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    La Pira uomo di fraternità universale e di amicizia sociale



    Mario Agostino

    (NPG 2022-05-50)


    Padre di una delle Carte costituzionali più complete e belle al mondo, docente universitario di Diritto Romano amato dagli studenti, sindaco della rinascita di una Firenze che si rimise in piedi dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, siciliano cittadino di quel mondo che cercò di pacificare a tutti i costi, riuscendo a recarsi ove nessun altro diplomatico o politico poteva, come in una Mosca blindata per gli occidentali o un Vietnam in stato di guerra. Sempre per la pace, sempre credendo in quella fraternità universale che egli tendeva a chiamare famiglia umana. E in nome di questa, “apostolo” prestato alla “politica come più alta forma di carità”, come ebbe a ricordare un Giovanbattista Montini, più noto come Papa Paolo VI. Ma davvero tutte queste sfaccettature hanno convissuto in un solo uomo? Davvero è esistito un politico simile? La risposta, tanto incredibile quanto semplice, è sì: è esistito un profeta politico votato alla tutela della famiglia umana. Si chiamava Giorgio La Pira ed oggi più di ieri, a quasi mezzo secolo dalla sua morte, ne abbiamo molteplici prove, scritte e online: vediamo di saperne qualcosa in più, almeno a grandi linee.
    Nato il 9 gennaio 1904 a Pozzallo, in Sicilia, porta del Mediterraneo dell’Europa anche oggi meta di sbarchi. In linea d’aria, siamo più a sud di Tunisi, a 10 anni venne mandato a Messina, dallo zio materno, Enrico Occhipinti. Un vero e proprio “mangiapreti” che portò lo stesso Giorgino a pretendere addirittura di togliere il crocifisso dalle aule al suo ingresso... Diplomatosi in ragioneria nel 1921, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, dopo avere preso anche il diploma di Liceo Classico da esterno.
    Affascinato negli anni giovanili da Gabriele D’Annunzio e Tommaso Marinetti e dal loro ideale di cambiamento, è un vorace lettore: condivide le sue passioni con il suo gruppo di giovani amici di cui fanno parte anche il poeta Salvatore Quasimodo e Salvatore Pugliatti, giurista e futuro rettore dell’Università degli Studi di Messina. Nel corso della sua esperienza universitaria, conosce monsignor Mariano Rampolla Del Tindaro, fratello del docente Federico, che diviene poi sua guida in un’intensa vita spirituale.

    La “conversione”

    Possiamo datare ufficialmente una sua radicale conversione durante la Messa di Pasqua del 1924, che lui stesso definisce qualcosa di straordinario nella lettera indirizzata all’amico Salvatore Pugliatti: “È un’alba nuova della vita. Io non dimenticherò mai quella Pasqua 1924, in cui ricevei Gesù Eucaristico: risentii nelle vene circolare una innocenza così piena, da non potere trattenere il canto e la felicità smisurata”. Nel 1925 entra così a far parte del primo nucleo di terziari domenicani a Messina, scegliendo di essere “libero apostolo del Signore”, ma un anno dopo si trasferisce a Firenze seguendo il professor Emilio Betti, relatore della sua tesi di Diritto romano. Nel capoluogo toscano, in qualità di terziario, risiederà in una modesta cella presso il convento domenicano di San Marco (nel tempo sarà la V, la stessa di un certo Girolamo Savonarola) ove resterà fino a che la tendenza ad ammalarsi di bronchite non lo costringerà a trasferirsi. Tornerà sempre spesso a pregare e a condividere la mensa con i frati: francescano nel cuore, oltre che nei voti. Il desiderio di consacrarsi a Dio lo portò infatti ad essere tra gli aderenti, nel 1928, all’Istituto dei Missionari della Regalità di Cristo, istituto secolare voluto da padre Agostino Gemelli, per cui povertà, obbedienza, castità diventano stili di vita. Laureatosi intanto con lode, nel 1927 era diventato professore supplente di Diritto Romano all’Università di Firenze, assumendo la cattedra ordinaria nel 1933. È durante la sua permanenza a Firenze che la sua vocazione sociale prende forma: nel 1934 diede vita a alla “Messa dei poveri”, definita anche simpaticamente “Repubblica di San Procolo” in nome della chiesa nel cuore di Firenze chiamata in causa. Un’esigenza, scrisse, nata da un bisogno di “sborghesimento” del cristianesimo. Una sorta di esperimento pilota che ebbe successo, tanto da espandersi sempre di più:
    “Una domenica della primavera 1934 una quarantina di poveri – gli ultimi davvero: ciechi, zoppi! – erano radunati nella Chiesa di S. Procolo per partecipare alla S. Messa. Al Vangelo furono dette poche parole; poi, recitate alcune preghiere, la Messa finì.
    Fu portata all’Altare una cesta di pane fresco: quel pane fu benedetto, fu recitato insieme fu recitato insieme un Padre Nostro e fu fatta ordinatamente la distribuzione”.
    Basti pensare che nel 1942 la folla era divenuta così fitta a S. Procolo da rendere necessario l’uso di una chiesa più grande, così tutti passarono alla Badia. Un’esperienza di fraterno amore e di provvidenza per i più poveri, che forgiò La Pira come uomo e come intellettuale, comunque noto anche per il suo servizio con l’Opera San Vincenzo. Intanto, in un’Italia fascista diretta verso il dramma totale della Seconda Grande Guerra, assurgeva a un ruolo di primo piano nella creazione di una nuova classe politica, che si preparava ad una nuova alba per il Paese in seguito al crollo del regime. Partecipava infatti agli incontri clandestini che sin dal 1940 si svolgevano a Milano, nei pressi dell’Università Cattolica, insieme a giovani di grande spessore culturale e spirituale come Giuseppe Dossetti, Giuseppe Lazzati e Amintore Fanfani. In quegli stessi anni, venne invitato spesso ai raduni del Movimento Laureati Cattolici e della Federazione Universitaria Cattolica Italiana. Troviamo una sintesi significativa della maturazione di questi ideali nel cosiddetto “Codice di Camaldoli” che, nel 1943, pose le basi per i principali temi della vita sociale dell’Italia del secondo dopoguerra: dalla famiglia al lavoro, dall’attività economica al rapporto cittadino-stato, un vero e proprio manifesto di ristrutturazione dello Stato e conseguente impegno politico elaborato da intellettuali e studiosi cattolici. La Pira figurava ufficialmente tra i più ricercati esperti consultati per la stesura del documento.
    Non scordiamo che nel 1939 aveva già fondato la rivista “Principi”, sulle cui pagine in latino difendeva in maniera coraggiosa il valore della persona umana e la sua libertà: questo coraggioso “libello” era stato soppressa dopo due anni di vita dal regime fascista che poi, nel periodo delle persecuzioni razziali, mentre il “professorino” La Pira era già intento anche ad aiutare famiglie di ebrei a nascondersi nei conventi, cominciò a tenere d’occhio questo minuto siciliano sovversivo. Dal 1943 La Pira, ufficialmente ricercato, si rifugiò prima a Fonterutoli, nella casa dell’amico Jacopo Mazzei, dove avrebbe conosciuto una delle più care amiche e collaboratrici di tutta la vita, Fioretta Mazzei, poi a Roma, in casa di quel sopra citato monsignor Montini che sarebbe passato alla storia come Papa Paolo VI.
    Tornato a Firenze nel 1944, La Pira era già uno degli esponenti più preparati del movimento cattolico italiano e, il 2 giugno del 1946 venne chiamato a far parte dell’Assemblea costituente nella lista della Democrazia Cristiana: all’interno della Costituente, La Pira fece parte della prima sottocommissione, quella che scrisse i “Principi fondamentali”.
    Tanti articoli della Costituzione italiana portano la sua firma: in particolare quelli sulla dignità della persona (articoli 2 e 3), sul rapporto tra stato e chiesa (articolo 7), e quello in base al quale l’Italia ripudia la guerra (articolo 11). Nel 1948 viene eletto alla Camera dei deputati: il Presidente De Gasperi lo chiamò come sottosegretario al lavoro nel suo quinto governo. In tale funzione, La Pira si trovò spesso a svolgere un difficile ruolo di mediatore in aspre battaglie, tra sindacati agguerriti, industriali non disposti a cedere e i ministri del bilancio e delle finanze poco inclini alla trattativa. Eppure, l’obiettivo fondamentale della sua azione politica rimase sempre la “piena occupazione”. In un suo famoso articolo, segnalò: “Il documento inequivocabile della presenza di Cristo in un’anima ed in una società è stato definito da Cristo medesimo: esso è costituito dalla intima ed efficace «propensione» di quell’anima e di quella società verso le creature bisognose! […] La disoccupazione è un consumo senza corrispettivo di produzione e perciò uno sperpero di forze produttive […] È inutile argomentare, distinguere, mostrare che una parte del sistema è sano e rigoglioso, e che la lira è salda e così via: il sistema economico e finanziario è indivisibile, la diagnosi è quella che è ed il giudizio intorno al suo prolungarsi non può essere che questo: non può e non deve durare più oltre”.

    I “manifesti politici”

    Ed è in questo periodo che due dei suoi più noti “manifesti politici” prendono corpo: nel 1950, firma il saggio “L’attesa della povera gente”, mentre l’anno dopo “La difesa della povera gente”: pubblicati su “Cronache Sociali” e poi dalla Libreria Editrice Fiorentina, appaiono di un’intensità e lucidità profetica disarmante. Il 6 luglio 1951, intanto, diventò acclamato sindaco di Firenze, che divenne la città-laboratorio in cui mettere in pratica quelle sue idee che Papa Giovanni Paolo II in diverse occasioni ha voluto additare come esempio di modello sociale per i cristiani impegnati in politica. Famiglie senza casa, disoccupazione, miseria furono i suoi crucci continui. In particolare, il nodo più drammatico all’epoca riguardava l’aumento degli sfratti, nell’ordine di migliaia: varò così un programma di edilizia pubblica (le “case minime”) e, per fronteggiare l’emergenza, chiese ad alcuni proprietari immobiliari di affittare temporaneamente al Comune una serie di appartamenti vuoti. A seguito delle risposte negative, ordinò la requisizione degli immobili basandosi, da fine giurista, su una legge del 1865, per “grave necessità pubblica”!
    Tra le tante cose realizzate sotto la sua amministrazione, si ricorda la Centrale del Latte, il Mercato ortofrutticolo di Novoli, la rete delle farmacie comunali, la ricostruzione dei ponti distrutti dai nazisti, il quartiere popolare dell’Isolotto, ma soprattutto la celebre vicenda della Pignone, azienda che, ingranditasi nel periodo bellico producendo armi, aveva tentato di riconvertirsi nel campo dei telai tessili, ma con poco successo. La società proprietaria, la Snia Viscosa, aveva già ridotto il personale e, nel novembre 1953, annunciò la chiusura degli stabilimenti: gli operai occuparono la fabbrica e La Pira si schierò pubblicamente dalla loro parte occupando con loro. Non solo per difendere il diritto al lavoro, ma in ottica di una chiara strategia per l’economia della città della quale si fece promotore e pioniere: utilizzare negli impianti di estrazione del petrolio le turbine prodotte dall’azienda, per una proposta strategica all’Eni di Enrico Mattei che, convinto, rilevò la Pignone su invito di la Pira (“in nome della Madonna”), salvando tutti i posti di lavoro e generando enormi profitti per decenni. Scelte ardite e radicali, come quelle della confisca e dell’occupazione della Pignone, gli attirarono strali di ogni tipo da ambienti altolocati e poco inclini alla condivisione solidale, con accuse di “comunismo”, alle quali rispose a più riprese: “Il pane, quindi il lavoro, è sacro; la casa è sacra, non si tocca impunemente né l’uno né l’altro: questo non è marxismo, è Vangelo”.
    La sua vocazione alla pacificazione universale non subì mai interruzioni: in un celebre discorso pronunciato nel 1954 a Ginevra sul “valore delle città” rivendicò il diritto delle città a sopravvivere e dunque quindi il dovere degli amministratori di operare per la pace. Negli anni della guerra fredda, convocò a Firenze i famosi Convegni per la pace e la civiltà e poi i Colloqui mediterranei, riunendo leader politici e personalità di tutto il mondo e bypassando così le rigidità diplomatiche. Già allora, come oggi, puntò il dito sull’inadeguatezza e la follia criminale della guerra quale mezzo di risoluzione dei conflitti, ponendo l’accetto sull’inevitabilità del negoziato e della presa di coscienza della fondamentale comunanza di destino dei popoli.
    In questa visione rientrano anche i noti gemellaggi di cui si fece promotore, facendo di Firenze una città simbolo di “costruzione di ponti” tra tutti i continenti: Reims, Fez, Kiev, Filadelfia… al motto “unire le città per unire le nazioni”. Organizzò inoltre un ambizioso viaggio a Mosca nel 1959, primo politico occidentale non comunista a varcare la “cortina di ferro”: un’esperienza che lo vide anche al Cremlino parlare di “visione cristocentrica della storia” e di “scorte di angeli custodi”, ove non ebbe timori a sollevare il problema dell’ateismo di stato. Quindi, tra i viaggi più delicati, quello in Vietnam, dal quale riportò un’offerta di trattative che avrebbe potuto evitare anni di una delle più tristemente note guerre della storia, se solo il suo “papello” non fosse stato intercettato da qualche sabotatore della pace negli USA, che lo diffuse tramite un giornale con tanto di presunta resa degli Stati Uniti... Messaggio fuorviante che ovviamente fece saltare le trattative. Degni di nota anche i suoi viaggi in Medio Oriente: “non vi sarà pace nel mondo - diceva, finché non vi sarà pace tra cristiani, ebrei, musulmani a Gerusalemme”, culla delle tre grandi religioni che egli amava riunire nell’espressione “Triplice famiglia di Abramo”.

    Dialogo ecumenico e laicato

    Dopo il 1965, pur non essendo più sindaco di Firenze, rimase al centro di mille contatti internazionali e, parallelamente, si adoperò all’interno della Chiesa per il dialogo ecumenico e la responsabilizzazione del laicato, conoscendo Chiara Lubich. Non rinunciò mai a levare la propria voce in difesa della vita in tutte le sue forme: memorabili le sue condanne ferme rispetto all’aborto, inteso come omicidio di un innocente indifeso e incapace di esprimersi, dunque come “dramma” da prevenire a non come “diritto”. Nel 1976 è eletto ancora deputato con la DC, ma la sua salute peggiorò gravemente. Non fece comunque mai mistero di come la sua azione pacificatrice fosse costantemente supportata dalla preghiera delle suore di clausura, con cui intratteneva continui scambi epistolari: alle sorelle nella fede, che coinvolgeva rispetto ad ogni intento, chiedeva una comunione di preghiera come sicuro rimedio ed efficacia per la riuscita delle sue missioni. Nel 1977, esattamente il 5 novembre, cessò la sua parabola terrena. Nei giorni successivi alla sua morte, nonostante tutte le critiche ricevute durante gli anni, Firenze fu invasa da uomini di ogni parte: tutti d’accordo nel riconoscere la sua anima da “Profeta Politico”.
    Viene talvolta ricordato come un politico pressoché impossibile da eguagliare: “un santo”, lo definirono in tanti. Con una personalità segnata tra il misticismo degli asceti e il pragmatismo degli statisti: “La nostra partecipazione all’Anno Santo non è un atto di pietà, ma un fatto politico, perché deve contribuire a che il piano di Dio si realizzi nella storia” amava ricordare ricorrendo a un’espressione che poi sarebbe stata utilizzata nel “Giubileo dei Governanti” nel 2000. Il 5 luglio del 2018, Papa Francesco lo ha reso Venerabile: se non possiamo parlare ancora di “sindaco santo” formalmente… ci siamo quasi, miracoli permettendo. In ogni caso, l’operato di Giorgio La Pira ha il grande merito di rammentarci cosa possa essere la Politica. E se La Pira rimarrà forse un uomo inarrivabile, non lo sarà il suo esempio e le sue idee, tanto scomode quanto palesi nello scardinare le logiche di quel Dio Denaro che spesso motiva i grandi scenari della storia anche odierna. Forse non si è mai visto nessuno di così strabiliante tra le fila della politica moderna: un uomo vissuto con i poveri e per i poveri, che cedeva loro il cappotto e lo stipendio da docente, giocava con i bambini, distribuiva denaro, indumenti, cibo e farmaci e così ritornava alle baracche nelle quali era vissuto nei primi anni del suo soggiorno messinese. Un uomo per cui non esisteva nessuna casta, nessuna stratificazione sociale, se non l’uomo in quanto massima espressione del Creato a immagine di Dio, sempre unico e da tutelare ad ogni costo nella propria dignità integrale. Impossibile da eguagliare? Giorgio La Pira rimane un profeta politico, ma il suo esempio, oggi come allora, è nelle corde di chi ogni giorno sceglierà se stare dalla parte dei fratelli più oppressi o dei più oppressori, in politica come in classe, sul lavoro come in comunità.


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