Ottavio Losana
(NPG 1997-09-20)
L’educazione non si realizza a parole, o meglio la parola non è l’unico e nemmeno il più importante strumento che l’educatore ha a disposizione per svolgere il suo compito.
L’educazione si realizza attraverso un complesso, scambievole rapporto interpersonale fra educatore ed educando, tale da permettere un continuo adeguamento della risposta del primo alle esigenze del secondo e quindi fatto non solo di parole ma di esperienze, di emozioni, di sentimenti e di testimonianze. Ciò è tanto più vero nel campo dell’educazione sessuale in cui, trattandosi di una dimensione profonda che coinvolge e condiziona tutte le relazioni affettive della persona, il rapporto educativo non potrà mai essere neutro e freddo ma sempre emozionato ed emozionante. Chi sono gli adulti che svolgono la funzione promozionale di testimoni e di modelli nella crescita affettiva e sessuale dei ragazzi?
Quale il loro ruolo?
I genitori e l’identificazione primaria
La famiglia è il luogo primario dell’educazione e nessun iter educativo può prescindere dal ruolo fondamentale giocato dai genitori, specie nei primi anni di vita.
Il piccolo bambino neonato risulta totalmente inerme in un mondo a lui ostile; come del latte per crescere ha bisogno di una sufficiente quantità di affetto che permetta di mediare tutti i rapporti con l’ambiente, altrimenti non sostenibili.
Ancor prima di riconoscersi come un «Io» il bambino fa l’esperienza del «Tu», cioè dell’altro da sé; la figura costantemente e affettuosamente disponibile a soddisfare i bisogni primari del piccolo e a mediarne le relazioni ambientali è la madre o comunque la persona che gioca appunto il «ruolo materno».
Il rapporto affettivo madre-figlio viene ad essere in qualche modo disturbato, ma sarebbe meglio dire arricchito, dalla presenza del padre, l’altra figura parentale che, in modo più saltuario ma non meno affettuoso della madre, testimonia che la mamma non è tutto il mondo.
Il padre, o chi comunque gioca il «ruolo paterno», è colui che spalanca le finestre sul mondo e fa sì che il rapporto madre-figlio non diventi una simbiosi limitante ma rappresenti invece lo strumento della relazione con il mondo e della sua conoscenza.
Il gioco affettivo del nucleo familiare fondamentale è il meccanismo attraverso cui si realizza l’identificazione primaria, cioè l’autocoscienza di sé come persona ed anche come persona sessuata.
È un’acquisizione straordinariamente precoce: avviene in quel misterioso periodo della vita che va da 0 a 3 anni, un periodo di cui nessuno serba un ricordo cronologico coerente ma durante il quale si struttura la parte profonda e misteriosa della psiche, quella che la psicanalisi definisce «inconscio» o «subcosciente».
Nel mistero dell’inconscio si radica la coscienza dell’io, come persona sessuata e questo processo è il frutto del buon funzionamento del nucleo familiare. Se la famiglia non c’è, o è sfasciata o comunque non funziona, si può parlare di un bambino «deprivato», un bambino a cui viene negato un diritto fondamentale, una persona che potrà risentire forse anche per tutta la vita delle carenze affettive patite nella prima infanzia.
I genitori sono quindi i primi e forse principali testimoni della formazione della persona: nella prima infanzia sono soli e insostituibili; la società non è riuscita ad inventare nessuna struttura che possa vicariare la funzione fondamentale della famiglia. Poi i genitori rappresentano sempre il riferimento educativo primario, ma sono sempre meno soli ed anzi devono essere affiancati da testimonianze extrafamiliari.
Lo strumento con cui i genitori realizzano il loro compito è semplicemente l’amore: la testimonianza parentale è tanto più valida quanto più è alta la loro capacità di donazione reciproca e di donazione di entrambi verso il figlio.
I modelli comportamentali e l’imitazione nell’infanzia
Se l’identificazione nella prima infanzia si è realizzata in modo corretto, i bambini dimostrano, nella seconda infanzia, di avere ben chiara l’idea della differenziazione di genere.
Sanno che esistono i maschi e le femmine, i giochi da maschi e quelli da femmine, noi e voi.
Il loro atteggiamento di differenziazione è però sostanzialmente imitativo: essi copiano gli atteggiamenti che vengono loro presentati dagli adulti, giocano a fare i grandi, imitano come scimmiette curiose i modelli comportamentali della società.
Hanno un’ampia gamma di modelli di riferimento offerta soprattutto dai mezzi di comunicazione di massa: i bambini nell’età della scuola elementare guardano abitualmente la televisione ed imparano rapidamente ad usare il telecomando.
Quindi non vedono solo la tv dei bambini ma, ad ogni ora del giorno, hanno a disposizione i più svariati modelli comportamentali a riguardo di ogni tipo di relazione interpersonale compresa quella sessuale.
Stimolare l’imitazione dei bambni verso comportamenti prepotenti, spregiudicati e violenti costituisce un fatto gravissimo dal punto di vista educativo, stigmatizzato da sempre (la pedagogia classica recitava «maxima debetur puero reverentia») e specificatamente condannato nel Vangelo che bolla lo «scandalo» verso i bambini come una colpa imperdonabile.
Oggi il rispetto verso il bambino è predicato a parole ma risulta molto trascurato a livello di linguaggio e di immagini liberamente offerte alla sua attenzione.
A tutti gli operatori di comunicazione e di pubblicità si deve richiedere un serio esame di coscienza e un rapido passo indietro.
Ma i modelli che più incidono sull’imitazione dei bambini sono quelli che provengono dagli ambienti a cui il bambino stesso si sente legato affettivamente. Il riferimento affettivo primario di questa età rimane la famiglia: mamma e papà costituiscono l’obiettivo dell’affetto del bambino anche quando si dimostra capriccioso o insofferente. La casa, con le sue regole e le sue abitudini, rappresenta il luogo della sicurezza e della protezione dalle paure esterne.
Pertanto i modelli comportamentali familiari risultano i più incisivi e i genitori rimangono i principali testimoni per il riferimento imitativo dei figli, anche se non sono più soli. Il ruolo di modello può essere giocato verso i bambini da figure reali (la maestra, la catechista) ed anche da figure più o meno mitizzate (il cantante, l’attrice, il campione sportivo) che di volta in volta colpiscono la fantasia del bambino e ne provocano una reazione emotiva.
I miti e le fantasie dell’adolescenza: l’adulto accettato
L’assunzione di modelli extrafamiliari diventa una caratteristica peculiare dell’età puberale ed adolescenziale.
In questa fase della vita, fondamentale per la costruzione della persona, si manifesta una certa drammatizzazione dei rapporti interfamiliari. Il legame di dipendenza dai genitori deve progressivamente sciogliersi attraverso una sempre più precisa presa di coscienza dei ragazzi delle loro capacità di giudizio e di iniziativa.
Gli adolescenti tendono a costruirsi un mondo a loro misura: forse fantastico, irreale, impossibile, ma con una precisa caratteristica: che in esso gli adulti non hanno il passaporto, non hanno diritto di cittadinanza.
La contrapposizione del mondo adolescenziale con il mondo adulto è il sintomo della ricerca di spazi di autonomia, spazi in cui mettersi alla prova per constatare se si è diventati «grandi».
Non è facile per gli adolescenti trovare queste occasioni di esperienze autonome.
A casa i genitori considerano il figlio il loro «bambino» di sempre, mentre sta diventando qualcosa di molto diverso. A scuola, dove i ragazzini passano buona parte del loro tempo, a parte alcune lodevoli eccezioni, è difficile trovare spazi di creatività e di autonomia.
Sorge allora il rischio che gli adolescenti vadano a cercarsi i loro spazi in modo autonomo e clandestino: la banda della panchina, poi della sala-giochi, del bar, della discoteca, con il pericolo di apprendistato di atteggiamenti negativi o addirittura deliquenziali.
Spesso può subentrare la delusione per la propria inesperienza, e in qualche momento addirittura la disperazione. I genitori si trovano in buona misura spiazzati e devono rendersi conto che non possono rispondere in proprio a tutte le esigenze educative del figlio adolescente: per crescere i figli devono fare qualche esperienza senza i genitori, o forse contro i genitori.
Ai genitori pertanto non si può chiedere altro se non di continuare a testimoniare il loro affetto verso i figli (la dipendenza deve essere superata, ma l’affetto deve restare fuori di discussione) e di dimostrarsi disponibili al dialogo, anche se questo può risultare difficoltoso.
Il confronto con figure «extrafamiliari»
La maturazione sessuale che caratterizza l’adolescenza impone il confronto con testimonianze adulte extrafamiliari.
Nella fase puberale i riferimenti adulti continuano ad essere rappresentati per lo più dagli stereotipi che caratterizzano la moda del momento.
I ragazzini e le ragazzine, poco più che bambini, si rapportano malvolentieri con adulti reali e preferiscono misurarsi con la fantasia con i loro «miti». È l’età delle fantasie erotiche, condite di insicurezze e di paure.
È l’età del pudore, quel certo riserbo, quella specie di vergogna di sé che fa sì che si preferisce fare il bagno da soli e non farsi più insaponare dalla mamma. Bisogna fare i conti con un’immagine corporea che si sta rapidamente trasformando: bisogna ri-identificarsi in una situazione in cui le misure, le abitudini e i riferimenti dell’infanzia non funzionano più.
Questa fase, definita «autoerotica», rappresenta un momento sostanzialmente introspettivo in cui la relazione con gli altri e in particolare con gli adulti può risultare particolarmente difficile.
Nell’età immediatamente successiva, quella della prima adolescenza, la curiosità e la tensione affettiva si sposta verso i coetanei del proprio sesso: è un momento di confronto e di rassicurazione, di rafforzamento dell’identità di genere nella verifica fra i simili.
È l’età degli amici, la banda di ragazzini caratterizzata da alcuni riti di iniziazione e da un certo codice d’onore, o, per le ragazze, l’amica a cui si riesce a fare le confidenze, inconfessabili con gli adulti.
A questa fase, definita «omoerotica», segue, nella seconda adolescenza, il momento dell’attrazione e del confronto con i coetanei dell’altro sesso: è il momento del gruppo misto, che diventa il luogo di apprendistato delle prime esperienze affettive di coppia che nel gruppo, appunto, risultano più facilmente gestibili che non nel momento sempre un po’ imbarazzante del faccia a faccia.
Questa fase viene definita «eteroerotica» e conclude l’evoluzione dell’affettività adolescenziale. L’esperienza del gruppo, prima con momenti monosessuati e poi in ambiente misto, appare fondamentale per lo sviluppo affettivo e sessuale dell’adolescente e nell’ambito di questa esperienza la presenza dell’adulto appare decisiva.
La presenza dell’adulto
Se il gruppo deve rappresentare il luogo dell’autonomia, non può essere organizzato e nemmeno controllato dai genitori, ma rischia di perdere la sua efficacia educativa se è completamente autogestito dai ragazzi.
Infatti in ogni aggregazione sociale emergono i leaders naturali che definiscono e garantiscono alcune regole per permettere la convivenza; in alcuni gruppi spontanei la legge è quella del più forte, basata sulla prepotenza o addirittura sulla violenza. La presenza di un adulto animatore è molto importante per assicurare la valenza educativa del gruppo.
Dovrà però essere un adulto accettato dai ragazzi, non imposto come controllore da una gerarchia esterna.
Dovrà riuscire ad entrare nel mondo degli adolescenti, adottandone il linguaggio, le abitudini, anche il gusto del rischio e la voglia di mettersi nei guai, salvo poi a saperne cavare fuori tutti quanti in forza della migliore esperienza e capacità di giudizio.
Dovrà soprattutto cogliere le occasioni di verifica, perché da ogni esperienza, anche da quelle negative, si possano trarre indicazioni utili per il futuro e quindi, poco per volta, si possa costruire un progetto di crescita per il gruppo e per ogni singolo componente.
Un ruolo di questo genere può essere giocato da un insegnante particolarmente attento e disponibile, dal giovane viceparroco fra i ragazzi dell’oratorio, dall’allenatore della squadra sportiva, purché non accecato dall’agonismo, dall’animatore del gruppo parrocchiale, da qualsiasi adulto disposto a mettersi al servizio dei ragazzi con un cuore pulito e una mente fantasiosa.
L’adolescenza infatti non è solo l’età difficile della crescita, ma è anche l’età meravigliosa dei sogni.
È il periodo della vita in cui i giochi non sono ancora fatti, in cui tutte le porte sono ancora aperte, in cui la fantasia più folle, chissà, potrebbe anche verificarsi.
L’adulto che voglia dare una testimonianza accettabile deve rimanere un pochino adolescente, deve coltivare nel profondo del suo cuore un granello di splendida follia che assicuri che i suoi sogni non moriranno mai.