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    Recensione e segnalazione

    Gambini

    pp. 384 - € 24,00

     

    L’AUTORE

    Nato a Matelica, nelle Marche, nel 1958, ha compiuto gli studi Filosofici presso l’Università Pontificia Salesiana e di Teologia presso la Sezione
    di Torino-Crocetta. Ha conseguito la Laurea quinquennale in Pedagogia con indirizzo psicologico all’Università di Firenze (1994) e la Laurea quinquennale in Psicologia dell’educazione all’Università Pontificia di Roma (1999). Presso l’Istituto di Terapia Familiare di Firenze ha conseguito, nel 2004, la specializzazione in psicoterapia familiare. Attualmente è docente ordinario di psicologia della Facoltà di Scienze dell’Educazione in cui insegna dal 2002 e di cui è stato Decano.
    Psicologo, Psicoterapeuta familiare ad orientamento sistemico relazionale, si occupa di Psicologia della famiglia, con particolare riferimento alle sue dinamiche di sviluppo. La sua area di ricerca primaria è la psicologia della famiglia con figli adolescenti. Da alcuni anni è direttore del Centro Psicopedagogico della Facoltà di Scienze dell’Educazione in cui è responsabile del Servizio adolescenti e famiglia.
    È autore di numerosi libri presso LAS, Erickson, FrancoAngeli, EDB, Elledici.

    IN ESTREMA SINTESI

    Nella prospettiva di una psicologia relazionale, l'autore suggerisce cosa fare per vivere bene la sessualità. La sua proposta, anche grazie all'offerta di esercizi, costituisce un ricco e articolato percorso di crescita personale verso la maturità affettivo relazionale e sessuale utile a tutti. Anche se si rivolge in particolare a chi ha scelto di rimanere nubile o celibe per seguire in modo del tutto speciale il vangelo, vista la loro scelta a dir poco controversa all'interno di una cultura che tende a ridurre la sessualità alla sola genitalità, l'autore crede che riflettere sulla possibilità di esprimere questa qualità nel celibato costituisca un'opportunità per tutti: a nubili e celibi, per abitare consapevolmente la vocazione intrapresa senza che assuma i caratteri di una nevrosi e agli altri, a partire dalla loro condizione esistenziale, a valorizzare ugualmente questa dimensione al di fuori dell'intimità di coppia. In ultima analisi, il percorso atipico del celibato volontario consente di riscoprire che l'essenziale della sessualità non sta nella genitalità e nella sua spinta riproduttiva, nonostante siano queste dimensioni indispensabili a spiegarne l'evoluzione. Lo scopo fondamentale affidato dalla stessa evoluzione alla sessualità è quello di promuovere legami generativi, ossia cooperativi e creativi che favoriscano a livello sociale la trasmissione intergenerazionale. Tramite la sessualità, le sensazioni e le emozioni che attraversano il corpo, incontriamo, dialoghiamo e cooperiamo con gli altri alla creazione di beni socialmente rilevanti. Inoltre, il consolidamento di rapporti interpersonali ricchi di senso favorisce non solo l'espressione ma pure il contenimento del desiderio sessuale.

    APPROFONDENDO…

    Introduzione

    Questa pubblicazione costituisce uno studio dalla prospettiva della psicologia relazionale su cosa fare per vivere in pienezza la sessualità. Si rivolge in particolare alle donne e agli uomini che hanno scelto di rimanere nubili o celibi per concentrarsi con dedizione al servizio di alcuni valori. Per esempio, a chi all’interno della Chiesa ha optato di seguire il Vangelo in modo del tutto speciale, tipo: seminaristi, sacerdoti, suore, frati, religiose di vita attiva, monache e monaci, consacrati e secolari, religiosi/e laici.
    La loro peculiare scelta di vita risulta a dir poco controversa all’interno di una cultura che tende a ridurre la sessualità alla sola genitalità. In un contesto in cui gli esiti della liberazione sessuale hanno trasformato il far sesso in un obbligo a cui conformarsi al più presto per non sentirsi anormali è facile guardare con sospetto a tale progetto. Al contrario il presente contributo crede che proprio l’indagare sulla possibilità di esprimere la sessualità nel celibato costituisca un’opportunità per tutti: a nubili e celibi, per abitare consapevolmente la vocazione intrapresa senza che assuma i caratteri di una nevrosi e agli altri, a partire dalla loro esperienza, per valorizzare il sesso anche al di fuori dell’intimità di coppia. In ultima analisi, il percorso atipico del celibato volontario consente di riscoprire che l’essenziale della sessualità non sta nella genitalità e nella sua spinta riproduttiva. Il sesso rimane umano anche quando questi due aspetti, indispensabili a spiegarne l’evoluzione, dovessero mancare. La sua peculiarità sta piuttosto nel rendere idonea la persona a intessere legami generativi, ossia cooperativi e creativi a livello sociale.
    Proprio il consolidamento di rapporti interpersonali ricchi di senso e in linea al percorso intrapreso, sia quando questo include o meno l’esercizio della genitalità, facilita il vivere con equilibrio il desiderio sessuale anche in una società come la nostra in cui l’eccessiva esposizione al sesso tende a farlo apparire un bisogno indomabile. Nella visione prosociale la maturità sessuale è in stretto rapporto a quella etica e affettivo relazionale. Attraverso la sessualità incontriamo, dialoghiamo e cooperiamo con gli altri alla creazione di significati socialmente rilevanti: l’esperienza insegna che essa offre il meglio di sé in un clima di reciproca empatia e riconoscimento. Solo chi è in grado d'intessere interazioni intime, collaborative e rispettose della dignità propria e altrui vive in modo sereno la sessualità, così da esprimerla in rapporti amorosi e/o sociali idonei a contribuire al bene comune.
    Pertanto, quanto qui esposto può costituire un percorso di crescita personale anche grazie all’offerta di esercizi utili a progredire nella maturità affettivo relazionale e sessuale. Si tratta di una proposta promozionale (di prevenzione primaria) diretta a favorire uno sviluppo sano e a evitare eventuali problematiche. Solo alla fine del testo è riportato un percorso di prevenzione secondaria destinato a chi già soffre qualche disagio. Al contrario, questo scritto non è sufficiente ad aiutare chi è affetto da un disturbo affettivo sessuale che, per la sua pervasività e persistenza, necessita di un sostegno psicoterapeutico (di prevenzione terziaria).

    UNA PROSPETTIVA RELAZIONALE

    Prima di entrare nel vivo della trattazione presentiamo la sua prospettiva teorica, utile a coglierne le coordinate di riferimento.
    Al centro della nostra riflessione sta la relazione, in quanto struttura portante dell’esistenza umana e della costruzione sociale. La persona è tale in quanto “essere in relazione” e la società trova in essa la sua unità di base. Nell’incontro con l’altro individuiamo la nostra identità, elaboriamo significati e generiamo prospettive di senso per il bene comune.
    Puntiamo a un’antropologia che metta in evidenza la natura prosociale della persona, la sua inclinazione a interagire con gli altri a beneficio della comunità d’appartenenza. I recenti studi nell’ambito delle neuroscienze hanno messo in evidenza come la mente umana prende forma e si sviluppa all’interno di una matrice relazionale. In altre parole, per la mente, le relazioni sono come l’acqua per un pesce: senza di esse non si riesce a vivere bene o ci si ammala. Senza l’altro al quale legarci, viene a mancare il nutrimento essenziale di cui necessitiamo per svilupparci e funzionare adeguatamente. In questo senso valutare la qualità delle esperienze sociali della persona serve a comprenderne lo stato di salute, a capire cosa fare per promuovere il suo benessere e quello della comunità, oppure come intervenire per prevenire o curarne il malessere individuale e sociale.
    Per il sociologo relazionale dell’Università di Bologna Pierpaolo Donati (1983; 2013), la relazione è caratterizzata da tre modalità d’essere, in quanto: connessione o legame (re-ligo); riferimento simbolico-intenzionale (re-fero); effetto emergente. Secondo la prima modalità, nella relazione le persone si uniscono riconoscendo e apprezzando le reciproche differenze e aspettative; per la seconda, nella stessa elaborano significati e valori nel confronto intersoggettivo che si realizza in un preciso contesto sub culturale; per la terza, proprio dalla stessa prende vita qualcosa di nuovo, che supera gli interlocutori nella loro individualità, in quanto prodotto generato nel reciproco scambio.
    Ogni relazione aspira a essere generativa, a unire le diversità, a elaborare significati e a dare vita a beni relazionali per concorrere alla costruzione di una società a misura d’uomo, connessa da rapporti di fiducia e aperta al futuro. Al contrario, quando una relazione risulta essere degenerativa, influisce nel determinare una comunità sociale incapace di ricreare l’umano, ristagnante e disgregata.

    La felicità nel fare del bene agli altri
    Molti psicologi clinici, psicoterapeuti e psichiatri del secolo scorso, quando cercavano di spiegare e rispondere ai complessi interrogativi legati alla sofferenza mentale, adottavano il paradigma della psicoanalisi di Sigmund Freud. Avevano quindi in mente un modello intrapsichico, individuale, che poneva in secondo piano la dimensione interpersonale e sociale. Nell’opera Il disagio della civiltà, Freud (1930) presenta l’uomo come individuo preesistente alla comunità e per sua natura spinto da un impulso di autoconservazione. Quando l’uomo entra nella società si trova così a dover competere e lottare con i suoi simili con il rischio di autodistruggersi, per questo giunge all’accordo di limitare sé stesso, le proprie libertà e le singole pretese di autoconservazione, a beneficio di una condizione di vita più sicura per tutti. Di fatto, questo “contratto sociale” permette all’uomo di entrare nella civiltà rinunciando al diritto di una felicità piena. Si dà così vita a una società più evoluta che, mentre garantisce tutele a tutti, coarta i singoli nel raggiungimento dei propri impulsi primordiali. La conseguenza è l’insorgere di un conflitto intrapsichico di non facile soluzione, visibile nelle varie forme di sofferenze individuali, quali le nevrosi. Tale visione, già contestata e superata da alcuni autori appartenenti allo stesso movimento psicoanalitico (Klein, 1932; Hartmann, 1939; Horney, 1939; Sullivan, 1950), viene gradualmente sostituita da una prospettiva incentrata sulla relazione e la qualità dell’esperienza interpersonale e sociale.
    Secondo quest’ultima, felicità e sofferenza non sono legate alla possibilità/impossibilità di soddisfare le proprie pulsioni ma al modo di vivere con gli altri. Nella prospettiva relazionale l’altro diviene necessario. Piuttosto che un concorrente o un antagonista, è una persona da riconoscere in quanto risorsa indispensabile alla costruzione di sé e della comunità a cui si appartiene. In questa seconda visione, al contrario di quella della psicoanalisi classica, come suggerito dal filosofo del dialogo Martin Buber (1954), in principio è la relazione. L’individuo non esiste dapprima, in isolamento, per poi interagire con gli altri. È piuttosto la relazione a dar vita alla persona. Veniamo al mondo all’interno di un rapporto interpersonale, quello dei nostri genitori, per intessere progressivamente altri legami nei quali scoprire e definire sempre meglio chi siamo. In altre parole, la verità dell’uomo non è nel suo essere soggetto, considerato in sé, ma nel suo essere strutturalmente in relazione con gli altri. La letteratura psicologica attesta che già nel ventre materno il bambino inizia a stabilire una comunicazione con la madre: in questo modo si avvia la relazione tra i due, che continuerà nel corso dello sviluppo della vita.
    Anche se la nostra società incoraggia l’autorealizzazione individuale in competizione con gli altri, di fatto, chi si prende cura del prossimo fa del bene a sé stesso. Non solo l’esperienza personale, ma anche la ricerca empirica, mostrano che impegnarsi in condotte prosociali, ossia fare del bene agli altri, attiva un circolo virtuoso in grado di generare benessere individuale, migliorare la qualità delle relazioni interpersonali e accrescere il funzionamento della società.

    La strada del riconoscimento reciproco
    Per offrire una risposta alla questione che sta a cuore alla nostra cultura, quella dell’individualità e identità personale, è necessario rifarsi ai legami di appartenenza. Quando una persona cerca di rispondere alla domanda “chi sei?”, non può far a meno di riferirsi alle relazioni interpersonali e sociali in cui vive. Potrà dire di essere figlio/figlia, marito/moglie, padre/madre, fratello/sorella, amico/a, di esercitare insieme ad altri una professione, di abitare in una città, di essere cittadino di una nazione, ecc. Lo stesso nome e cognome lega a una precisa appartenenza famigliare e sociale. Anche l’individuo più isolato ha iscritti in sé, nei lineamenti del corpo come in quelli della mente, nel modo di comportarsi come nei valori acquisiti i segni di una molteplicità di appartenenze.
    In altre parole, la strada principale che porta alla costruzione dell’identità passa attraverso il riconoscimento altrui. In essa infatti l’individuo riceve una spinta a realizzare ciò che è. Al contrario, il misconoscimento e il rifiuto altrui, generano una sorta di ristagnamento. Ci definiamo solo dialogando e contrattando con gli altri. Anche se, in solitudine, dovessimo capire qualcosa di ciò che siamo, tutto ciò assume ai nostri stessi occhi autorevolezza quando accettiamo il confronto altrui. In questa ottica di bisogno dell’altro nell’individuazione di sé, come descritto dal filosofo Axel Honneth (1992), anche il conflitto sociale può essere interpretato come una sorta di richiesta di riconoscimento. L’aggressività e le offese costituirebbero la strategia per costringere l’altro a riconoscere le proprie attese. Honneth, nella elaborazione della sua “teoria del riconoscimento”, sostiene che occorre sostituire alla vecchia visione individuale che vede l’uomo impegnato nella “lotta per l’autoconservazione”, una nuova prospettiva di tipo relazionale in cui questo è anzitutto indaffarato nella “lotta per il riconoscimento”. Anche in questo caso l’altro non costituisce una realtà minacciosa ma un’opportunità con la quale interagire: “egli, si profila come una indispensabile presenza, rapportandosi alla quale ognuno aggiunge quei ‘presupposti’ che non sono in suo possesso e che risultano necessari per fondare la sua stessa identità” (Molinari e Cavalieri, 2015, p. 34).
    Per comprendere tutto ciò occorre ricordare e riscoprire che solo il dono avvia la relazione e che quando questa entra in crisi soltanto il perdono (ossia, un iper-dono) può rilanciarla. Secondo Donati (2001) la gratuità del dono è una caratteristica indispensabile della relazione sociale e condizione necessaria al mantenimento della stessa. Quanto più il dono è gratuito, tanto maggiore è la sua forza di suscitare in chi lo riceve un sentimento d’obbligo, una forma di legame nei riguardi del donatore. Sul versante psicologico, Scabini e Cigoli (2012) specificano che all’avvio di una relazione vi sia sempre un atto di fiducia nei confronti dell’altro che, se corrisposto, dà vita al legame. In altre parole, per ricollegarci al tema del riconoscimento, soltanto attraverso il dono e il perdono è possibile raggiungere l’altro nella sua individualità perché possa sentirsi apprezzato e confermato nella sua dignità.

    La spinta biologica a donare
    Svariati studi sottolineano che i comportamenti altruistici sono vantaggiosi anche per chi li compie: sia in età precoce, perché contribuiscono a delineare una traiettoria evolutiva positiva, in grado di prevenire l’insorgere di problematiche antisociali e depressive e promuovere il rendimento scolastico (Bandura et al., 2001; Caprara, Barbaranelli e Pastorelli, 2001); sia in età adulta e avanzata, perché concorrono al benessere personale e buon adattamento (Wheeler, Gorey e Greenblatt, 1998; Young e Glasgow, 1998).
    Il sostegno a questa visione viene anche da alcune teorie neo-evoluzioniste: un’interessante ipotesi riconduce la tendenza prosociale a una naturale propensione dell’uomo all’altruismo. Secondo gli autori (Trivers, 1971; Wilson, 1975; 1978) che hanno ideato questa supposizione la selezione naturale opera a livello di gruppo piuttosto che individuale e l’altruismo avrebbe il compito di favorire la cooperazione. Il sacrificio individuale andrebbe a vantaggio delle maggiori possibilità di sopravvivenza del gruppo e della trasmissione genetica. In questo senso, infatti, il patrimonio genetico sarebbe dotato di maggiori possibilità di adattamento rispetto a quello individuale: proprio per questo nel trascorrere del tempo, da una generazione all’altra, si sarebbe consolidata la propensione all’altruismo che dispone a fare il bene e ad attendersi che anche gli altri facciano altrettanto nei propri confronti.
    Da un simile punto di vista, il filosofo della mente Daniel Dennet (2008) sottolinea come quella umana sia l’unica specie in grado di rinunciare all’imperativo genetico dell’autoconservazione: sono molti infatti gli esempi in cui una donna o un uomo abbiano offerto la vita per salvare quella altrui o per un importante valore. Tutto ciò non è un fatto scontato dal punto di vista biologico, e secondo Dennet richiederebbe una spiegazione: cosa è accaduto a livello evoluzionistico da indurre l’uomo a perseguire fini che superano il raggiungimento di un bene individuale e l’istinto a preservare la propria vita?
    Dunque, nel corso dei secoli, l’evoluzione del genere umano è divenuta protagonista di un significativo cambio di prospettive: il cervello umano, all’inizio programmato per predare, cacciare, raccogliere cibo per la sopravvivenza dell’individuo e della specie si modifica fino al punto da acquisire anche la capacità di donare la vita per il bene altrui. La direzione verso cui sembra orientarsi l’evoluzione della mente umana appare di certo opposta a quella acquisitiva, predatoria, autocentrata tipica del cacciatore-raccoglitore e riguarda invece l’apertura all’altro, il decentramento da sé, la prospettiva del dono e del reciproco donarsi che contraddistinguono l’uomo sociale (Molinari e Cavalieri, 2015, p. 61). Louis Cozzolino, neuro-scienziato esperto dello studio delle relazioni umane, scrive: “non c’è dubbio che l’evoluzione ci ha modellato per amarci reciprocamente. Forse è per questo che le esperienze della vita più gratificanti sono in prevalenza quelle che vengono condivise. Le relazioni affettuose aiutano il nostro cervello a svilupparsi, integrarsi e a restare flessibile. Attraverso l’amore regoliamo reciprocamente la chimica del nostro cervello, il senso di benessere e il funzionamento immunitario. E quando la spinta ad amare è ostacolata – quando siamo spaventati, vittime di abuso o trascurati – la nostra salute mentale viene compromessa” (Cozzolino, 2008, p. 324).

    L’empatia, fondamento delle relazioni sociali
    L’evoluzione umana è stata favorita fin dal principio dalla particolare capacità che hanno gli individui d'interagire gli uni con gli altri grazie alla risonanza emotiva e comprensione della mente altrui. Si tratta di una competenza che prende forma alla nascita di ogni bambino, nella relazione coi genitori, e, poi, con gli altri significativi. La capacità degli esseri umani d'intuire l’uno le intenzioni dell’altro, per raccordarsi tra di loro così da agire in modo coordinato e cooperativo nella soluzione delle problematiche, li ha resi più capaci di adattarsi alle situazioni avverse incontrate rispetto alle altre specie. Gli ha permesso, per esempio, di catturare prede feroci e voluminose che da soli non sarebbero stati in grado di dominare. Così la specie umana sopravvive ed evolve non tanto grazie alle sue qualità predatorie ma a quelle sociali e cooperative, come quella di simpatizzare con chi è in difficoltà sino a fargli dono di ciò che ha bisogno, a riconoscerlo simile a sé e amico piuttosto che un concorrente da cui difendersi.
    In questo lungo percorso evolutivo la mente umana ha acquisito competenze relazionali che permettono alla persona di uscire da sé per aprirsi agli altri a partire dal sentire le emozioni che questi provano. Queste qualità relazionali sono sottese alla capacità empatica, quella particolare abilità di risuonare interiormente con lo stato emotivo altrui tanto da immedesimarvisi e percepire le sue richieste di aiuto, conforto e sostegno anche quando non verbalmente dichiarate. Si tratta di un dinamismo alla base della costruzione di ogni relazione in grado di mettere in evidenza le sue costitutive qualità affettive ed etiche. L’empatia, infatti, non solo stabilisce una vicinanza emotiva all’altro, ma anche l’assunzione di responsabilità sia nei suoi riguardi che della stessa relazione. In questo riprendiamo il modello relazionale-simbolico di Scabini e Cigoli (2000; 2012) applicato alle relazioni familiari, anch’esse basate su queste due dimensioni .
    Dal punto di vista affettivo, l’empatia crea uno stato di prossimità tra le persone, rivelando la capacità dell’individuo di avvicinarci, capire e accogliere il mondo interiore altrui, sino a intuire quali pensieri o emozioni lo attraversano. In questo modo si dà valore ai sentimenti dell’altro tanto da farlo sentire riconosciuto. Gli si trasmette che i suoi pensieri e vissuti sono stati recepiti, accolti e rispettati per ciò che esprimono. Il vero processo empatico comporta aprirsi alla prospettiva emotiva altrui in modo da distinguerla dalla propria. La costruzione di un’autentica relazione empatica richiede un adeguato decentramento da sé: la capacità di rappresentare il vissuto altrui differenziandolo dal proprio. Così fa la mamma quando il suo piccolo piange e si dispera: si sintonizza a lui, partecipa alla sua sofferenza e si prende cura di lui mantenendo la calma. In questo modo può trasmettere al piccolo una sensazione di serenità così che pian piano si tranquillizzi. Non sarebbe la stessa cosa se la mamma provasse lo stesso disagio del bambino. Solo nel primo caso si può parlare di un buon processo emotivo, di una vera e propria empatia. Il secondo invece corrisponde a una pseudo empatia, più precisamente, a un contagio emotivo.
    Dal punto di vista etico, come descritto da Hoffman (1987), l’empatia permette di sviluppare un atteggiamento morale che promuove una sensazione di benessere quando si aiuta colui per il quale abbiamo provato empatia, o, viceversa, un sentimento di colpa quando non l’aiutiamo. Per Hoffman (2000), sin dall’inizio dello sviluppo dell’individuo i sentimenti empatici costituiscono i precursori dei principi morali e successivamente contribuiscono al ragionamento morale basato su tali fondamenti, alla presa di decisioni eticamente corrette e alla formazione dei giudizi morali. Insomma, l’empatia, fin da piccoli, costituisce una spinta ad agire moralmente. Similmente Batson (1991) sostiene che in sua assenza i principi etici mancano della forza motivazionale necessaria a far sì che le persone possano prendersi cura delle altre, specialmente quando questo richiede un alto costo personale.
    Non a caso, come supposto da Baron-Cohen (2012), è proprio un’erosione del “quoziente d’empatia” a permettere all’uomo di provocare tanto dolore ai propri simili. Infatti, non “sentendo” più gli effetti prodotti dalle nostre azioni, possiamo reiterare all’infinito comportamenti distruttivi e disumanizzanti senza sentircene in alcun modo responsabili, così come nel caso degli aguzzini dei campi di concentramento nazisti che umiliavano, maltrattavano e uccidevano le loro vittime. In altre parole, l’empatia mette in evidenza la prospettiva etica della relazione chiedendo agli interlocutori di comportarsi responsabilmente sia nei riguardi dell’altro che dello stesso legame. Questa prospettiva viene negata nel momento in cui, privi d’empatia, sottraiamo umanità all’altro usandolo per raggiungere esclusivamente i propri scopi.
    In sintesi, attraverso l’empatia la nostra mente è in grado di leggere quella altrui e d’intuirne le emozioni così da cooperare alla creazione di nuove e sofisticate risposte, le stesse che hanno consentito alla nostra specie una grande capacità di adattamento e sopravvivenza. Nel tempo, la nostra mente ha strutturato delle competenze affettive eticamente fondate tali da permetterci di sintonizzarci, coordinarci e raccordarci con gli altri. Per lo scienziato cognitivo Steven Pinker (1998; 2002; 2006), il salto qualitativo fatto dalla specie umana nell’acquisire qualità particolari come la prosocialità, l’altruismo e la capacità di donare sta in quell’evento straordinario che è la “cooperazione”, ossia nella propensione degli esseri umani di coordinarsi fra di loro e di esprimere azioni cooperative. Una competenza, questa, che implica un significativo grado di reciprocità, nello scambio di favori e nel coordinamento delle azioni e degli scopi. La particolarità poi della cooperazione umana, a differenza di un certo grado di reciprocità mostrata dai primati e dagli scimpanzé, è quella di essere stabilita anche con individui non appartenenti alla parentela.

    Una visione relazionale della sessualità
    Inserita in questa prospettiva prosociale, la sessualità è una qualità della persona con valenza relazionale, intenta anch’essa a contribuire con le altre dimensioni all’incontro e alla realizzazione di progetti condivisi. Come scrive Donati “la sessualità ha basi biologiche-organiche e psichiche, ma nella persona umana essa è iscritta in un corpo che si costituisce relazionalmente nel mondo. E per tanto la sessualità esprime non solo una pulsione biologica e psichica, ma anche e soprattutto una pulsione relazionale, che è sociale” (Donati, 2018, p. 30). A questo proposito possiamo distinguere le relazioni sociali in rapporti interpersonali sessuali e sessuati a seconda di come viene concepita ed esercitata la sessualità. I primi investono parte di sé sull’attrazione e attività sessuale, i secondi, al contrario, com’è per l’amicizia, escludono tutto ciò.
    In questo senso, l’essenziale della sessualità non è la genitalità, come la nostra cultura ci porta a credere; né la riproduzione, ossia la spinta arcaica ereditata allo scopo di accrescere la specie. La sessualità rimane umana anche quando questi due aspetti, indispensabili a spiegarne l’evoluzione, dovessero mancare. Al cuore sta invece il compito d’informare tutta la persona così da renderla idonea a intessere legami generativi, ossia cooperativi e creativi a livello sociale.
    La sessualità è una dimensione costitutiva della persona umana per la relazione. Essa, piuttosto che costituirne un aspetto, la coinvolge nella sua totalità, in ogni sua forma, dall’inizio della vita sino alla fine. La sessualità caratterizza l’identità della persona e pervade la sua esperienza sensibile nell’incontro col mondo: ogni suo gesto, il modo di scrivere, di camminare, di pensare o di parlare è influenzato da cosa ha interiorizzato nello sviluppo psicosessuale. In questo senso, la differenza sessuale, cioè dell’essere-uomo e dell’essere-donna, non si limita alla presenza di conformazioni diverse della genitalità, ma si allarga al loro specifico modo d’essere al mondo.
    Il prototipo delle relazioni dal punto di vista della sessualità è il legame tra due innamorati, una donna e un uomo che, dopo aver stabilizzato il loro rapporto, decidono di avere un figlio e di prendersi cura di lui. In esso la sessualità, implicata nella sua massima estensione, realizza alla lettera il mandato a essa affidato, inscritto nel bagaglio genetico della specie. Si tratta di uno scambio contraddistinto da tutte le caratteristiche della relazionalità: intento a promuovere e sviluppare la creazione di un legame stabile (re-ligio) che, a partire dal riconoscimento empatico delle diversità dei partner, dia luogo a un’intesa collaborativa e progettuale (re-fero) in grado di mettere al mondo e crescere un figlio per il bene comune (effetto emergente).
    Nel raggiungimento di questi obiettivi i due partner sono motivati dalla sessualità, non solo al momento dell’accoppiamento, ma anche quando cooperano insieme alla realizzazione dell’intero progetto generativo. In ogni sua fase la sessualità, con le sue qualità affettive ed etiche, sostiene la generatività della coppia: nella sua formazione (orientando l’attrazione, l’innamoramento e la reciproca scelta dei partner), nella stabilizzazione del legame (contribuendo a creare la coesione tra i due), nella procreazione (generando il desiderio di mettere al mondo un figlio, favorendo l’accoppiamento, l’attesa e la nascita del piccolo) e nella genitorialità (sostenendo la sua cura ed educazione sino a che non è capace d'inserirsi in modo autonomo all’interno della società). Si parla a questo proposito di generatività parentale, una forma di creatività al servizio dello sviluppo e formazione delle nuove generazioni.
    Dal punto di vista affettivo la sessualità innesca un interesse amoroso tra i partner. Attraverso i suoi gesti di vicinanza e tenerezza permette loro di sentirsi reciprocamente riconosciuti in modo da accrescerne la coesione e dare vita a una storia comune. A questo scopo affettivo è innegabile che concorrano anche la valenza ludica e la sensazione di piacere che accompagnano l’attività sessuale. Si tratta, in altre parole, di un gioco che serve a rilassare e distaccare i partner dallo stress degli impegni e compiti quotidiani incrementandone il livello d’intimità e complicità; così le qualità affettive della sessualità collaborano a mantenere unita la coppia e a far sì che i due partner maturino il desiderio di divenire genitori.
    Dal punto di vista etico la sessualità orienta i partner a dare vita a un legame sociale che comporta assunzioni di responsabilità nel rispetto delle proprie e altrui caratteristiche e aspettative: nel conoscersi, verificarsi e scegliersi, nel collaborare per costruire insieme una storia, nel prendersi cura l’uno dell’altro, nel difendere il comune spazio d’intimità, nel pensare di accogliere con dedizione la vita di un figlio, assumendone l'impegno e promuovendo gradualmente il suo inserimento nella comunità fino a lasciarlo andare, una volta più autonomo, alla realizzazione del suo progetto.
    Inoltre, nella prospettiva da noi scelta, la sessualità di coppia manifesta il rapporto interpersonale esistente tra i partner e viceversa. In altre parole, si può guardare al sesso in termini di relazione, su ciò che lo stesso mette in evidenza dello scambio quotidiano esistente tra i partner (e tra questi e il contesto sociale in cui sono inseriti), e pensare alla relazione in termini di sesso, su come il rapporto tra i partner (e tra questi e gli altri membri della comunità) aiuta a spiegare quanto accade nell’intimità sessuale. In questo modo, la competenza relazionale prepara, predispone e facilita quella sessuale mentre quest’ultima contribuisce ad accrescere il legame di coppia. Così, quando il sesso diviene un problema, il terapeuta relazionale si prefigge il compito di aiutare i partner a connettere la loro sessualità con gli altri aspetti della vita di coppia e sociale in modo da ridefinirli congiuntamente.

    La sessualità delle persone nubili e celibi
    Oltre alle relazioni sessuali vi sono quelle sessuate che, come abbiamo detto, al contrario delle prime, sono contraddistinte dall’assenza di attività sessuale tra i partner. In questo caso la relazione è vista sotto l’aspetto della condizione sessuata delle persone che stanno in relazione, sia essa maschile o femminile. Si tratta di una vasta gamma di rapporti interpersonali, sia tra persone dello stesso che di sesso diverso. Anche chi condivide una relazione sessuale (chi è in coppia), accanto a questa, vive rapporti interpersonali sessuati.
    Le persone nubili e celibi, che per condizione o scelta non vivono una relazione sessuale, sono totalmente immerse in relazioni sessuate. Pure loro possono esprimere la sessualità in legami generativi sessuati attraverso i quali prendersi cura dei figli altrui o dei bisogni della comunità sociale. Infatti la sessualità motiva anche queste relazioni, in modo simile a quelle sessuali, alla formazione di legami empatici (re-ligio), di reciproco riconoscimento, collaborativi e progettuali (re-fero), in grado di dar vita a beni relazionali (effetto emergente) a beneficio dell’intera comunità. A questo proposito si parla di generatività sociale, una forma di creatività al servizio delle nuove generazioni altrettanto importante come la generatività dei genitori.
    Oltre a ciò, anche i celibi volontari, dotati di una mente relazionale sessualmente informata, sono naturalmente sollecitati a intraprendere e perseguire i fini delle relazioni sessuali al pari degli amanti. Per cui, visto il loro proposito di non avere rapporti sessuali, è lecito domandarsi se sia possibile sottrarsi ad una spinta così potente com’è quella sessuale, ereditata a livello filogenetico. Vedremo come, non essendo la genitalità e la riproduzione caratteristiche essenziali della sessualità, la sfida di nubili e celibi si gioca interamente sulla loro capacità di vivere relazioni sessuate generative, queste sì frutto indispensabile di una sessualità matura, pienamente umana.
    Nel confronto con la coppia di amanti, da un punto di vista affettivo, anche gli interlocutori delle relazioni sessuate devono essere in grado di costruire una storia e un progetto comune, di stabilire un’intesa collaborativa, capace d’integrare le proprie diversità esprimendo una generatività sociale; mentre, dalla prospettiva etica, occorre che assumano responsabilità nei riguardi di sé e dell’altra persona, della relazione e dell’impegno che insieme portano avanti.
    Dunque la priorità della sessualità, a prescindere se si è in coppia, nubile o celibe, non corrisponde all’esercizio dell’attività genitale ma ad avere con gli altri relazioni significative. Anche se la cultura in cui siamo sopravvaluta l’importanza della genitalità, l’esperienza comune verificata da alcune ricerche (Impett e Muise, 2018) attesta che il fattore principale per essere soddisfatti di sé e della propria vita è l’avere delle relazioni intime di sostegno piuttosto che il piacere legato all’attività sessuale.
    Alla fine, se escludiamo la genitalità e la possibilità riproduttiva, le relazioni sessuate non sono così differenti da quelle sessuali: entrambe si poggiano sulla competenza che la sessualità offre alla persona di realizzare legami generativi. A una coppia d’innamorati essa permette di fare all’amore, dimensione non riducibile ad avere un rapporto coitale e a riprodursi, ma al condividere con la persona amata sensazioni, sentimenti e significati tanto da intessere una reciproca appartenenza e progettualità. A nubili e celibi, la stessa sessualità, nello scambio interpersonale, consente di perseguire un amore, quello tipico degli amici, che non implica l’attività sessuale, ma il prendersi cura dell’altro e del legame in modo da conseguire comuni obiettivi prosociali. Per cui, alla fine, anche nubili e celibi hanno la possibilità di esprimere la sessualità, pur non facendo sesso.
    Al di là di ogni idealizzazione va comunque detto che tutte le relazioni, siano esse sessuali e sessuate, portano in sé una quota di generatività e de-generatività. Alle qualità affettive ed etiche positive sino a ora sottolineate, ne corrispondono altrettante negative presenti all’interno delle medesime relazioni, che possono dar luogo a una tensione tra le due polarità. In questo senso nessuna relazione è priva di elementi di empatia come di distacco emotivo, di riconoscimento come di misconoscimento, di correttezza come di sopraffazione e, allo stesso tempo, ogni legame può essere luogo di benessere e salute o di sofferenza e patologia. Perché non si giunga a una condizione de-generativa è opportuno avere cura della relazione così da far accrescere le qualità generative a scapito delle altre.

    INDICE

    Introduzione
    1. Una prospettiva relazionale
    2. L’organizzazione del volume

    Primo capitolo: Cos’è la sessualità
    1. Il sesso ai nostri giorni
    2. La sessualità nella storia della specie umana
    3. Lo sviluppo individuale della sessualità
    4. La persona, alla ricerca di relazioni generative
    5. Uno schema riassuntivo
    6. Il celibato a confronto con i significati della sessualità

    Secondo capitolo: Verso la maturità affettivo relazionale
    1. Le differenze individuali dell’attaccamento
    Come accrescere la sicurezza emotiva: esercizi 1 e 2
    2. La competenza emotiva
    Come accrescere la competenza emotiva: esercizi 3, 4 e 5
    L’utilizzo della scrittura autobiografica: esercizio 6
    3. La competenza relazionale
    Come accrescere la competenza relazionale: esercizi 7, 8 e 9

    Terzo capitolo: La cura di sé
    1. Cura di sé, attaccamento e regolazione emotiva
    2. La differenziazione del sé
    3. La mindfulness
    Tecniche di mindfulness: esercizi 10, 11, 12 e 13
    4. La compassione di sé
    Come accrescere la compassione di sé: Esercizio 14
    5. Stress e burnout

    Quarto capitolo: La relazione affettiva con Dio
    1. Attaccamenti multipli
    2. L’attaccamento a Dio
    3. L’influenza del modello di attaccamento infantile sulla relazione con Dio
    4. Atteggiamento religioso e attaccamento infantile
    5. I benefici della fede e di un attaccamento sicuro a Dio sulla salute
    6. Potenzialità di un attaccamento sicuro a Dio sulla maturità affettivo relazionale
    Come accrescere la presenza di Dio nel quotidiano: esercizi 22 e 23

    Quinto capitolo: Il desiderio sessuale
    1. Sesso ed intimità interpersonale
    2. La gestione del desiderio sessuale
    3. Verso un equilibrato desiderio sessuale

    Sesto capitolo: Disturbi del desiderio sessuale
    1. L’anoressia sessuale
    2. La dipendenza sessuale
    3. Il ruolo della pornografia online
    4. La reciprocità tra anoressia e dipendenza sessuale
    5. Itinerario per il riequilibrio del desiderio sessuale

    Conclusione: Il contenimento del desiderio sessuale
    Bibliografia

    © Edizioni San Paolo s.r.l. 2022, per gentile concessione


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