’autosufficienza, e questo affidarsi coincide con la fede, ma diventa anche comunione e condivisione con gli altri di ciò che abbiamo e di ciò che siamo. La povertà diventa convivialità.
    E continuando a leggere, il corpo è anche spazio di accoglienza dell’altro e del mondo: beati i puri di cuore, i miti, i misericordiosi. Modi di essere che ristabiliscono l’armonia, la pace di cui parla un’altra beatitudine, dedicata ai pacificatori, e che porta con sé tutte le beatitudini: perché saranno chiamati figli di Dio. Non c’è titolo più alto di quello dato ai pacificatori. La pace non come il far finta che i conflitti non esistano, ma la pace come capacità di stare dentro i conflitti, di coglierne anche la dimensione positiva: attraverso la conflittualità la vita cresce. La diversità inizialmente produce sempre conflitto, ma c’è un modo di guardare la diversità che va nel segno positivo del riconoscimento che la diversità è ricchezza, anche per la propria identificazione. Ecco il corpo come luogo o spazio di accoglienza dell’altro e del mondo nel segno di questa reciprocità costruita sulla base della purità di cuore, che è la purezza delle intenzioni, la purità interiore contrapposta alla purità legale, al formalismo legale. Da ultimo il corpo come ambito in cui si rende trasparente la storicità dell’esistenza e il suo senso futuro. Mi viene da richiamare la beatitudine di coloro che sono nell’afflizione. Il corpo è anche il luogo in cui si rende trasparente l’invecchiamento, la malattia, la morte, che sono esperienze umane irrinunciabili, in cui il dramma dell’umano si evidenzia, perché la morte rimane assurda anche per chi crede, uno scacco insuperabile. Nessuno va incontro facilmente alla morte, neppure Gesù. Nel corpo facciamo esperienza anche di questa storicità dell’esistenza che ha caratteri tragici. Certo, la speranza cristiana fiorisce al di là della tragicità dell’esistenza, ma non ci toglie dalla drammaticità. Ecco la beatitudine di coloro che piangono, che è beatitudine che sta a indicare il segno positivo che anche le esperienze negative portano dentro di sé. È il paradosso cristiano: la croce. La certezza di essere rivestiti della grazia del risorto costituisce un elemento attraverso il quale strutturare anche la nostra vita presente in una dimensione «spirituale». Questa dimensione è giusto che passi attraverso la corporeità che segna la nostra creaturalità, il nostro bisogno, pur vivendo al di dentro della storia, di guardare con occhi nuovi la storia trascendendola, di aprirci a un orizzonte luminoso che sta oltre l’orizzonte del presente, che non è neanche l’orizzonte del futuro storico mondano ma è l’orizzonte del futuro assoluto. In questo contesto il corpo viene recuperato pienamente nella sua realtà, diventa il luogo della danza della vita, ma anche spazio salvifico, perché la salvezza non può mai essere pensata al di fuori o al di là del corpo, ma sempre e soltanto dentro il corpo e con il corpo.


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