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    Per uno sport educativo /4

    Claudio Belfiore [1]

    (NPG 2011-04-69)


    Scrivere di sport educativo corre sovente il rischio di cadere nello scontato. Tale espressione evoca immediatamente i valori che il senso comune generalmente riconosce e che proprio per questo tutti possono indicare: funzione ludica e culturale, sanitaria, psico-pedagogica, etico-spirituale, sociale e relazionale... C’è altro da dire?
    E tuttavia forse c’è bisogno di uno sguardo diverso, dove lo sport è visto non in sé (e nei suoi «valori») bensì attraverso il vero soggetto, che è sempre la persona che lo pratica (o che lo osserva).
    Forse lo sguardo risulta più chiaro se introduciamo la distinzione tra «funzione educativa» dello sport e «sport educativo»: la prima analizza gli «effetti», la seconda evoca uno sguardo che (si) autocomprende.
    Ciò implica innanzi tutto una visione, un orizzonte globale. Tale visione non solo raccoglie tutte le funzioni di cui sopra, ma le armonizza, offre loro un fondamento e le orienta al bene inviolabile che è ogni atleta, persona da considerare sempre «come un fine e mai come un mezzo» (Immanuel Kant). Tutte insieme e le singole funzioni dello sport, per quanto già valori in se stessi, hanno nel bene della persona la loro ragion d’essere e ad esso sono orientate.
    Appare evidente che tale principio è decisamente disatteso laddove in modo più o meno manifesto si palesano situazioni di sfruttamento, a volte con la scusa di promuovere il talento delle persone e di pensare al loro bene. Allo stesso modo si avverte una sua inadeguata realizzazione nelle situazioni in cui si esalta il particolare (lo sport, lo studio, il lavoro…) a dispetto del totale. L’edu­cazione tende alla totalità della persona, dice cura «dell’intera vita dell’uomo»,[2] anche se spesso parte da un interesse o da un’esigenza specifica. Sport educativo rimanda a questa esigenza di completezza, di visione globale e finalizzata alla «cura del bene delle persone, nella prospettiva di un umanesimo integrale e trascendente».[3] E qui è d’obbligo considerare il conflittuale rapporto esistente tra l’intenzionalità educativa e gli influssi dell’attuale cultura sportiva: quale spazio per lo sport educativo?
    Il sociologo canadese McLuhan scrisse: «Vedete come gioca una generazione oggi e forse vi troverete il codice della sua cultura».[4] Lo si potrebbe tradurre così, parafrasando un noto detto popolare: «Dimmi come giochi e ti dirò chi sei». Cosa sta avvenendo nel mondo dello sport, in quello professionistico, ma in modo dilagante anche in quello dilettantistico? Aggressività e violenza, inganno, doping e sfruttamento sono tra le situazioni più eclatanti e preoccupanti rilevabili in ambito sportivo. Pietro Trabucchi, psicologo delle squadre nazionali di Triathlon, commenta in questo modo: «Dietro le «perversioni» dello sport amatoriale ci sono caratteristiche (o perversioni) comuni alla nostra società: l’abitudine a ricorrere a farmaci per «curare» normali stati dell’umore o del corpo; la correlata filosofia della ricerca della soluzione immediata a qualsiasi bisogno o disagio (instant satisfaction); la totale sostituzione della fatica con la tecnologia, la scarsa accettazione del proprio corpo, l’ossessione di invecchiare, l’utilizzo narcisistico dei figli… Il microcosmo dello sport, lungi dall’essere un’isola felice, ci restituisce un’immagine fedele del resto della vita».[5]
    Se lo sport è immagine della società, cioè ci offre la visione di uomo e di donna di un popolo e ci svela i suoi codici culturali, allora comprendiamo che esso va interpretato più come l’indicatore dello stato di salute del corpo sociale, che non come malattia in se stessa: come la febbre, esso è una spia d’allarme che segnala la gravità della situazione. Tutt’altro che neutrale e sganciato dai riferimenti etici, lo sport spesso non solo ci rivela chi siamo e come ci relazioniamo con il mondo, con gli altri e con Dio, ma con sempre più pervasività plasma e orienta il nostro modo di essere, di vedere e di agire: esprime una cultura, ma anche la promuove e la forgia.

    L’altro sguardo

    Di fronte a tale contesto il ricorso a norme repressive e il moltiplicarsi dei controlli (il daspo [6] e la tessera del tifoso, i controlli antidoping e le squalifiche sportive) sortiscono l’effetto che hanno alcune medicine, e non sempre con successo: limitare i danni e dare un temporaneo sollievo. Senza contare che ogni medicina ha degli effetti collaterali, a volte non indifferenti. Ispirarsi alla scelta e al compito educativi nello sport implica invece la decisione di voler affrontare la «malattia» alla radice e di non volersi accontentare di soluzioni consolatorie; significa accettare il rischio di rimettere tutto in discussione e di passare l’esistente al vaglio critico della dignità inviolabile e originale di ogni persona.
    Del resto scopo di ogni azione educativa è promuovere e sollecitare il cambiamento sia nel singolo individuo che nella società nel suo insieme, e allo stesso tempo suscitare le novità di cui ogni persona è portatrice. Se così non fosse, l’educazione altro non sarebbe che istruzione e trasmissione, e il processo educativo un processo di adattamento e acquisizione. In tal caso la persona potrebbe essere ridotta a semplice «contenitore» da riempire, ad anello della catena culturale.
    La categoria sport educativo esplicita e tematizza la volontà di agire per il cambiamento, il desiderio di accompagnare la persona e la società nel suo evolvere verso il meglio e il bene, il bisogno di condividere una visione globale di vita in cui ognuno possa essere riconosciuto, apprezzato e reso protagonista del proprio vivere, «perché questi giovani siano dei buoni cristiani su questa terra per essere poi un giorno degni abitatori del cielo».[7]
    Lo sport educativo non propone una pratica sportiva diversa, ma un modo diverso di concepire e di vivere la pratica sportiva: chi organizza sport in funzione del guadagno, punta allo spettacolo; chi lo organizza in vista dei trofei, pensa alla vittoria; chi lo organizza con criterio e scelte educativi non considera prioritari lo spettacolo, il guadagno o i trofei, ma la persona, tutte le persone in esso coinvolte. Promuovere lo sport educativo, quindi, non è sinonimo di «buona educazione», rispetto delle regole e «volemose tutti bene», se non nella misura in cui questi comportamenti sono effetti di una visione di persona e di società che fa dello sport non un fine e nemmeno un semplice mezzo, ma un «luogo» di umanità e di civiltà al servizio di tutto l’uomo.[8]
    A queste condizioni lo sport diventa pienamente e mirabilmente scuola di vita e palestra di virtù, cioè intenzionalmente e realmente educativo.[9]


    NOTE

    [1] Presidente dell’Associazione «CNOS Sport – Salesiani per lo sport».
    [2] CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 2, cita Concilio Vaticano II, Gravissimum educationis, proemio.
    [3] Idem, n. 5; cfr Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 18.
    [4] Citato da CEI, Sport e vita cristiana, 1995, n. 3.
    [5] P. Trabucchi, Ripensare lo sport, Franco Angeli/Le Comete, Milano 2003, p. 15.
    [6] Legge n. 401, 13 dicembre 1989: daspo è l’acronimo di «Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive».
    [7] Don Bosco, Introduzione al piano di regolamento per l’Oratorio, 1854.
    [8] Cf CEI, Sport e vita cristiana, 1995, n. 13.
    [9] Puoi partecipare alla campagna sociale per uno sport che educa, La partita educativa nello sport, attraverso il sito che la promuove www.salesianiperlosport.org.


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