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     Evangelizzazione

    e educazione

    Andrea Bozzolo *


    La riflessione, nata dal Capitolo Generale XXVI e condivisa con altri Salesiani, prende avvio dalla constatazione che su questo tema rischiamo di procedere per slogan (“Evangelizzare educando, educare evangelizzando”…) svuotandoli un po’ alla volta dei contenuti.

    Articoliamo la riflessione in tre passaggi:
    1. Il ripensamento dell’evangelizzazione
    2. Il ripensamento dell’educazione
    3. Per una pedagogia della fede

    1. Il ripensamento dell’evangelizzazione

    Ci chiediamo: questo oratorio, questa scuola evangelizza?
    Rischiamo di avere dei criteri e dei modi di intendere il significato di evangelizzazione così ampi che è difficile rispondere. Questo è anche il problema della Chiesa: si veda il recente Sinodo sulla nuova evangelizzazione.
    Il termine “evangelizzazione” ha tre significati (si trovano anche nei testi ecclesiali):
    1. Portare il Vangelo dove non è ancora arrivato (primo annuncio)
    2. Tutto quello che riguarda la proclamazione del Vangelo (la catechesi, la scuola di religione…)
    3. La missione della Chiesa, compreso il servizio della carità, la liturgia, tutto quello che si fa per testimoniare agli altri il Vangelo.
    A partire da Giovanni Paolo II è entrata la locuzione: “nuova evangelizzazione”. È importante precisarla. Alla base ci sono due grandi acquisizioni.

    La rinnovata percezione del Cristianesimo come evento

    L’idea di NE dipende sul versante pastorale da un grande rinnovamento a livello teologico: la NE è la ricaduta pastorale del cambiamento del modo di pensare la rivelazione e questo cambiamento è uno dei frutti più significativi del Concilio Vaticano II, il frutto più maturo della Dei Verbum.
    La grande novità della riflessione teologica del ‘900, sancita dal Concilio Vaticano II, è pensare la rivelazione non semplicemente come un insieme di verità, un contenuto, un messaggio, le “verità rivelate”, quelle che si identificavano con la “dottrina cristiana”, un’idea nozionistica di rivelazione, per cui trasmettere il Vangelo era trasmettere dei contenuti che bisognava sapere (il catechismo classico era la dottrina cristiana trasmessa ai bambini, ai giovani…).
    E’ chiaro che è importante il contenuto, ma la rivelazione non è semplicemente un contenuto, ma un evento, qualcosa di dinamico, che ha in sé una sua energia, una sua potenza comunicativa, un suo metodo e stile di propagazione. In questo modo siamo tornati sensibili non solo alle cose che dice Gesù, ma anche a come le dice, a come Gesù si rapporta con la gente: l’evento dell’Incarnazione ha un suo stile, ha una sua forma e noi evangelizziamo se abbiamo quella forma, non basta dire determinate cose. Questo ha conseguenze enormi a proposito di evangelizzazione. Se non è solo contenuto, ma anche metodo, devo chiarire il rapporto tra loro. Noi cerchiamo l’ultimo metodo che ci permetterà di comunicare i contenuti, ma l’evento ha una forza tale che “comanda” il come dirlo.
    Pensiamo a San Paolo. Cosa significa per lui evangelizzare? Percepisce che non si può annunciare la Parola della Croce se non vivendola nella sua vita. Capisce che deve lasciarsi catturare da questo evento. Cambia la sua mentalità: la sua fecondità si gioca su ciò che prima considerava inutile.
    Come e dove Dio parla in questo tempo? Come devono essere gli ambienti in cui Dio parla? Perché a Valdocco e a Mornese Dio parlava così tanto?

    Una situazione pastorale inedita: il rischio di un cristianesimo senza Gesù

    L’altro elemento che connota la NE è culturale. In Occidente la Chiesa è di fronte ad una sfida pastorale che trova nella prima volta nella sua storia: proporre il Vangelo non ad una società che non lo conosce, ma ad una cultura, ad un mondo che è innervato dal di dentro dal Cristianesimo (letteratura, musica, arte…), ma la cultura europea ha la forte tentazione di distillare dal Cristianesimo un insieme di contenuti e di valori (giustizia, solidarietà, tolleranza…) sganciandoli dall’evento di Gesù. Il Cristianesimo è svuotato dal di dentro, distillato in un insieme di valori condivisibili, ma distaccato dalla carne di Cristo, dal corpo di Gesù. Lo vediamo nei valori dei nostri giovani: senza appartenenze, senza riti (liturgia) e senza dottrina.
    Questa problematica storicamente c’è sempre stata, ma era una tendenza di minoranza, di élites intellettuali: prendevano alcuni contenuti rifiutando l’incarnazione, la croce… Questa tentazione oggi è il grande fenomeno culturale dell’Occidente: si cerca la pace, la giustizia, l’amore…ma Gesù no; è lo scandalo di accettare che al centro del Cristianesimo non c’è qualcosa che facciamo noi, ma c’è qualcosa che un altro fa per noi ed è insostituibile. I sacramenti ci attestano questo. Perché la Messa è al centro del Cristianesimo? Perché al centro c’è Gesù che si sacrifica per te ed è un corpo.
    Don Bosco e Madre Mazzarello parlano di Cristianesimo come persone da incontrare (“Qui c’è la Madonna!” dice don Bosco).
    Il nostro rischio è una forma di annuncio di stili di vita, di valori a cui si può aderire senza fare esperienza della grazia di un incontro con Gesù che ti ama.
    Il Vangelo non è solo “messaggio” su Gesù o di Gesù, è immensamente di più. Ha al proprio interno le dinamiche della propria comunicazione. Che dinamiche capitano quando Gesù incontra Zaccheo, la Samaritana…? Sono le dinamiche dell’evangelizzazione e l’Evangelizzatore è Lui! Dunque il cristianesimo non è solo un “messaggio” (dottrinale/etico/spirituale...) e l’evangelizzazione non è puramente trovare il modo di trasmettere questo ‘messaggio’ o di diffondere certi ‘contenuti’, creando la spaccatura molto pericolosa tra contenuto e metodo dell’evangelizzazione.
    In questo senso acquista rilievo la nozione teologica di traditio e il senso della testimonianza ecclesiale: l’evento si media nella storia con la stessa ricchezza dell’origine.
    La Chiesa è la tradizione del Vangelo. Non siamo noi che trasmettiamo un contenuto, ma è lo stesso evento a trasmetterlo. L’evento è la grazia del rivelarsi di Dio in mezzo agli uomini, non è sospinto all’indietro dal passare dei secoli.
    Congar, uno dei più grandi teologi del Novecento, usa un’immagine molto bella: il Cristianesimo è la sorgente che continua ad essere sempre presente nello scorrere del fiume. Noi non attingiamo al Cristianesimo delle origini, come ad un evento di serie A che si diluisce con il passare del tempo, per cui per noi sarebbe possibile solo una fede di serie B, per cui si possono vivere solo le conseguenze storiche del Cristianesimo: all’evento Gesù seguirebbe la Chiesa con la rigidità delle sue Istituzioni…non è così! Tutte le incrostazioni sono già nell’evento che se ne fa carico (si pensi a Giuda, agli apostoli che vogliono scappare…), quindi non c’era all’inizio un evento dell’età dell’oro. La traditio ci dice che quello che è capitato a quel tempo si rende accessibile ad ogni tempo e luogo. È capitato così a quel tempo perché si possa ripetere ancora (es. moltiplicazione dei pani a Valdocco).
    È l’evento di Cristo che continua: la Risurrezione dice che quello è il mio oggi. L’Eucaristia (la presenza reale di Cristo) non è l’eccezione miracolosa. Tu puoi essere contemporaneo di Gesù come Pietro, Giovanni…questo è il lieto annuncio! Il suo evento è qui!
    Ci sono dentro e solo stando dentro posso testimoniare ad altri che questa cosa che capita a me è la Grazia offerta ad ogni uomo.
    “L’Eucaristia è la sorgente dell’evangelizzazione” vuol dire questo: il protagonismo di Cristo.
    La fede non è credere che Dio esiste (a questo arriva anche la filosofia). È riconoscere il passaggio del Cristo Risorto nella mia giornata di oggi, il centro è quello che Gesù, qui e oggi, fa per me. E’ Lui che ci scalda il cuore. La nostra giornata è l’evento in cui passa Gesù. Don Bosco e Madre Mazzarello vivevano così.
    Se le cose stanno così, noi non abbiamo bisogno di rendere il Vangelo “umano”. Se il rivelarsi di Dio avviene nella storia, l’evento del Vangelo assume sin dall’inizio l’umano dentro di sé. Dio non si dice soltanto all’uomo. L’uomo non è una casella postale. Se pensi il Cristianesimo come messaggio, la prendi come una mail: prendi o lasci…e quindi lascio per non perdere quello che ho. Dio non si dice solo all’uomo, ma si dice coinvolgendo totalmente l’uomo in questo evento. L’umano non sta davanti a Dio, ma è totalmente assunto nella dinamica eterna. Siamo entrati nella Trinità!
    L’umano è il luogo del dirsi di Dio, ma alla condizione di un preciso cammino richiesto alla libertà. La rivelazione contiene radicalmente in sé l’assunzione dell’antropologico.
    Gaudium et Spes, 22: Gesù non solo rivela chi è Dio all’uomo, ma rivela l’uomo all’uomo. Grazie a Gesù non siamo più strabici: lo sguardo sul divino e sull’umano non possono più essere intesi come divergenti, perché Dio e l’uomo possono essere conosciuti solo insieme. Gesù non viene solo dal cielo, ma dal cielo e dalla terra, è l’erede delle promesse di Abramo, è il pio israelita per eccellenza, viene dallo Spirito Santo e dal grembo di Maria.
    Si deve pensare il Cristianesimo come storia e come evento. Questo ha delle ricadute enormi nel rapporto tra evangelizzazione ed educazione: non si può intendere l’evangelizzazione come “divino” e l’educazione come “umano”.
    Dio si rivela facendo camminare la libertà dell’uomo. O ci sono entrambe o non c’è nessuna delle due (“Maestro, dove abiti? Venite e vedete”. Il cammino dei discepoli è costitutivo del vedere perché è una verità che si vede solo muovendosi). Dio si dice dal di dentro dell’umano (Incarnazione).
    L’evangelizzazione non può dunque essere intesa a partire da un bivio che conduce, secondo le sensibilità, a partire dall’alto o dal basso, dal divino o dall’umano. Si può partire solo da un punto in cui alto e basso sono misteriosamente insieme. Noi non sappiamo nulla di Gesù se non attraverso la sua umanità. Con tutte le ambiguità che ne derivano nella catechesi (kerigmatica versus antropologica), nella pastorale giovanile (dottrina versus animazione), nella liturgia (mistero eterno versus ritualità antropologica) e così via.
    Il rapporto tra educazione e fede, quindi, non può essere inteso come se la fede fosse il traguardo e l’educazione il mezzo per arrivarci, perché tale rappresentazione mantiene vivo l’estrinsecismo fra le due realtà. La fede non si limita a indicare un ideale da raggiungere, ma genera un tessuto di rapporti e una costellazione di pratiche simboliche che sono esattamente quelle di cui l’uomo ha bisogno per trovare se stesso.
    Quando Michele Magone arriva a Valdocco, la fede non è un ideale, un traguardo, ma se la trova davanti come forma di vivere che gli consente di capire cose che altrimenti non avrebbe capito.
    Nel Vangelo le persone più ferite dalla vita sono quelle che accolgono il messaggio di Gesù.
    Il seminatore getta semi con larghezza perché la fede è seme che genera processi. In questo senso la prassi antichissima del battesimo dei bambini in fide ecclesiae suggerisce proprio di pensare la comunità credente come il grembo ottimale entro cui svolgere il processo educativo e non solo come il punto di approdo di un cammino di strutturazione della libertà.
    Dobbiamo, quindi, uscire dall’ambigua oscillazione fra trasmissione della dottrina e animazione dell’esperienza. Don Bosco dà comodità ai sacramenti, all’Eucaristia e alla confessione e poi i ragazzi giocano, studiano… perché quando c’è intensa trasparenza della fede, si risolvono i problemi della coscienza, dell’apprendimento, del gioco, delle relazioni familiari.

    2. Il ripensamento dell’educazione

    Richiamiamo l’evoluzione dell’idea di educazione fino ad arrivare alla crisi attuale.

    Anni ’40: dalla pedagogia umanistica alla pedagogia funzionale.
    Nel 1943 Jacques Maritain pubblicò un celebre saggio sull’educazione contemporanea dal titolo L’educazione al bivio, che ancora oggi suggerisce utili criteri di analisi pedagogica. Con la metafora del bivio Maritain indicava due possibili svolgimenti dell’educazione occidentale:
    - l’educazione intesa in senso umanistico come pedagogia della coscienza dell’uomo integrale, dell’uomo capace di verità, di giustizia
    - l’educazione di carattere più funzionale, più vicina alla socializzazione.
    In questo secondo caso, compito dell’educazione è quindi adattare l’individuo alla vita sociale e produttiva, con il primario scopo di fornirgli le competenze necessarie per rendersi utile e l’avvertenza di procedere nel rispetto dei ritmi e dei tempi evolutivi.
    Nel primo significato è invece necessario oltrepassare il semplice funzionalismo adattivo per considerare l’uomo nella sua integralità in quanto corpo e anima, natura e sovranatura, conoscenza e azione, libertà e grazia. Si tratta, detto in altre parole, di educare innanzi tutto l’uomo.
    Il bivio di Maritain si può descrivere anche in un altro modo. Se lo scopo dell’educazione è funzionalistico il cuore dell’azione educativa è occupato soprattutto dalla dimensione dell’istruzione e dell’addestramento con tutto l’apparato metodologico che queste forme di trasmissione delle conoscenze comportano. Il problema del metodo assorbe perciò tutta la scena, con l’ossessività delle procedure e con l’illusione sempre vana di trovare il metodo perfetto e infallibile. Insomma le tecnologie dell’istruzione finiscono per porsi quasi come una nuova ontologia orientata in senso tecno-efficientistico. Se invece lo scopo dell’educazione è umanistico e umanizzante e cioè volto prima di tutto a far scoprire il senso di sé come persona, l’azione educativa si svolge lungo altre vie che, per dirla con Romano Guardini, puntano soprattutto all’incontro tra persone e all’apertura a ciò che non è ancora, ma può essere.

    Anni ’70: crisi dell’autorità e della tradizione e trasferimento dell’orizzonte educativo nel codice materno della cura.
    Una volta i bambini venivano educati imparando a ubbidire agli adulti. Vi era sotto l’idea che gli adulti avessero qualcosa che i bambini non hanno: un’esperienza della vita che nella sua oggettività richiede di essere assunta e che deve essere tramandata con autorevolezza, da parte di chi faticosamente ha appreso l’arte della libertà. L’illuminismo voleva rendere gli uomini “adulti”.
    Il crollo delle ideologie e il sospetto sistematico nei confronti del soggetto (che pensa di essere libero, in realtà è mosso dal suo inconscio e da mille condizionamenti) hanno gradualmente cambiato l’idea di libertà, sempre più associata alla figura della spontaneità. All’ideale educativo di un dover essere dell’uomo adulto si sostituisce gradualmente l’ideale del poter essere sempre nuovo dell’adolescente. Semplificando si potrebbe dire: mentre prima gli adolescenti volevano diventare adulti, ora gli adulti vorrebbero poter restare adolescenti (cfr. fenomeni della moda e del linguaggio).
    Questo spostamento si accompagna alla crisi dell’educazione come esercizio di un’autorevolezza dell’educatore. Basta pensare alla crisi dell’obbedienza come fattore educativo. È sostanzialmente la crisi del codice paterno, che simbolizza la legge, la tradizione, l’autorità, a favore del codice materno,ch e simbolizza l’accoglienza, la cura protettiva, la corrispondenza sentimentale. L’educazione è una sorta di maternage prolungato. Però questo sbilanciamento finisce per proiettare anche sulla dimensione sentimentale l’ombra di notevoli ambiguità, che derivano dalla spaccatura tra ragione e affetti, intenzioni e comportamenti, sentire e volere (cfr. la figura della “famiglia affettiva” descritta da Talcott Parsons: l’intesa di fondo è quella emotiva). Importante diventa dialogare, sentirsi bene insieme, incontrare un clima accogliente. Senza un riferimento comune ad una verità che tutti ci trascende, però, l’intesa rischia facilmente di essere il frutto di ricatto affettivo o di compromessi sui valori o di contrattazione relazionale. Di fatto solo apparentemente un’educazione intesa come maternage prolungato porta frutti di libertà…siamo appunto in piena emergenza educativa.

    E’ avvenuto, quindi un grande cambiamento. La pedagogia classica è sempre stata un capitolo dell’etica: dalla definizione di cos’è la vita buona derivava l’orientamento su come si deve educare. Il crollo delle ideologie ha messo in crisi questa forma propositiva, deontologica dell’educare, pertanto proporre un ideale di vita buona è diventato un problema.
    Si è passati, quindi, dalla pedagogia (legata all’etica) alle scienze dell’educazione. La scienza di per sé non dice un “dover essere”, ma descrive, analizza (si è sviluppata l’idea dell’esperto). Poi è avvenuto il passaggio dalle scienze dell’educazione alle scienze della formazione, quindi dall’educazione (come esercizio di autorevolezza morale) alla formazione (intesa nella letteratura accademica con valore decostruttivo nei confronti dell’idea di educazione), praticata sempre più come training abilitante.

    Anni ‘90: crisi postmoderna della stessa idea di verità (nichilismo e relativismo) e tecnocrazia narcisistica degli affetti come oggetto di consumo.
    Il nichilismo, per il quale non esiste alcuna verità, il relativismo, per il quale i valori sono solo preferenze soggettive, e il naturalismo, che nega la spiritualità dell’uomo e ne fa un semplice “animale ingegnoso”, azzerano la possibilità di trasmettere in maniera significativa e di ritenere semplicemente valido il patrimonio familiare, i valori culturali, le ricchezze della propria civiltà.
    Questo genera molteplicità di esperienze, di appartenenze che si affiancano l’una all’altra, senza sintesi e senza profondità.
    La forma più recente e la strategia più perversa del nichilismo contemporaneo è quella che trae vantaggio dalla trasformazione degli affetti in oggetti di consumo. Oggi il mercato vive (e muore) di un narcisismo dell’autorealizzazione: “Prenditi cura di te”, “perché tu vali”. Esso nobilita le spinte più grossolane del desiderio di apparire, emergere, avere più degli altri come una forma elevata di cura della propria soggettività, che naturalmente richiede l’acquisto dell’ultimo prodotto della tecnologia o dell’estetica. Con una ricaduta in termini di frustrazione dell’identità e di disagio sociale che è sotto gli occhi di tutti. La battaglia dell’educazione oggi si gioca su questo campo, perché i bambini introiettano fin dall’infanzia questo modello antropologico a cui normalmente la famiglia non riesce a resistere. Da qui la necessità di superare l’antropologia moderna del soggetto autonomo come quella postmoderna dell’adolescente di riscoprire un’antropologia filiale: l’uomo esiste strutturalmente come “figlio”. E’ la parola che ricorre di più nella Bibbia; Dio stesso è entrato nella storia in forma filiale. Cosa significa pensare all’uomo come figlio? Si pensi alle conseguenze sulla visione della libertà.

    3. Per una pedagogia della fede

    È su questo sfondo che il ritorno a don Bosco, la riscoperta della sua visione e della sua pratica dell’educazione, acquista tutto il suo risalto. Mi pare che il rilancio del sistema preventivo richieda oggi essenzialmente l’impegno su due fronti: dobbiamo anzitutto rinnovare una sintonia interiore di ispirazione, che ci conduca ad immedesimarci con le convinzioni e le scelte pedagogico-spirituali di don Bosco, e in secondo luogo trascrivere tale ispirazione in una vera e propria visione culturale della realtà, che sia capace di dare risposta alle sfide contemporanee.
    Insomma ci serve un’energia spirituale che diviene cultura, cioè visione dell’uomo e della vita e trasformazione della realtà.

    L’orizzonte della santità giovanile come pienezza di vita e di gioia

    Don Bosco concepisce l’educazione nell’orizzonte di quella pienezza di vita e di gioia che si fonda nella fede in Gesù. Egli educa perché ha una speranza meravigliosa da condividere.
    L’educazione è per lui “energia contenta” che si propaga. L’autentica letizia cristiana, quella interiore che viene da un cuore pacificato, che ha scoperto di essere infinitamente amato, è il clima e il segreto della sua azione.
    Questa visione positiva di don Bosco è stata rilanciata da Giovanni Paolo II quando ha affermato: «è ora di riproporre a tutti con convinzione questa “misura alta” della vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale e delle famiglie cristiane deve portare in questa direzione», e da Benedetto XVI quando, nella Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione del 21 gennaio 2008, ha presentato la speranza come anima profonda dell’educazione.

    “Io sono la stoffa”: Una pedagogia dell’anima

    - Don Bosco ha indubbiamente una visione umanistica dell’educazione, che guarda al ragazzo nella sua completezza e soprattutto nel luogo ultimo del suo mistero, che la tradizione cristiana condensa intorno al termine “anima”. Una parola che in anni passati era forse diventata così consumata e sovraccarica di risonanze devozionali da aver bisogno di un tempo di decantazione.
    Oggi però abbiamo urgenza di riscoprire ciò che ci indica: il luogo ultimo della nostra identità, che non si riduce alla somma dei nostri tratti psichici. Noi siamo realmente un mistero a noi stessi, il nostro cuore è un labirinto in cui facilmente ci perdiamo. L’unico che può condurci a scoprire realmente chi siamo, svelandoci il logos da cui siamo abitati, è il Figlio di Dio, Colui che facendosi uomo svela il mistero dell’uomo all’uomo (GS 22).
    Per don Bosco è chiarissimo che l’educazione ha originariamente un’ispirazione religiosa. È semplicemente impossibile educare lasciando tra parentesi le domande decisive della vita, ed è profondamente ingiusto nei confronti dei ragazzi lasciare ai margini ciò che per la loro vita è decisivo. Se guardiamo a don Bosco, se leggiamo i suoi testi sul sistema preventivo, se ripercorriamo le sue scelte pastorali non possiamo fare a meno di constatare che per lui l’esperienza religiosa, et quidem sacramentale è proprio fondamento, colonna, sostegno, base.
    Le sue frasi sono troppo celebri per doverle minuziosamente richiamare. Basti ciò che afferma nella vita del Besucco: “Dicasi pure quanto si vuole intorno ai vari sistemi di educazione, ma io non trovo alcuna base sicura, se non nella frequenza della confessione e comunione; e credo di non dir troppo asserendo che omessi questi due elementi la moralità resta bandita”.

    - La centralità della dimensione religiosa, d’altra parte, non significa che l’educazione si riduce a pratiche di preghiera; significa invece che solo nell’orizzonte della familiarità con Dio si capisce quello che avviene anche in classe e in cortile. Perché colui che gioca, studia ecc. è sempre una persona che nell’intimo del suo cuore è a contatto con il Mistero che rende ragione di tutto. Un Mistero nella cui luce è bello abitare, sotto il cui sguardo è bello vivere. Propriamente “vivere” è stare sotto il suo sguardo: non è un optional ma è ciò che i discepoli di Gesù chiamano “vita”.
    - La centratura spirituale, inoltre, non significa affatto dare alla pedagogia un’impostazione élitaria. È vero anzi il contrario: solo la forza della grazia riesce a guarire i cuori più feriti. La verità ha infatti una propria luce, a cui nessuna coscienza è fino in fondo totalmente insensibile.
    In tantissimi casi don Bosco ha incontrato ragazzi che, a differenza di Domenico Savio, portavano nel cuore ferite affettive profonde, erano segnati da povertà di mezzi materiali, di istruzione, di aiuto. Ma anche in questi casi, il suo sguardo educativo è rimasto lo stesso. Il punto su cui far leva nell’educazione è quello in cui la grazia divina trova risonanza nell’intimo della coscienza, mostrandosi più forte del male che l’avvilisce: «In ogni giovane anche il più disgraziato avvi un punto accessibile al bene e dovere primo dell’educatore è di cercare questo punto, questa corda sensibile del cuore e di trarne profitto». Quando nel 1855, dopo la famosa passeggiata con i ragazzi del carcere della Generala, il Ministro Rattazzi interrogò don Bosco, chiedendogli come mai lo Stato non riuscisse ad avere sui giovani un’influenza pari alla sua, egli rispose: «Eccellenza, la forza che noi abbiamo è una forza morale; a differenza dello Stato, il quale non sa che comandare e punire, noi parliamo principalmente al cuore della gioventù, e la nostra parola è la parola di Dio».
    La Vita di Michele Magone, che don Bosco scrive, in fondo non è altro che la documentazione di tutto questo.
    - Lo snodo tra evangelizzazione e educazione è la questione della coscienza. Don Bosco elabora una proposta e un linguaggio che intercetta l’immaginario di ragazzi dell’Ottocento, offrendo loro le risorse del cristianesimo come chiave di accesso al discernimento di ciò che avviene nel loro cuore. Se leggiamo in questa prospettiva i sogni che egli racconta, vi vediamo rappresentato in forme simboliche il vissuto del cuore umano. Ripristinare la centralità della coscienza nei nostri cammini pedagogici significa affrontare le questioni essenziali dell’essere cristiani nel nostro tempo, che non possono in alcun modo essere scavalcati se non pagando il prezzo di una proposta generica e spiritualistica. Si tratta, dunque, di riguadagnare una profonda capacità di lettura dell’esperienza morale dell’uomo e di restituire ai giovani un linguaggio che consenta loro di intendere la voce della coscienza e interpretarne i vissuti.
    La lingua che i nostri giovani imparano oggi dai mass-media è infatti una lingua che parla di tutto, tranne che del “cuore”, inteso in senso biblico, ossia del mistero profondo dell’uomo. Non ne parla, perché non ne sa e non ne vuole parlare. La cultura tecnocratica ha infatti rinunciato all’idea che del cuore umano esista un logos comune. Essa ha assunto e continuamente convalida la strategia di una spaccatura tra sentimenti e ragioni, tra affetti e pensieri, tra desiderio e conoscenza. Troviamo così tutti i giorni di fronte a noi lo scenario di una società postmoderna che per un verso spettacolarizza l’eros, sottraendolo ad ogni forma di pudore ossia a ogni legame con la coscienza, e per l’altro ne affida l’interpretazione all’insindacabile giudizio di ciascuno, ossia alla sua coscienza intesa come arbitrio. Spettacolarizzazione del dato e privatizzazione del senso: i reality televisivi ne sono in larga misura l’emblema.

    “Lei ne sia il sarto”: l’educazione come testimonianza e paternità

    - Tutto ciò è possibile solo se l’educatore è realmente un testimone. Ciò significa che per educare non basta essere dei professionisti, ma bisogna essere abitati, almeno un po’, da quella gioiosa energia di bene che consente realmente di raggiunge il cuore.
    - In questo senso, don Bosco sogna l’educatore come uno che è realmente consacrato al bene dei ragazzi, che vuole donare loro davvero qualcosa di sé, che spende per il loro bene la propria vita. Non basta che i giovani siano amati, devono conoscere di essere amati. E ciò è frutto di una carità che si spende, che non misura ciò che dona, che trova il tempo per la condivisione. Questo richiede la vittoria sulle tentazioni del protagonismo, dell’invidia, del permissivismo, dei sentimentalismi e delle preferenze… Educare in questo modo è realmente un cammino di spiritualità.
    - Parlare di testimonianza, però, è anche riconoscere fin dall’inizio la nostra fragilità. Noi non siamo il Maestro da seguire, ma solo i suoi testimoni. Un testimone non rimanda a se stesso, rimanda a qualcosa più grande di lui, che non sempre sa onorare pienamente, ma che cerca di annunciare e indicare con tutte le sue forze.
    - A questo orizzonte va ricondotta anche l’idea di don Bosco che nell’educazione bisogna evitare la costrizione e l’imposizione. Il suo orizzonte non è il permissivismo o lo spontaneismo postmoderno, bensì la visione cristiana. Don Bosco è convinto che o si esercita questa forza originaria del bene e della verità che raggiunge in modo mite e convincente il cuore del ragazzo e lo persuade, lo libera, lo trasforma in modo autentico (la luce del Logos, direbbe Benedetto XVI) o si è costretti a usare una forza che in qualche modo fa violenza. Solo la verità non è violenta, perché corrisponde all’intima struttura del cuore.

    “Un abito per il Signore”: il decentramento da sé del ragazzo e dell’educatore

    - L’energia della crescita è la scoperta della dedizione: per che cosa vale la pena di spendersi.
    Questa è una lezione molto importante per reagire alla spinta narcistitica dei modelli massmediatici imperanti. Crescere non è guardarsi continuamente allo specchio, per vedere se si è meglio di ieri. Non è neppure stare a sentire continuamente l’effetto che fanno certe esperienze, per vedere quale “mi fa sentire meglio”… Crescere è uscire da sé, un cammino che ha la forma di una vera e propria Pasqua. La Vita di Domenico Savio è una descrizione mirabile di questo processo. Domenico non deve diventare santo ripiegandosi su di sé, ma imparando a consegnarsi, a preoccuparsi di chi fa più fatica, a vincere certe ripugnanze che sente dentro di sé e a temperare certi slanci che gli verrebbero spontanei. Ciò lo educa ad avere simpatia verso il mondo, concretezza nel dovere, intraprendenza in mezzo ai compagni e a vivere tutto questo nella luce di Dio e di Maria Ss.ma.

    - Il riferimento di Don Bosco e Domenico al Signore costituisce l’orizzonte esplicito in cui la loro relazione prende corpo. Fin da principio, dunque, la fiducia che s’istituisce tra i due non è solo una simpatia reciproca o un’intesa spontanea, ma contiene un riferimento, preciso e voluto, ad una presenza terza che li eccede e a cui tutto deve essere orientato e finalizzato. Collocato nel cono di luce che da quella presenza deriva, il rapporto può così configurarsi con un’audacia che, al di fuori di quel contesto, non potrebbe che essere eccepibile. «Io sono la stoffa, ella ne sia il sarto», infatti, sono parole che eccedono di molto ciò che normalmente si intende posto in gioco nel legame educativo, e suonano assai più come una vera e propria dichiarazione di discepolato.
    L’affidamento che esse suppongono, infatti, è assai più vicino ai contorni di alto profilo della fede religiosa, che non a quelli oggettivamente più parziali di un comune credito formativo. Si tratta di una deviazione non pertinente? O forse, al contrario, ogni relazione, per essere autenticamente educativa, ossia per porsi come mediazione reale per il compimento di una libertà, deve appellarsi ad una verità che trascende i soggetti in gioco e che l’educazione, nelle molteplici modalità in cui si attua, intende esattamente testimoniare? Sottratta all’orizzonte delle domande ultime circa il senso della vita e al profilo sapienziale che conferisce all’adulto la responsabilità morale di essere un autentico maestro di vita, l’educazione obbedisce ancora, se non alle intenzioni di Dio, almeno a ciò che della libertà si può già osservare, anche ad occhio nudo, in ogni figlio di uomo?

    - L’alleanza educativa, nell’ottica della grazia, trova la sua verità ed efficacia perché contiene per entrambi, l’adulto e il ragazzo, un riferimento, preciso e voluto, ad una presenza terza che li eccede e a cui tutto deve essere orientato e finalizzato. Ciò consente all’educatore di essere propositivo e paterno, senza presumere di sé, e al ragazzo di percorrere un cammino di decentramento da se stesso che in nessun modo potrebbe compiere da solo, senza cadere in forme distorte di dipendenza, anzi imparando ad assumere la propria responsabilità, cioè imparando a rispondere di sé. Ogni relazione per essere autenticamente educativa, ossia per porsi come mediazione reale per il compimento di una libertà, deve appellarsi ad una verità che trascende i soggetti in gioco, di cui l’educatore è chiamato in modo speciale ad essere testimone, onorandola con la propria vita.

    In conclusione

    - In conclusione, nella logica del Sistema Preventivo la spiritualità non è un incremento di devozione che si pone a sostegno di una tecnica formativa neutra, ma è il motore profondo che regola e consente quell’accadimento misterioso e felice che è la relazione educativa riuscita. La risposta alle sfide poste dalle domande che emergono dalla vita dei ragazzi e dei giovani va cercata nella stessa direzione in cui si cercano le risposte per la propria vita. La qualità di queste ultime è la risorsa determinante per le prime. E nessun puntiglioso dettaglio metodologico né alcuna strategia tecnica le può sostituire.
    - Se è vero che oggi le forme prevalenti della lingua corrente rimuovono sistematicamente la questione della coscienza e che sotto il profilo culturale «la globalizzazione è l’allucinata collocazione dell’uomo in un sistema unico di comunicazione che prende in carico la vita come mero problema della sopravvivenza», l’esigenza di restituire ai ragazzi un linguaggio sapienziale che ridoni voce alla qualità etica e spirituale dei loro vissuti è un’urgenza tra le più rilevanti. Lo scarto che sussiste tra il linguaggio di tanto cristianesimo convenzionale e le forme della comunicazione giovanile richiede senza dubbio uno scavo di prima mano nelle forme originarie in cui l’umano si attesta e si comunica. E una lettura teologicamente istruita delle fonti carismatiche della pedagogia cristiana non può che rappresentare un prezioso contributo all’ardua impresa.

    Tutto questo richiede un modello pastorale:
    - centrato sulla testimonianza della comunità e non sulla programmazione di attività capace di evitare le tentazioni opposte e diffuse di un puro annuncio kerigmatico dall’alto (illusione di scavalcare la mediazione culturale) o di una pura pedagogia della domanda religiosa dal basso (rischia semplicemente di adattare il Vangelo alla sensibilità dell’epoca)
    - in linea con la sintesi originale e carismatica del nostro Fondatore.

    * Don Andrea Bozzolo
    Salesiano, Preside della Facoltà di Teologia dell’UPS, sezione Torino Crocetta.
    Torino, 22 novembre 2012


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