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    L'eredità culturale

    di Dante nell'età

    dell'«uomo planetario»

    Franco Toscani


    Il tema della superbia, più volte ripreso nella Commedia, è qui analizzato soprattutto in alcuni canti del Purgatorio, nei quali Dante insiste particolarmente sulla vanità dell'umana superbia, che fa perdere il senso della eguaglianza e della fraternità fra gli uomini. Le posizioni dell'Alighieri sulle questioni della giustizia, la sua netta opposizione a ogni culto della violenza possono forse consentire di considerarlo come un precursore di quella cultura della pace che, secondo Ernesto Balducci, dovrebbe essere il fondamento di una nuova etica planetaria.


    La «caligine del mondo»

    Come vera e propria festa e compendio dello spirito umano, la Divina Commedia convoca in una possente e mirabile costruzione nel contempo poesia, narrazione, storia, politica, teologia, filosofia, scienza, arte, letteratura, immensa cultura e dottrina, fertile immaginazione, humanitas, tensione morale, virtù civili e quant'altro, elementi e aspetti tra i più disparati che sono tenuti armoniosamente insieme da una straordinaria capacità di canto e di suggestione poetica. Perciò non ha molto senso distinguere rigidamente in Dante la «poesia» dalla «non poesia», come ha fatto un pur grande critico e filosofo come Benedetto Croce ne La poesia di Dante (1921) e altrove [1]. Essere poeti richiede per Dante, oltre che la strenuitas ingenii e l'artis assiduitas, anche l'habitus scientiarum (cfr. De vulgari eloquentia, Il, IV 9). Il punto essenziale consiste proprio in ciò: nel convogliare in altissima poesia e con una prodigiosa varietà di mezzi espressivi l'enorme materiale di memorie e speranze, esperienze e fatti storici, incanti e orrori, piaceri e dolori, virtù e colpe, tensioni terrene e vagheggiamenti celesti di cui tratta la Commedia. Per questi motivi Dante Alighieri non è soltanto il maggiore genio poetico italiano, ma è tuttora potente luce, una delle luci irrinunciabili per l'umanità intera, per l'umanità planetaria di difficile gestazione. Noi qui non potremo approfondire gli aspetti principali del capolavoro dantesco né svolgeremo un discorso storiografico-letterario, ma cercheremo di occuparci soprattutto della «caligine del mondo» nel grande poema, focalizzeremo dunque la nostra attenzione sulla superbia, tema che, nelle nostre intenzioni, ci farà comprendere pienamente una delle ragioni essenziali dell'attualità di Dante e del rinnovato interesse contemporaneo per la sua opera.
    Il tema al centro del nostro discorso emerge già nel primo canto dell'Inferno, allorché Dante non può raggiungere il «dilettoso monte» (cfr. Inf. I 77) che rappresenta la vita virtuosa alla base della felicità umana, perché è ostacolato da tre fiere (il riferimento è qui a Geremia, 5,6) – una lonza (la lussuria), un leone (la superbia), una lupa (la cupidigia) –, le quali rappresentano simbolicamente le tre disposizioni peccaminose che impediscono agli individui una conversione dei cuori e delle coscienze e minano profondamente la vita sociale, civile e politica dei popoli. Il fine etico-politico di redenzione è già qui presente, sia pure soltanto abbozzato. Il leone, simbolo della superbia, «parea che contra me venisse / con la test'alta e con rabbiosa fame, / sí che parea che l'aere ne tremesse» (Inf. I 46-48).
    Altrove l'Alighieri stesso ammette di essere stato molto tentato nella sua vita dalla lussuria e dalla superbia dell'ingegno, non invece dalla cupidigia, che – come impietatis et iniquitatis genitrix (Epistulae XI 14) e inordinatus appetitus cuiuscumque boni temporalis, secondo la definizione scolastica – era per lui alla base della corruzione sociale e politica. Noi qui tenteremo di seguire le indicazioni del poeta per cercar€ ancora una volta di imparare qualcosa da un grande classico, fonte permanente d nuova vita e di nuove possibilità per noi, per il futuro dell'umanità.
    Non pochi studiosi hanno già da tempo giustamente sottolineato l'importanza della dimensione profetica (o profetico-apocalittica) nella Commedia (cfr., ad esempio, Inf I 100-111; Purg. XXXI I I 43-45; Par. IX 139-142; XXII 14-15; XXVII 61-63, 142-148), tema su cui è rinvenibile un'ampia bibliografia [2]il tema al Dal mero lirismo stilnovistico della fase giovanile, che pure ha dato risultati poetici eccellenti, nella Commedia la poesia d Dante si fa più complessivamente impegnata, più pronta a misurarsi col destino dell'uomo e coi problemi dell'umana convivenza e civiltà. L'intento del grande poema – come l'autore stesso chiarisce anche nelle Epistulae (XIII 39-40) – non è tanto o soltanto lirico, contemplativo, speculativo, ma è anche e soprattutto etico-pratico e politico, per superare lo status miseriae e condurre gli uomini alla felicitas. Dante tende a oltrepassare la «selva oscura», come «selva erronea di questa vita» (cfr. Inf. I 1-3 e Convivio, IV, XXIV 12), in vista di una redenzione che vuole essere sia personale, da propri errori e peccati, sia di tutta l'umanità dal suo stato di corruzione, disordine E decadenza. Per ogni essere umano che viene al mondo vi è infatti un campo sempre aperto e problematico di donazione di senso e di azione, come ben sapeva il poeta in versi celeberrimi: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza» (Int.. XXVI 118-120). Come si sa, i classici non valgono e non appartengono soltanto al passato, ma hanno tutto l'avvenire davanti a sé. Dante non ha bisogno di retoriche celebrazioni, ma di essere riletto e rimeditato sia per godere del suo canto sia per procedere meglio nel nostro arduo cammino di umanizzazione. Concentreremo dunque la nostra attenzione soprattutto su alcuni aspetti rilevanti dei canti X, XI, XII, XVII del Purgatorio.

    Il tema della superbia nel Purgatorio

    Nel X canto del Purgatorio alle anime dei superbi è imposta la meditazione dei due opposti dell'umiltà (la virtù) e della superbia (la colpa che si purga), dove l'insistenza dell'autore è particolarmente sulla vanità dell'umana superbia. In Dante è sempre vasto tanto il campo delle colpe e dei vizi umani come la superbia, l'alterigia, l'iracondia, la violenza, la protervia, la megalomania, la vanità, l'orgoglio, la presunzione il disprezzo, la gloria, ecc. quanto il campo delle virtù come l'umiltà, la pietà, l, giustizia, la misericordia, l'amore, la bontà, ecc.
    Dante sottolinea ad esempio la giustizia e la pietà dell'imperatore Traiano, il suo gesto di maxima humiliatio nei confronti del dolore materno di una «vedovella» «miserella (cfr. Purg. X 77, 82, 93), gesto così commentato dal Benvenuto: Certe maxima humiliatio fuit quod altissimus princeps ita inclinaret imperatoriam maiestatem ad audiendam mulierculam plorantem sub superbis signis, in campo martio superbo, inter equites superbos [3]. Ma proprio caratteristiche e qualità umane mirabili come l'umiltà, la mitezza, la cortesia, la gentilezza, la generosità, la pietosa sollecitudine, la bontà vengono considerate dai superbi e dai prepotenti come inequivocabili e vergogno. segni di debolezza. I superbi sono forti, sprezzanti coi deboli e sono deboli, servili coi forti, perciò sono esseri spregevoli e ignobili, come la prepotente consorteria degli Adimari: «L'oltracotata schiatta che s'indraca / dietro a chi fugge, e a chi mostr 'I dente' o ver la borsa, com'agnel si placa» (Par. XVI 115-117. Sulla stirpe degli Adimari e su tutti coloro che sono animati da spirito di sopraffazione e di prepotenza si veda lo sdegno di Dante anche in Inf. VIII 31-63).
    Nel X canto del Purgatorio, bassorilievi marmorei propongono esempi di umiltà esalta e di superbia punita. Il contrasto e la tensione fra l'antica superbia e l'umiltà riscoperta sono avvertiti con una forte e drammatica intensità. I superbi sono una schiera di anime procedenti lentamente e faticosamente, curve, sotto il peso di enormi macigni. I volti, un tempo superbi e altezzosi, ora sono costretti a chinarsi verso terra; i superbi si piegano e contorcono, la loro grandezza falsa e proterva è scomparsa completamente.
    Dante insiste sulla stupida vanità della superbia umana, dei «superbi cristian, miseri lassi», infelici dimentichi della miseria comune a tutti gli uomini, ciechi di mente («de la vista de la mente infermi», cfr. Purg. X 121e122), che ripongono la loro fiducia in cose effimere e vane, illudendosi di salire in alto, ma ripiombando in realtà nella disgrazia. Anche altrove il Nostro conferma la sua critica più volte ribadita del comportamento reale dei cristiani e l'esigenza pressante di un ritorno alla pratica evangelica genuina: «Siate, Cristiani, a muovervi più gravi: / non siate come penna ad ogne vento, / e non crediate ch'ogne acqua vi lavi. / Avete il novo e 'I vecchio Testamento, / e 'I pastor de la Chiesa che vi guida: / questo vi basti a vostro salvamento. / Se mala cupidigia altro vi grida, / uomini siate, e non pecore matte, / sì che 'I Giudeo di voi tra voi non rida! / Non fate com'agnel che lascia il latte / de la sua madre, e semplice e lascivo / seco medesmo a suo piacer combatte!» (Par. V 73-84) [4].
    Riferendosi al paragone dell'uomo col verme, un tema biblico e patristico presente anche in Agostino d'Ippona (il quale rileva in un importante trattato esegetico del 416, in lohannis Evangelium, I 13: Omnes homines de carne nascentes quid sunt nisi vermes?), Dante scrive: «non v'accorgete voi che noi siam vermi / nati a formar l'angelica farfalla, / che vola a la giustizia sanza schermi?» (Purg. X 124-126). Il poeta sottolinea che l'anima umana, come «angelica farfalla» (Purg. X 125), si ritrova nuda di fronte alla giustizia divina, rispetto alla quale non può sperare alcun vantaggio da tutti quei beni terreni – come le ricchezze, il potere, gli onori, la fama – che garantiscono solo una gloria vana e sono transitori; soltanto sulla terra essi sono ragione di orgoglio e danno l'illusione della potenza. Non vi è invece alcuna ragione di insuperbire, dato che siamo «entomata in difetto» (cfr. Purg. X 128), ossia come insetti imperfetti, come bruchi che non hanno ancora compiuto il loro sviluppo.
    Grande è la pena e la sofferenza dei superbi («qual più pazienza avea ne li atti, / piangendo parea dicer: 'Più non posso'», cfr. Purg. X 138-139), perché grave è la loro colpa, grande il loro peccato, con cui vengono letteralmente rovinate le vite degli individui e va drammaticamente sprecato il senso stesso della vita umana.
    Grande è la «caligine del mondo» (cfr. Purg. XI 30) provocata dalla superbia, caligine perché offusca la mente dei mortali quando intendono fare dell'uomo l'Onnipotente, qualcosa di simile a un Dio. La nebbia del peccato e del male offusca la purezza delle anime e oscura l'orizzonte della nostra esistenza.
    Già per il pensatore presocratico Eraclito di Efeso la ybris (superbia, tracotanza, dismisura) fu il peggiore dei mali umani, in quanto misconoscimento del senso della misura e trasgressione insensata/rovinosa dei limiti posti agli uomini. Infatti egli scrive nel frammento 43 (Diels-Kranz): «Bisogna spegnere la superbia ancor più di un incendio») [5].

    Chi non pensa alla «comune madre»

    Nell'XI canto del Purgatorio vengono riportati tre esempi di superbia: la superbia nobiliare, incarnata da Umberto degli Aldobrandeschi di Santafiora, antica casa feudale e già potenti signori della Maremma senese; la superbia dell'ingegno e dell'arte, attraverso la figura di Oderisi da Gubbio, celebre miniatore; la superbia del potere e del dominio politico, qui rappresentata da Provenzano Salvani, demagogo e tiranno di Siena. Il superbo è chi – come Umberto degli Aldobrandeschi, conte di Santafiora non pensa alla «comune madre» (cfr. Purg. XI 63), la terra, che tutti ci rende fratelli ed eguali. Tutti siamo nati infatti dalla terra e da una donna, per cui rispetto alla nascita non vi è proprio alcuna differenza tra un re e un contadino.
    La superbia perde quindi il senso della eguaglianza e della fraternità ed è una perdita terribile, questo venir meno dell'umanità dell'uomo, della nostra umiltà.
    Umiltà, umile vengono da humus (terra), da cui deriva pure la parola uomo. L'uomo è il mortale terrestre, l'abitante della terra che alla terra ritornerà. La terra è per lui origine, provenienza, meta e destino, nonostante tutto l'enorme dispiegamento della sua illimitata volontà di potenza e di dominio, nonostante tutti i suoi odierni sforzi di militarizzare/signoreggiare gli altri pianeti e gli spazi celesti.
    Oggi la superbia umana è massimamente pericolosa sia nel suo considerare l'uomo come mero mezzo impiegabile/manipolabile sia nel suo ridurre la natura a mera risorsa da sfruttare illimitatamente.
    Siamo ben oltre ciò che scriveva Ludwig Feuerbach nel XIX secolo sull'umana superbia, riferendo il suo discorso essenzialmente a un certo tipo di imperante, intollerante e reazionario cristianesimo ottocentesco: «Se definite umana superbia la convinzione che l'uomo sia lo scopo della natura [Zweck der Natur], dovete definire come umana superbia [menschliche Hochmut] anche la fede in un creatore della natura [Glaube an einen Schöpfer der Natur]. Solo la luce che brilla per l'uomo è la luce della teologia, solo la luce che esiste solo per l'essere veggente presuppone anche un essere veggente [ein sehendes Wesen] come propria causa [Ursache]» [6]. Sia ben chiaro però che il Dio di Dante e di molti credenti del passato e del presente non solo non ha nulla a che fare con la superbia e con la polemica anti-teologica di Feuerbach, ma al contrario – lo vedremo meglio più avanti – vuole essere l'antidoto più efficace contro la superbia, come amore e fonte di luce autentica.
    Oggi il massimo pericolo per noi è la nostra stessa illimitata volontà di potenza e di dominio. Proprio dell'uomo è invece il senso della terra – sembra dirci Dante –, l'aderenza alla terra, con umiltà e dignità. Umiltà non significa passività, può congiungersi col coraggio e con la dignità, con la freschezza dell'iniziativa umana; sorge dalla consapevolezza profonda della condizione umana, dei nostri limiti e del nostro destino mortale. Non si può non essere umili quando scorgiamo l'abisso della condizione umana e la profondità della nostra fragilità.
    La grande poesia e il grande pensiero ci insegnano a rifuggire ogni megalomania, a essere insieme umili, modesti e coraggiosi, arditi nell'aspro e incerto cammino dell'umanizzazione.
    Possiamo considerare in forte continuità ideale con le posizioni di Dante contro la superbia il «pensiero poetante» [7] di Giacomo Leopardi ne La ginestra o il fiore del deserto (1836), allorché quest'ultimo ironizza sulle illusioni delle «magnifiche sorti e progressive» (v. 51) e sul «fetido orgoglio» (v. 102) del proprio «secol superbo e sciocco» (v. 53). Leopardi aveva già parlato nella lirica II pensiero dominante (composta con ogni probabilità tra il 1830 e il 1833) del proprio secolo come «di questa età superba, / che di vote speranze si nutrica, / vaga di ciance, e di virtù nemica» (vv. 59-61) [8]. Col loro canto di forza, evocazione e suggestione inesauribili, col loro straordinario «pensiero poetante», qui Dante e Leopardi, le vette dell'intera storia della poesia italiana, tra i pilastri della letteratura europea e mondiale d'ogni tempo, indicano fruttuosamente la via da seguire, ma sapremo ancora ascoltare davvero le loro parole e accogliere profondamente in noi, interiorizzare le loro indicazioni?

    La superbia e il pudore di Dante

    Dante non si limita a deprecare la superbia, non la contempla dall'esterno, non è estraneo ad essa, ma si sente egli stesso parte in causa, coinvolto in questo peccato.
    La superbia dell'ingegno e dell'arte, il desiderio di primeggiare che si manifesta in Oderisi da Gubbio concerne direttamente anche il grande autore della Commedia, che accenna in vari luoghi del poema alla sua personale superbia; «ascoltando chinai in giù la faccia» (Purg. XI 73), dice infatti, avvertendosi anch'egli – come Oderisi colpevole del medesimo peccato, «per lo gran disio / de l'eccellenza ove mio core intese» (Purg. XI 86-87). Colpisce qui il pudore di Dante, che si manifesta pure in non poche altre occasioni nel poema. Anche ai superbi è però sempre data la possibilità del pentimento, del sincero ravvedimento, del riconoscimento pieno delle proprie colpe e dei propri errori. Ed è questo il percorso a cui Dante invita tutti i mortali, nessuno dei quali è esente dai mali e dalle negligenze, ma a cui è sempre aperta la possibilità di un riscatto, di una ripresa, di un rinnovato processo di umanizzazione. All'inizio del canto XI (Purg. XI 1-24), la preghiera corale dei superbi, come ampia parafrasi del Pater noster, non è infatti solo in lode e a invocazione di Dio (che sta nei cieli perché «da nulla è limitato», come leggiamo nel Convivio, IV, IX 3 e perché «tutto circunscrive», Par. XIV 30) ma è finalizzata alla riscoperta dell'umiltà e alla riconciliazione col prossimo. La preghiera, come «buona ramogna», sembra avere il senso di un augurio di buona felicità nel viaggio ed è rivolta esplicitamente a chi rimane sulla terra bisognoso di elevazione (cfr. Purg. XI 22-25).
    Nel canto XI l'autore riflette poeticamente da par suo sulla profonda vanitas della fama umana, il «mondan romore»: «Non è il mondan romore altro ch'un fiato / di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi / e muta nome perché muta lato. / Che voce avrai tu più, se vecchia scindi / da te la carne, che se fossi morto / anzi che tu lasciassi il 'pappo' e il 'dindi', / pria che passin mill'anni? ch'è più corto / spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia / al cerchio che più tardi in cielo è torto» (Purg. XI 100-108).
    La riflessione dantesca sulla brevitas, fragilità e finitezza della vita umana fa tutt'uno con un acuto senso del tempo, del suo carattere abissale e vertiginoso. Rispetto all'abisso e alla vertigine del tempo, di fronte all'«etterno», rispetto al tempo che il cielo delle stelle fisse impiega per compiere la sua rivoluzione, le credenze individuali nell'immortalità della fama umana sono davvero ben misera cosa, un nulla; sono come il verde dell'erba, che dura ben poco: «La vostra nominanza è color d'erba, / che viene e va, e quei la discolora / per cui ella esce de la terra acerba» (Purg. XI 115-117).
    Come il sole fa crescere e fiorire l'erba per poi farla rapidamente appassire e inaridire, così il tempo partorisce la fama degli uomini e altrettanto rapidamente la cancella.
    L'immagine è tratta da un grande tema biblico e dal linguaggio delle Scritture. Si pensi soprattutto a Isaia, 40, 6-7: «Ogni uomo è come l'erba / e tutta la sua grazia è come un fiore del campo. / Secca l'erba, il fiore appassisce / quando soffia su di essi il vento del Signore. /Veramente il popolo è come l'erba»; a Salmi, 90, 5-6: «Tu li sommergi: / sono come un sogno al mattino, / come l'erba che germoglia, / alla sera è falciata e secca»; alla Lettera di Giacomo, 1, 9-11: «Il fratello di umili condizioni sia fiero di essere innalzato, il ricco, invece, di essere abbassato, perché come fiore d'erba passerà. Si leva il sole col suo ardore e fa seccare l'erba e il suo fiore cade, e la bellezza del suo aspetto svanisce. Così anche il ricco nelle sue imprese appassirà».
    Tale consapevolezza, tale discorso vero e lucido non è in Dante sterilmente nichilistico e non induce alla rassegnazione, ma invita lo stesso poeta – come tutti – alla liberazione dal «gran tumor» della superbia, dalla «grande gonfiezza di ventosa gloria» (come dice ottimamente nel suo commento Alessandro Vellutello [9]) e a ritrovare «bona umiltà», una giusta umiltà (cfr. Purg. XI 118-119). In precedenza abbiamo fatto già riferimento al personale travaglio di Dante in tema di superbia (circa la superbia dell'ingegno e del valore, nel suo caso particolare del letterato e del dotto); ebbene, questo coinvolgimento personale così intensamente avvertito, questa difficile resa dei conti con la superbia determinata dall'«altezza d'ingegno» e dalla «nobiltà di sangue», questa forte e sofferta tensione autocritica (cfr. anche Purg. XIII 136-138) non fanno che rendere ancora più valida e preziosa la testimonianza dell'autore della Commedia su questo nodo decisivo.
    In generale, nella visione di Dante, la giustizia e la misericordia divine sono pronte a salvare quegli uomini che, con un pentimento sincero e con l'avvio di un'opera buona, rinnovano praticamente il senso della loro vita.

    Dante e la cultura della pace

    Vari studiosi hanno parlato di un «trittico» politico dantesco, composto dai canti sesti delle tre cantiche, a cui ora ci riferiremo brevemente, in cui il tema della superbia del potere e del dominio politico è di grande rilievo. A questo proposito, soffermandoci sul canto XI del Purgatorio, abbiamo già accennato alla figura di Provenzano Salvani, il tiranno senese di cui, una volta sconfitto e ucciso, si perse ben presto la memoria, nonostante i suoi ambiziosi progetti di dominio.
    Nel canto VI dell'Inferno l'interlocuzione del fiorentino Ciacco, soprattutto con la sue profezia, consente a Dante – in un incontro caratterizzato da nostalgia e malinconie – di esprimersi con grande amarezza e disincanto sulla situazione etico-politica di Firenze e sulle sue gravi discordie civili, giungendo a dubitare se vi sia ancora un cittadino giusto nella sua città (cfr. Inf. VI 58-75). A Firenze invidia e superbia, smani, di dominio e cupidigia concernono tutti i ceti e le fazioni, caratterizzano l'attività della borghesia mercantile, sono ampiamente diffuse nel popolo e nei potenti.
    Le cause di tali discordie intestine? Per Dante sono essenzialmente tre: «superbia, invidia e avarizia sono / le tre faville c'hanno i cuori accesi» Int. VI 74-75. Cfr. anche Inf. XV 68: «gent'è avara, invidiosa e superba»). L'amara esperienza dell'esilio e della discriminazione politica personalmente sofferta sulla pelle e il desolante spettacolo a cui assistette delle feroci lotte intestine e delle esasperate divisioni politiche riguardanti l'intero Paese conferiscono alle parole del poeta un pathos del tutto peculiare.
    La trestizia che l'Alighieri soÎ prova (cfr. Vita nuova XXX 1; Inferno XXIX 58; Purgatorio XXII56) è legata a questa sua situazione personale e indica dolore, contrizione per il peccato e per il male, amara consapevolezza della debolezza e fragilità della natura umana, pure cognitio et recusatio mali (come dice Tommaso nella Summa theologiae I, Il 39). Il canto VI del Purgatorio verte sull'Italia, ma poi torna sul tasto dolente di Firenze. In questo canto incontriamo la figura del celebre trovatore del XIII secolo Sordello da Goito; l'abbraccio affettuoso tra i due mantovani Virgilio e Sordello dà l'occasione a Dante di una celebre invettiva che inizia così: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave senza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello!» (Purg. VI 76-78) [10].
    Si tratta qui dell'infelice, confusa e dilaniata Italia, «indomita e selvaggia» (Purg. VI 97), terra senza pace e senza giustizia, in cui vengono a mancare il freno delle leggi e il senso della misura (cfr. Inf. VII 40-42), i vari poteri tendono a prevaricare e a confondersi (la confusione è qui soprattutto tra potere temporale e potere spirituale), forte e inesauribile è la brama di dominio politico e di ricchezze.
    È soprattutto disastrosa la confusione/indistinzione tra i due poteri della forza politica e dell'autorità ecclesiastica. Nella visione politica dantesca, il disordine è dovuto anche all'oblio e all'indistinzione dei compiti spettanti alle due istituzioni-guida fondamentali dell'umanità: l'Impero e il Papato. I «due soli» del potere politico e del pontificato dovrebbero invece sempre mantenere ciascuno la propria autonomia e separati i rispettivi ambiti di attività, l'uno mostrando la via per condurre la vita terrena, l'altro indicando la via per aspirare ai beni spirituali e per giungere a Dio (cfr. Purg. XVI 97-114).
    La realtà del Paese è ben diversa ed è assai triste: «le città d'Italia tutte piene / son di tiranni» (Purg. VI 124-125). Lacerata da lotte intestine coinvolgenti imperatori ed ecclesiastici, comuni e signorie, fazioni cittadine e famiglie gentilizie, caratterizzata dall'assenza dell'autorità imperiale, l'Italia è diventata un nido di corruzione e di decadenza, di lotte civili e politiche insensate e feroci, restia alle leggi e alla giustizia, travolta dalle passioni sfrenate e sprofondata nel disordine. Ciò che nel canto VI del Purgatorio, riprendendo il discorso già avviato nel canto VI dell'Inferno, l'autore dice con amaro sarcasmo della sua città, Firenze, può essere esteso all'Italia intera. Oggi noi possiamo osservare quanto segue: quella che Dante chiama amaramente «misera patria mia» (Convivio IV, XXVII 11) è per noi il mondo intero, ridotto a un pianeta malato, le cui ferite sono gravissime e forse irrimediabili.
    Nel canto XV del Paradiso l'anima di Cacciaguida, trisavolo di Dante, intesse le lodi della Firenze antica, città che «stava in pace, sobria e pudica» (Par. XV 99), «non v'era giunto ancor Sardanapalo / a mostrar ciò che 'n camera si pote» (Par. XV 107-108); v'era una Firenze, insomma, di costumi ancora incorrotti e moderati, che qui il poeta vagheggia e a cui si richiama accorato. Non cesserà mai di farlo, sino all'ultimo. Il discorso politico dantesco aggiunge un altro importante tassello nel canto VI del Paradiso, dove il poeta, speranzoso, eleva il suo canto all'impero, portatore di pace e di ordine; qui è protagonista Giustiniano, che tenne l'impero di Bisanzio nel VI secolo d.C. e lasciò l'eredità inestimabile del Corpus iuris civilis, la grande compilazione e definitiva sistemazione, da lui promossa, del diritto romano, le cui leggi sono omni supervacua similitudine et iniquissima discordia absolutae («liberate dalle ripetizioni superflue e dalle perniciose contraddizioni»), come si legge nel Decreto che precede il Corpus iuris. Dante fa di Giustiniano il tipo ideale dell'imperatore, capace di esercitare il potere temporale nel pieno accordo e nell'unità-distinzione col magistero spirituale ecclesiastico. Con la sua attenzione rigorosa all'assetto pacifico della civiltà e al riordinamento giuridico, Giustiniano indica secondo l'Alighieri il compito essenziale della monarchia, vale a dire l'instaurazione della giustizia come fondamento dell'ordine della società umana.
    Come esempio di buona amministrazione politica, alla fine del canto VI del Paradiso Dante cita il caso di Romeo da Villanova («luce la luce di Romeo, di cui / fu l'ovra grande e bella mal gradita», Par. VI 128-129) che, dopo aver ben operato come ministro di Raimondo Berengario IV, conte di Provenza, si offese per le accuse di malgoverno ingiustamente rivoltegli da cortigiani invidiosi, si dimise dalla carica e visse poi come mendicante. La figura di Romeo, «persona umile e peregrina» (Par. VI 135), qui risplende ed è emblematica della solitudine dell'uomo retto e giusto, calunniato e perseguitato sulla terra, che sopporta le sue tribolazioni e le ingiustizie subite nella coscienza della propria rettitudine e nell'affidamento al provvidenziale riconoscimento divino. Ma chi agisce male e danneggia gli altri, non sa cosa sia la vita buona, non conosce il buon cammino dell'umanità né la felicità autentica: «mal cammina / qua si fa danno del ben fare altrui» (Par. VI 131-132). Una persona umile e giusta come Romeo, con la sua dignità e forza d'animo, viene qui indicata dal poeta come massimo esempio e testimonianza di umanità.
    Concludiamo questa parte proponendo un'interpretazione che non ci sembra azzardata e che speriamo sia ampiamente condivisibile. Le posizioni di Dante sulle questioni della pace e della giustizia, l'anelito alla fraternità e all'eguaglianza, la sua netta opposizione alle lotte civili insensate e fratricide, alla cultura della guerra e a ogni culto della violenza consentono di considerarlo come un antesignano, un vero e proprio precursore di quella cultura della pace che, secondo il disegno utopico-concreto di Ernesto Balducci, dovrebbe essere il fondamento di una nuova etica planetaria, della civiltà dell'uomo planetario [11].

    I poeti e l'amore per il mondo

    Come si sa, la classificazione delle anime nel Purgatorio non si basa, come quella dei dannati nell'Inferno, sulle colpe effettivamente commesse, ma sulle tendenze al peccato. Tutto parte per Dante dall'amore inteso come principio di ogni virtù e di ogni vizio. Soffermiamoci dunque brevemente sulla dottrina dell'amore così come viene esposta soprattutto nella seconda parte del canto XVII (vv. 76-139 in particolare) del Purgatorio, in cui l'angelo della pace invita ad amarci secondo l'insegnamento evangelico, esortando a fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi (cfr. Mc 12,31; Mt 22,39). Mentre l'angelo della pace, con il soffio della sua ala, cancella dalla fronte di Dante il terzo segno del peccato, dice anche: «Beati/pacifici, che son sanz'ira mala!» Purg. XVII 68-69). Oltre a richiamare la beatitudine evangelica (cfr. Mt 5,9), qui come altrove il poeta si rifà ampiamente pure alla Scolastica medioevale, in particolare alla Summa theologiae di Tommaso d'Aquino (II, Il, q. CLVIII, 1-3), che distingue tra ira mala, irragionevole, deprecabile e ira bona, per zelum, indignazione buona, sdegno ispirato dallo zelo del bene e della giustizia (cfr. anche Int.. VIII 43-45).
    L'attenzione di Dante è tutta rivolta al discorso fondativo sull'amore, ancora una volta col riferimento fondamentale alla Summa theologiae. Come sappiamo, dal punto di vista teologico e filosofico l'insegnamento della Scolastica e in particolare quello di Tommaso d'Aquino è centrale in Dante.
    Ora, secondo questo discorso, sia Dio sia tutte le creature sono mossi da amore. Dio, il «primo ben» (Purg. XVII 97) al cui cospetto s'adeguano perfettamente l'affetto e il senno (cfr. Par. XV 73-78), è essenzialmente amore e così pure tutte le creature sono mosse da un qualche amore. Nella visione di Dio si accende l'amore, frutto della beatitudine (cfr. Par. XXVIII 109-111 e Par. XIV 41).
    Nel momento in cui la mente del poeta viene «percossa» dalla folgorazione («fulgore») della rivelazione del mistero divino (cfr. Par. XXXIII 140-141), con tutto il suo affetto e senno, amore e intelligenza, volontà e ansia di sapere egli s'innalza alla condizione degli spiriti beati [12].
    Non dimentichiamo mai che Dante è costantemente rivolto al cielo, a Dio, al «fine di tutt'i disii» (Par. XXXIII 46. Cfr. anche Tommaso, Summa theologiae, Il, Il, q. CXXII, 2 e q. CLXXXIV, 1, dove Dio è definito ultimus finis humanae vitae), all'«amor che move il sole e l'altre stelle» (Par. XXXIII 145) e, nel contempo, è sempre attento e tratta concretamente di ciò che accade sulla terra. L'amore può essere di due tipi, «naturale o d'animo» (ex animo, cfr. Purg. XVII 91-93 e Tommaso, Summa theologiae, I, q. LX 1).
    L'amore naturale o istintivo, innato, tende al suo fine ed è sempre giusto, ma l'amore «d'animo» (o voluto, di elezione), in cui intervengono intelligenza e volontà dell'agente, può errare «per malo obietto» (se è rivolto a una cosa cattiva) o per «troppo di vigore» (se è rivolto a una cosa buona con troppa intensità) o per «poco di vigore» (se è rivolto a una cosa buona con troppa tiepidezza e negligenza). L'amore d'elezione «per malo obietto» conduce a desiderare il male del prossimo attraverso la superbia, l'invidia e l'ira; quello per «poco di vigore» o «lento» (cfr. Purg. XVII 130) è amor defectivus boni summi (scarso amore del sommo bene, come dice Benvenuto nel suo commento già citato) ed è l'accidia; quello «per troppo di vigore» ama smisuratamente i beni terreni tramite l'avarizia, la gola e la lussuria. In tutti questi casi la creatura agisce contro il suo «Fattore», Dio, il «primo ben» principio d'amore (cfr. Purg. XVII 91-102).
    Superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria sono, nell'ottica dantesca, le sette forme fondamentali di inclinazione al peccato e si purificano nei sette gironi del Purgatorio. Superbia, invidia e ira sono punite nei tre primi gironi di questa cantica. La superbia viene così ottimamente definita nella Summa theologiae di Tommaso (II, Il, q. CLXII 3): superbia dicitur esse amor propriae excellentiae, in quantum ex amore causatur inordinata praesumptio alios superandi («si chiama superbia l'amore della propria eccellenza, in quanto da esso amore deriva una smodata presunzione di superare gli altri»).
    Nel canto XI (vv. 86-87) del Purgatorio, Dante aveva già definito la superbia «lo gran disio / de l'eccellenza ove mio core intese»; nel canto XVII (vv. 115-117) della medesima cantica egli conferma quanto detto in precedenza, precisando sul superbo: «È chi per esser suo vicin soppresso / spera eccellenza e sol per questo brama / ch'el sia di sua grandezza in basso messo». Il superbo, dunque, vuole e spera di eccellere abbassando e danneggiando gli altri.
    L'invidioso, invece, si affligge dell'eccellenza altrui (per Tommaso l'invidia è tristitia de bonis alicuius, in quantum alter excedit ipsum in bonis, «tristezza del bene altrui, in quanto un altro lo supera nel bene», cfr. Summa theologiae II, Il, q. XXXVI 1-3): «è chi podere, grazia, onore e fama / teme di perder perch'altri sormonti, / onde s'attrista sí che 'I contrario ama» (Purg. XVII 118-120).
    L'iracondo è poi colui che è pieno di risentimento, avido di vendetta e incapace di autocontrollo: «è chi per ingiuria par ch'aonti, / sí che si fa della vendetta ghiotto, e tal convien che 'I male altrui impronti» (Purg. XVII 121-123. Sull'ira abbiamo già riferito del pensiero di Tommaso in quella mirabile opera che è la Summa theologiae).
    Per sfuggire questi e altri mali, solo ispirandosi alla «buona essenza» divina, «d'ogne ben frutto e radice» (Purg. XVII 134-135) – soltanto Dio infatti possiede ogni perfezione secondo la propria essenza, come dice ancora Tommaso nella Summa theologiae (I, q. VI 3) –, gli uomini potranno amare e godere con misura dei beni mondani.
    Nel canto XXIV del Purgatorio, a proposito del Dolce stil novo, scrive Dante: «I' mi son un, che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch'e' ditta dentro vo significando» (Purg. XXIV 52-54). Qui è ('«Amor», dunque, il «dittator» (Purg. XXIV 59) del cuore del poeta. Non è forse l'amore dell'umanità e del mondo che spinge i poeti e i pensatori a essere wesentlich gli scrivani, i trascrittori del dettato di questo amore? Si tratta qui di un amore del tutto peculiare, che sorge da una grande conversione dei cuori e delle coscienze, dalla presa di distanza da ogni meschinità e grettezza, da un profondo rinnovamento interiore, dalla tensione a una rigenerazione morale.

    Il sorriso di Virgilio e il cammino più leggero

    Spoglio del «gran tumor» (Purg. XI 119) della vana gonfiezza, nel canto XII del Purgatorio il poeta rimane umile e privo di orgoglio, coi «pensieri (...) chinati e scemi» (Purg. XII 8-9), più leggero (cfr. Purg. XII 12), pronto con Virgilio («colui che sempre innanzi atteso / andava», Purg. XII 76-77) a riprendere il cammino e ad accogliere l'invito ri\mito dall'angelo dell'umiltà alla «gente umana, per volar sú nata» (Purg. XII 95), capace di liberarsi dal peso della superbia, radice d'ogni colpa. I versi 70 ss. del canto XII del Purgatorio riprendono con un tono sarcastico l'apostrofe contro i superbi di Purgatorio X 121 ss.. Così commenta Natalino Sapegno il percorso compiuto dall'autore della Commedia sino al citato canto XII della seconda cantica: «Da questa complessa vicenda di drammatiche rievocazioni e di intense meditazioni, l'animo di Dante esce alla fine umiliato e leggero, spoglio di terrestri ambizioni, consapevole della sua pochezza, timido e arrendevole come quello di un bambino. E il motivo (...) si rende esplicito nella scena di stupore fanciullesco, appena intonata a una lieve comicità, con cui questo canto, e tutto l'episodio, si conclude» [13].
    In questo canto (Purg. XII 110) viene esplicitamente menzionato e cantato il detto di Gesù Beati pauperes spiritu! (Mt 5,3), la prima delle beatitudini evangeliche, la lode degli umili che nel loro cuore sono sgombri dalla vanità delle glorie mondane.
    Così libero dal primo peccato, riattinto il suo cuore umile, sgravato dagli inutili pesi delle vanità terrene, il poeta si sente molto più sollevato, leggero e disposto a un più fruttuoso cammino. La via ai mortali è indicata. A tutti i mortali, credenti e non credenti, sottolineiamo noi oggi. Lo «stupore fanciullesco» del poeta – stupore che è «stordimento d'animo per grandi e maravigliose cose vedere o udire o per alcuno modo sentire» (Convivio IV, XXV 4-5) – fa sì che il canto XII del Purgatorio si concluda con un tocco di lieve umorismo («a che guardando il mio duca sorrise» (Purg. XII 136) e di serenità, ossia col sorriso affettuoso e incoraggiante di Virgilio (il «dolce pedagogo», «'I dolce maestro», Purg. XII 3 e X 47), lieto del buon cammino dantesco.
    La figura di Virgilio – maestro di poesia e di sapienza («de li altri poeti onore e lume»; «colui da cu' io tolsi / lo bello stilo che m'ha fatto onore», cfr. Inf. I 82, 86-87) – riunisce in sé razionalità, autorevolezza, responsabilità, humanitas, sensibilità, affettività e dolcezza. In tutto il suo poema Dante insiste sulla fiducia che gli trasmette Virgilio, sempre attento al cammino (in Purg. VIII 42 si parla delle sue «fidate spalle» e nella medesima cantica XVII 10-11, dei «passi fidi / del mio maestro»).
    Ciò non è affatto trascurabile. La questione della fiducia e il sorriso affettuoso di Virgilio sembrano di poco conto, ma meritano una riflessione più approfondita, sono in realtà essenziali anche per noi oggi, indicano la giusta via nella nostra epoca agitata e tormentata. La crisi dell'umanità contemporanea, prima ancora di essere economica o politica, è infatti e innanzitutto una crisi di fiducia nell'umanità nostra e altrui, nel cammino di umanizzazione verso una degna civiltà planetaria".
    Alla fine del canto XII del Purgatorio il lieve sorriso affettuoso di Virgilio rincuora e incoraggia il viandante, gli infonde fiducia e serenità nel suo lungo e variegato percorso. Esso è ciò di cui tutti abbiamo bisogno anche nel nostro tempo per contrastare la «caligine del mondo», per ritrovare fiducia in noi stessi, negli altri, nelle qualità, capacità ed energie umane, nelle ragioni della convivenza, di una nuova etica e civiltà planetarie. Nel tempo della disgrazia, è importante non perdere di vista ciò che è e ha grazia, bellezza, armonia, garbo, gentilezza, cortesia, finezza. Come restare umani, come contrastare e arginare il disumano sempre vicino a noi e presente in noi stessi, come favorire il percorso di umanizzazione resta il nostro compito decisivo, nonostante tutto il gran parlare odierno di «trans-umano» e di «post-umano». La grazia per la quale proviamo gratitudine e riconoscenza è una benedizione che sorge dalla naturalezza e dalla semplicità.
    La grazia non è però affatto ovvia e scontata, non è già data, va piuttosto coltivata. Occorre un'educazione alla grazia nella libertà, a partire dalla consapevolezza della estrema fragilità della grazia, indisgiungibile dalla fragilità costitutiva della nostra esistenza. Anche Dante ci aiuta a muoverci in questa direzione fruttuosa.


    NOTE

    1 Cfr. B. Croce, La poesia di Dante, Laterza, Bari 1921 e Id., Poesia e non poesia, Laterza, Bari 1923.
    2 Si vedano fra l'altro sul tema: B. Nardi, Dante profeta (1942), in Id., Dante e la cultura medievale, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 265-326; N. Mineo, Profetismo e apocalittica in Dante. Strutture e temi profetico-apocalittici in Dante: dalla 'Vita nuova' alla 'Divina Commedia', Università di Catania, Facoltà di Lettere e Filosofia, Catania 1968; R. Osculati, La profezia nel pensiero di Dante, in AA. VV., Il pensiero filosofico e teologico di Dante Alighieri, a cura di A. Ghisalberti, »Vita e Pensiero», Milano 2001, pp. 39-57; AA.VV., Poesia e profezia nell'opera di Dante (Atti del convegno internazionale di studi, Ravenna, 11 novembre 2017), a cura di G. Ledda, Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali, Ravenna 2019.
    3 Cfr. Benvenuti de Rambaldis de Imola Comentum super D. Alagherii Comoediam, a cura di G. F. Lacaita, Firenze 1887, cit. in Dante Alighieri, La Divina Commedia. Purgatorio, a cura di N. Sapegno, La Nuova Italia, Firenze 1985, p. 112.
    4 Su questo tema cfr. pure Dante, Epistulae, XI 4: Piget, heu!...quod impietatis fautores, Iudei, Saraceni et gentes, sabbata nostra rident, et, ut fertur, conclamant: 'Ubi est Deus eorum?' (»Duole ahimè che i fautori dell'empietà, giudei, saraceni e pagani, ridono dei nostri sabati e, come si dice, esclamano: 'Dove è il loro Dio?'»).
    5 Eraclito, Frammenti, ne I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma Bari 1986, vol. I, p. 206 (trad. it. leggermente modificata).
    6 L. Feuerbach, Das Wesen der Religion, 1846, in Kleinere Schriften III (1846-1850), hrsg. von W. Schuffenhauer (Gesammelte Werke, 10), Akademie-Verlag, Berlin 1990, p. 52; trad. it. e a cura di A. Marietti Solmi, L'essenza della religione, Einaudi, Torino 1972, p. 60.
    7 Cfr. A. Prete, Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi, Feltrinelli, Milano 1980.
    8 Circa le precedenti citazioni leopardiane, cfr. G. Leopardi, Canti, a cura di U. Dotti, Feltrinelli, Milano 1993, pp. 448, 452, 449, 388-389.
    9 Cfr. La Comedia di D. Alighieri, con la nova espositione di Alessandro Vellutello, Venezia 1544, cit. in Dante Alighieri, La Divina Commedia. Purgatorio, a cura di N. Sapegno, cit., p. 127.
    10 Uno stimolante percorso attraverso la storia, la letteratura, l'arte e la cultura italiane seguendo la traccia della Divina Commedia è il volume di Giulio Ferroni, L'Italia di Dante. Viaggio nel paese della 'Commedia', La nave di Teseo, Milano 2019.
    11 Cfr. E. Balducci e L. Grassi, La pace. Realismo di un'utopia, Principato, Milano 1983 ed E. Balducci, Il Vangelo della pace. Commento alla liturgia della Parola, Borla, Roma, 1985-1987, 3 volumi.
    12 Circa la beatitudo scrive Tommaso, sulle orme di Aristotele, nella Summa theologiae (I, Il, q. III, 4): (...) essentia beatitudinis in actu intellectus consistit; sed ad voluntatem pertinet delectatio beatitudinem consequens («(...) l'essenza della beatitudine consiste nell'atto dell'intelletto, ma appartiene alla volontà il piacere che consegue alla beatitudine»).
    13 N. Sapegno, Commento, in Dante Alighieri, La Divina Commedia. Purgatorio, a cura di N. Sapegno, cit., p. 135.
    14 Cfr. E. Balducci, L'uomo planetario, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1990 e Id., La terra del tramonto. Saggio sulla transizione, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1992.


    (FONTE. Testimonianze 535-536: Dante. Quando la poesia si fa universale, pp.34-46)


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