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    La responsabilità della comunità cristiana verso i giovani


    Riccardo Tonelli

    (NPG 98-06-07)

     

    Quale musica è più incantevole delle voci dei giovani,
    quando non senti quello che dicono?
    (Logan Pearsall Smith)

     

    La mia proposta è costituita da tre momenti: l’indicazione della prospettiva, la ricognizione dell’esistente, alcuni suggerimenti di possibili interventi.

    Il primo momento è dedicato a precisare la prospettiva in cui mi colloco per leggere la realtà e per fare proposte. Un tema tanto impegnativo e complesso come è quello su cui ho intenzione di riflettere, può essere affrontato, infatti, da diversi punti di vista. Del resto, le posizioni differenti non caratterizzano soltanto il tentativo di studiare la questione dal punto di vista teorico. Esse sono prima di tutto nel vissuto ecclesiale concreto. Ci piaccia o no, siamo in una stagione di largo pluralismo, e non solo formale.

    Faccio poi una rapida ricognizione dell’esistente, dalla prospettiva scelta. Anche se lo studio è orientato verso proposte operative, non posso tralasciare questo passaggio: lo esigono il bisogno di dire cose concrete e la consapevolezza teologica che l’esistente è già, in qualche misura, un «luogo teologico», da cui è possibile rinvenire indicazioni preziose per nuove prassi pastorali.

    Fa parte del momento ricognitivo anche il necessario tentativo di interpretare i fatti recensiti.

    Infine, dopo aver ricordato l’orizzonte globale dentro cui la comunità ecclesiale concreta realizza la sua responsabilità verso i giovani, suggerisco qualche linea di azione.

    la prospettiva

    A quale comunità cristiana penso nel delineare le sue responsabilità verso i giovani? Con quali giovani essa si dovrebbe misurare?

    La comunità cristiana

    Comunità cristiana è una formula molto ampia. Come capita spesso in questi casi, c’è il rischio di restare nel generico o, peggio, di caricare l’espressione di interpretazioni personali che complicano poi il confronto e la ricerca comune. È importante quindi dare un volto preciso a questo soggetto.

    Comunità cristiana

    Incomincio dal sostantivo «comunità». È più importante dell’aggettivo «cristiana» che lo qualifica. Considero comunità quel gruppo di persone, segnato da intensi rapporti di solidarietà, collocato in un territorio e capace di offrire proposte e risposte che afferrano, in modo complessivo, le attese e l’esistenza delle persone che in esso si riconoscono.

    La figura di comunità cui faccio riferimento richiama, di conseguenza, la presenza e la persistenza di rapporti intensi tra i membri, sul piano della comunicazione reciproca e del clima di solidarietà consapevole.

    C’è scambio e interazione tra diverse persone quando esiste convergenza verso obiettivi e interessi comuni. La comunità è una comunità cristiana se gli obiettivi comuni si riferiscono all’esperienza cristiana, così com’è proposta e vissuta oggi dai discepoli di Gesù.

    Lo so che ho appena sfiorato il cuore del problema. Non posso però entrare maggiormente nei particolari… per non consumare tutto lo spazio nelle premesse. Dico in sintesi qualcosa di più preciso, riportando una bella sintesi ecclesiologica, da cui nasce il volto ideale della comunità cristiana: «Comunità cristiana è la comunità dei fedeli, unita dallo Spirito Santo, conformata al Figlio Gesù Cristo e chiamata, con l’intera creazione, al Regno di Dio, il Padre. La relazione con lo Spirito Santo dona alla chiesa la sua specifica forma di unità, cioè l’unità nella molteplicità; lo Spirito la rende ‘ecclesia’, assemblea del popolo di Dio. La relazione con Gesù Cristo dona alla chiesa il suo specifico contenuto, quello di essere chiesa alla sequela di Gesù; in questo modo essa diventa corpo e sposa di Cristo. La relazione con il Padre definisce l’origine e il fine della chiesa, cioè la creazione e il Regno di Dio; in quanto popolo di Dio, essa li unisce entrambi, nel senso di una comunità in cammino con tutte le creature verso la pienezza del Regno di Dio».[1]

    Quale comunità

    La citazione descrive una figura ideale di comunità cristiana. Purtroppo, però, nel ritmo dell’esperienza quotidiana le cose vanno abbastanza diversamente.

    Moltissimi tendono ad identificare la comunità ecclesiale con la Chiesa nella sua dimensione istituzionale e gerarchica. Persino le attese dei giovani verso la comunità cristiana sono rivolte prevalentemente verso coloro che nella Chiesa hanno dei compiti istituzionali. Per questo, il referente delle valutazioni dei giovani è di solito la «Parrocchia» e la «Diocesi» (in concreto: il parroco, il vescovo, le relative strutture istituzionali…).

    In altri casi, al volto istituzionale è contrapposto quello vicino, espressivo, coinvolgente di qualche persona o di qualche esperienza. Si tende a dire: «questo» (una persona, una esperienza, una realizzazione…) è quello che sogniamo della comunità cristiana… ma poi, purtroppo, entrando in relazione con quanto incontriamo quotidianamente, ci si sveglia bruscamente. Anche in questo caso, certamente felice sul piano personale, prevale indirettamente il riferimento solo all’istituzione.

    Il confronto tra volti concreti di persone, tra realizzazioni significative e simpatiche e quell’insieme di strutture e di organizzazioni giuridiche, in cui per forza di cose prende volto quotidiano la comunità ecclesiale… continua a riprodurre quella contrapposizione tra carisma e istituzione, che serve a sfuocare il volto della comunità cristiana.

    Una relazione «speciale»

    Per precisare adeguatamente la prospettiva in cui mi colloco, devo ricordare subito che la relazione tra i giovani e la Chiesa è, in ogni caso, tutta speciale.

    Giovani e Chiesa non sono due soggetti distinti, da mettere in rapporto, forzando le distanze o cercando punti di compromesso. La Chiesa è il popolo dei figli di Dio, che confessa Gesù il Signore. In questo grande popolo, in cammino nella storia verso la pienezza del Regno di Dio, stanno anche i giovani, con lo stesso titolo pieno che riconosciamo a tutte le altre persone. In qualche modo, i giovani sono «già» Chiesa… anche se dovrà crescere la consapevolezza riflessa di questa grande esperienza e consolidarsi il senso di appartenenza. Essi, inoltre, nella Chiesa hanno quel posto privilegiato che nasce dall’amore. La Chiesa è, nei confronti dei giovani, una madre che riconosce se stessa nei figli che ha generato, e che non può darsi pace fin tanto che non li porta a pienezza di vita. Il confine di questa relazione specialissima è senza misura, dal momento che la Chiesa è sollecitata ad esprimere l’amore di Dio verso gli uomini: «Se anche una madre si dimenticasse dei suoi figli, io non vi dimenticherò mai…» (Is 49, 15).

    Quali giovani

    La seconda chiarificazione riguarda l’altro soggetto della relazione: i giovani.

    A quali giovani penso e con quali mi confronto per analizzare la responsabilità della comunità ecclesiale? Ci sono giovani vicini, sensibili alle proposte ecclesiali, disposti a livelli alti di partecipazione e di responsabilità evangeliche; e ci sono giovani meno vicini, indifferenti, distratti rispetto agli impegni più seri della vita. Anche queste due categorie sono attraversate poi da notevoli diversità. I giovani sono un universo molto frammentato, difficilmente riconducibile ad una sola immagine.

    Quali giovani, dunque?

    Io penso, prima di tutto, a «tutti i giovani»… e non solo a quelli che sono disponibili e impegnati. Scelgo questa prospettiva perché riconosco nella Chiesa il segno concreto e «universale» dell’amore di Dio per tutti, soprattutto per i più poveri e gli ultimi.

    Non è corretto, certamente, chiudere gli occhi sui tanti giovani «impegnati», che hanno ricostruito un rapporto soddisfacente con la comunità ecclesiale. Ma neppure posso limitare il mio sguardo a queste situazioni felici. Le considero una proposta concreta di «possibilità» e di interventi: mostrano con i fatti che qualcosa può cambiare e indicano le condizioni da percorrere per ottenere risultati soddisfacenti.

    la situazione

    Un buon progetto parte da una ricognizione disponibile della situazione. Mi chiedo quindi: cosa sta capitando oggi?

    Per descrivere l’atteggiamento dei giovani verso la Chiesa, mi servo soprattutto della ricerca sulla «esperienza religiosa» dei giovani, realizzata dall’Istituto di Teologia Pastorale dell’Università Salesiana di Roma.[2] Per parlare di quello della comunità ecclesiale verso i giovani utilizzo soprattutto l’esperienza personale e quel fascio di informazioni che sono alla portata di tutti.

    In entrambi i casi, preferisco offrire qualche informazione rapida e schematica, sapendo di ricordare cose già molto note.

    La Chiesa verso i giovani

    Chi osserva l’atteggiamento della comunità cristiana e, concretamente, del suo apparato istituzionale (la Chiesa… come purtroppo si continua a dire, citando la parte per il tutto), non fa nessuna fatica a riconoscere l’esistenza di interessanti segnali di speranza.

    Essi confortano la nostra ricerca e indicano possibilità e direzioni di cammino per ogni lavoro successivo.

    Va detto subito che si tratta di realtà nuove e, per molti aspetti, inedite. Per tanto tempo, infatti, chi si interessava dei giovani e della loro educazione ha rappresentato un gruppo apprezzato (e poco invidiato) di «addetti ai lavori», isolato dal resto della comunità civile ed ecclesiale, cui era delegato ogni responsabilità. Gli unici contatti con le istituzioni del mondo degli adulti erano le eventuali periodiche verifiche e qualche rimprovero ogni tanto… perché questi incaricati tenevano più le parti dei giovani che dei mandanti.

    Inoltre, nella comunità ecclesiale l’attenzione verso i giovani coincideva, molto spesso, con la vita delle associazioni e dei movimenti. Le proposte erano orientate ad ampliare il loro raggio di azione o a controllare alcune realizzazioni che davano preoccupazioni. Ci vuole un documento impegnativo e coraggioso come «Evangelizzazione e testimonianza della carità»[3] per lanciare l’attenzione più ampia verso i giovani e i loro problemi, come responsabilità ecclesiale irrinunciabile.[4]

    Ora le cose sono molto cambiate, e le realizzazioni a favore dei giovani si sono davvero moltiplicate. L’elenco si farebbe lungo, per dire tutto quello che le nostre comunità ecclesiali operano per e con i giovani. Delle tante cose, ricordo solo alcuni dati di fatto che manifestano, in modo inequivocabile, l’interesse crescente della comunità ecclesiale verso i giovani, a tutti i livelli:

    • i progetti diocesani e i documenti episcopali, che fanno riscontro agli organismi di livello nazionale, regionale e diocesano, orientati alla promozione della pastorale giovanile;

    • il notevole lavoro che ha portato al «Catechismo dei giovani», espressione dell’attenzione specifica, competente ed originale della comunità ecclesiale verso i giovani;

    • le moltissime risorse impegnate seriamente nel servizio educativo e promozionale;

    • le iniziative e le esperienze che danno un volto concreto alla Chiesa, dentro e fuori la Parrocchia: dai molti adulti che testimoniano un messaggio di vita e di speranza, a quello spazio rassicurante in cui tanti giovani si sentono accolti;

    • la vicinanza e l’accoglienza appassionata di coloro che sono in situazioni di disagio;

    • le moltissime iniziative (giornate della gioventù, feste e meeting, incontri e convegni…), che non solo manifestano una notevole capacità di convocazione, ma che riscuotono consensi imprevedibili e che lasciano facilmente stupiti gli osservatori.

    I giovani verso la Chiesa

    Purtroppo, però, all’impegno e alla disponibilità della comunità ecclesiale nei confronti dei giovani non corrispondono risultati proporzionati.

    Questo giudizio non può essere generalizzato. Esistono, infatti, percentuali rilevanti di giovani che stanno vivendo un rapporto positivo con la comunità ecclesiale, ne assumono gli inviti e s’impegnano in espressioni coerenti di vita quotidiana e in servizi evangelici di alto profilo.

    Questi segnali positivi non possono però far chiudere gli occhi nei confronti della situazione «normale», soprattutto se prendiamo sul serio l’invito (ripetutamente suggerito) di studiare il rapporto dalla parte di «tutti» i giovani.

    La situazione «normale»

    Chiamo situazione «normale» quella che riguarda l’universo giovanile e che appare ad una prima lettura dei dati.

    Facendo riferimento alla ricerca sulla «esperienza religiosa» che ho già citato, ricordo alcune costanti su cui si caratterizza il rapporto giovani-Chiesa:[5]

    Una visione prevalentemente istituzionale della Chiesa. La maggior parte dei giovani intervistati la vedono in prevalenza come un’istituzione, come un’organizzazione sociale, alla stregua delle altre istituzioni umane; la identificano in pratica con la gerarchia e, più precisamente, con il papa, i vescovi e i preti.

    Una visione prevalentemente negativa della Chiesa. L’opinione che la chiesa sia solo un’organizzazione umana in cui prevalgono l’interesse e l’affanno di potere e di onore non è rara tra gli intervistati. Non pochi degli intervistati ritengono che la chiesa-istituzione, per dirla con le parole molto schiette di un adolescente, è «una presenza vuota, impermeabile alla vera realtà, e […] troppo fiscale». L’«impermeabilità» alla realtà è associata principalmente al modo di vedere le cose che i ministri della chiesa dimostrano di avere. L’aspetto «fiscale» dell’istituzione ecclesiale viene riconosciuto soprattutto nelle prese di posizione della gerarchia attinenti la morale e in modo speciale la morale sessuale.

    La quasi totale assenza di una visione teologica della Chiesa. Nella stragrande maggioranza delle storie di vita dei giovani intervistati non si trova un benché minimo cenno a ciò che la teologia dice sulla chiesa, né si coglie qualche tenue eco di quanto venne elaborato e proposto dal Vaticano II in ambito ecclesiologico.

    Sono presenti però grosse attese sulla Chiesa (che spesso sono alla radice della delusione… riscontrabile). I giovani intervistati chiedono che:

    – la chiesa sia più vicina ai problemi e bisogni della gente e, in essa, tutti si impegnino in favore della medesima;

    – la chiesa sia una comunità dove tutti si aiutano vicendevolmente;

    – essa sia uno spazio dove si entra e si agisce liberamente e non per costrizione.

    Alcune situazioni privilegiate

    Quella appena ricordata è la situazione più diffusa. Come dicevo, non mancano però segni di speranza, spesso nascosti e disturbati, ma forti e consolidati.

    Facendo riferimento ancora ai risultati della nostra ricerca sulla esperienza religiosa, posso citare qualche esempio:

    • la centralità personale della vita sacramentale e liturgica in cui è superata la dicotomia tra sacro e profano: basta pensare all’impegno con cui vengono vissuti alcuni sacramenti (matrimonio) e sono realizzate le celebrazioni eucaristiche…;

    • la riscoperta di alcuni testi della Bibbia (alcuni Salmi, pagine del Vangelo....), come documenti importanti di riferimento personale: la riscoperta e l’utilizzazione avvengono all’interno della comunità ecclesiale;

    • anche se il riferimento a Gesù Cristo e alla sua presenza tra noi non riporta sempre verso le autentiche esigenze teologiche, il richiamo alla sua persona è frequente, intenso, carico di influsso nella vita personale;

    • l’appartenenza fedele alla comunità ecclesiale: persino qualche giudizio negativo nei confronti dell’istituzione nasce da attese ampie nei suoi confronti e dalla decisione coraggiosa di riporre in essa una fiducia insolita;

    • il riferimento ad alcune persone, valutate come significative per la propria esistenza, da cui si attende una parola accogliente e autorevole;

    • l’impegno costante e coraggioso dell’esercizio della carità evangelica in espressioni concrete anche se faticose (volontariato...), giustificate da una diffusa fiducia verso la vita.

    Tra «indifferenza» e «domanda religiosa»

    Chi si mette a descrivere la relazione che lega i giovani alla Chiesa parla con frequenza di «indifferenza». Sono consapevole di quanto la constatazione è fondata. Non condivido però la tendenza a generalizzare. Esistono giovani cui la vita della Chiesa e quello che essa significa non dicono davvero più nulla di serio e di interessante.

    In questi casi stiamo transitando dai tempi della polemica e della contestazione all’insignificanza: le strade si sono ormai separate e i cammini avvengono all’insegna di altre preoccupazioni. Questa situazione non mi sembra però quella dominante; soprattutto non rappresenta l’esito dei processi in atto.

    Molti giovani, infatti, avvertono, in termini più o meni riflessi, un disagio generale e un’insoddisfazione circa la vita e i suoi significati.

    Essi si rendono conto di non poter più fondare senso e speranza su quello che era stato loro offerto e cercano qualcosa di nuovo, di ulteriore. Siamo di fronte a quella diffusa, insistita «domanda religiosa», di cui spesso si parla. La relazione tra i giovani e la Chiesa passa anche su queste frontiere.

    Le due situazioni (l’indifferenza e la domanda religiosa) richiedono un’interpretazione, seria e approfondita. Possono essere indicatori interessanti dell’atteggiamento dei giovani verso la Chiesa. L’indifferenza non solo rappresenta una componente, quasi congenita, della cultura dominante, ma, di riflesso, denuncia l’atteggiamento di alcune istituzioni ecclesiali nei confronti dei giovani stessi, oltre le parole solenni che possono essere pronunciate a dispetto dei fatti. Anche la domanda religiosa richiede un’interpretazione corretta.  Alcuni segnali mi sembrano dominanti:

    • è domanda religiosa perché è domanda di significato alla vita e di speranza, radicata sulla delusione di molte attuali proposte di senso; anche l’eventuale richiesta di «cose» religiose segnala soprattutto ricerca di qualcosa che dia senso e speranza;

    • non si rivolge direttamente alla Chiesa, ma è lanciata, spesso in modo indifferenziato, verso chiunque ha qualcosa da offrire sulla frontiera della vita e della speranza;

    • è fortemente segnata dai tratti culturali dominanti (soggettivizzazione, esperienzialismo, ricerca di una verificabilità immediata…): è quindi molto lontana dai modelli culturali in cui si incarna la proposta ecclesiale.

    una prima valutazione

    I fatti appena ricordati, quelli positivi e quelli problematici, restano come forte provocazione. Per decidere come reagire ad essi e in quali direzioni riorganizzare le risorse, vanno compresi e interpretati. Continuo, di conseguenza, la mia riflessione, con la preoccupazione esplicita di suggerire qualche possibile chiave interpretativa.

    Sono molte le constatazioni che possono dare ragione del fatto che la proposta ecclesiale coinvolge un numero ristretto di giovani e la sua incidenza formativa non raggiunge neppure tutti coloro che riesce ad interessare. Ne indico alcune.[6]

    Una coincidenza che non è solo colpa dei giovani

    Le valutazioni negative espresse da molti giovani nei confronti della Chiesa provengono dal fatto di far coincidere l’immagine di comunità cristiana con le espressioni e le manifestazioni istituzionali della comunità ecclesiale.

    Il Concilio ci ha abituato a pensare in termini diversi. Ma… fino a che punto tutto questo è diventato «mentalità» nei modelli linguistici in cui si parla della Chiesa, dentro e fuori di essa e, soprattutto, nella prassi ecclesiale corrente?

    Proviamo a chiederci, per esempio, con atteggiamento disponibile e onesto, in quale relazione sta il mistero teologico della Chiesa come corpo di Cristo, popolo di Dio, comunione dei credenti, rispetto a quello che appare nelle dichiarazioni e nei fatti della prassi quotidiana? La dimensione teologica e spirituale della Chiesa è presente nelle affermazioni di principio e nelle dichiarazioni solenni, ma, troppo facilmente, è poi disconosciuta o, peggio, contraddetta sul piano dei gesti e dei fatti. La Chiesa appare spesso come una grande agenzia di servizi religiosi, ben organizzata e presente in modo capillare un po’ dovunque, molto attenta a non lasciare nessuna soluzione al caso o all’inventiva.

    Questa consapevolezza mi ha spinto a scegliere per il paragrafo un titolo un poco provocatorio: non è colpa dei giovani se essi percepiscono le cose in questo modo riduttivo. La responsabilità sta nei modelli di catechesi con cui sono stati socializzati nell’ambito religioso, nel modo comune con cui si parla della Chiesa, dentro e fuori di essa, e in troppe maniere di agire che sembrano spingere proprio nella direzione contestata. Il rimedio e l’alternativa non riguardano quindi la percezione distorta… ma lo stato dei fatti. In fondo, i giovani che sognano una Chiesa diversa e si dichiarano scontenti di quello che costatano, esprimono un contrasto che è nell’aria e che il rinnovamento del Concilio non ha ancora sufficientemente diffuso e consolidato.

    Un conflitto culturale

    I giovani denunciano la difficoltà a percepire, nel volto concreto della Chiesa che conoscono e che incontrano, quello spazio di vita e di speranza che vanno ansiosamente cercando. Questa estraneità della Chiesa verso i giovani è figura ed esito di quell’altra estraneità culturale e sociale più vasta, che investe il rapporto giovani-adulti, in questo nostro tempo.

    Viviamo in una stagione segnata dall’enfasi della soggettivizzazione, da una forte dose di presentismo e dall’esigenza, quasi indiscutibile, di passare tutte le proposte al vaglio critico della personale esperienza. La comunità ecclesiale pensa, parla e progetta all’interno di modelli culturali che sono assai diversi, rispetto a quelli appena ricordati. Non sto chiedendomi dove stia la ragione e nemmeno sto cercando di immaginare vie di uscita. Il dato di fatto minaccia però, in termini irrimediabili, la possibilità di dialogo o, peggio, consegna questa opportunità solo a quelle persone che sono estranee ai modelli culturali dominanti. Anche se tra giovani e Chiesa si utilizzano le stesse formule linguistiche, quello che esse evocano allarga la distanza e l’incomprensione.[7]

    Una manifestazione di questa distanza e una sua radice quasi strutturale è costituita da quelle difficoltà a condividere il senso dell’esistenza, che è tipico del rapporto tra giovani e adulti.

    A differenza dell’esperienza vissuta dalle generazioni passate che ricevevano il senso dell’esistenza attraverso processi trasmissivi abbastanza tranquilli, la cui eventuale conflittualità era solo congiunturale, oggi assistiamo ad una larga crisi di trasmissione culturale. Coloro che hanno la responsabilità di affidare ad altri le ragioni per credere alla vita e alla speranza, non sanno più bene cosa trasmettere e come trasmettere. D’altra parte, è scarso anche l’interesse a ricevere qualcosa da altri, se questo soggetto non è sperimentato appartenente al proprio ristretto gruppo. Anche le agenzie tradizionalmente incaricate di questa responsabilità (scuola, famiglia, chiesa...) sono oggi in crisi. Come appare dalle ricerche più recenti, esse recuperano attendibilità e consenso solo quando sanno presentarsi come luogo di relazioni primarie soddisfacenti. In fondo, esse funzionano solo quando, rinunciando alla loro specificità, delegano ad altri la trasmissione dei «contenuti», per riappropriarsi solo della funzione di assicurare interazioni.

    Una gestione più matura della domanda religiosa

    Uno dei casi più tipici dello scollamento tra le attese che i giovani hanno nei confronti della Chiesa e la percezione delle risposte che essa offre, riguarda la gestione della domanda religiosa. Spesso la qualità della proposta aumenta i problemi invece di contribuire a risolverli.

    Ci sono comunità ecclesiali che non si riconoscono pronte… e continuano nell’incertezza e nella paura tipica dei primi momenti dell’impatto con la secolarizzazione. In altri casi, al contrario, sono rilanciati i modelli forti, oggettivistici e poco responsabilizzanti della stagione trascorsa, anche perché la domanda religiosa è interpretata come invito (più o meno esplicito) a tornare ai sistemi del passato.

    Qualcuno fa del rispetto dell’interlocutore un postulato irrinunciabile, senza chiedersi se il rispetto della domanda non comporti anche la sua educazione o l’accoglienza dei suoi livelli nascosti e impliciti. Per questo si diventa rinunciatari, incapaci di avanzare proposte, privi del mordente necessario per stimolare e provocare.

    Purtroppo non sono assenti i casi in cui la disponibilità di molti giovani funziona come giustificazione di una specie di consumismo religioso (pratiche, attese, manifestazioni…). Ci si dimentica, anche questa volta, di una responsabilità educativa che fa della risposta una chiamata a libertà e responsabilità e non una nuova ragione di manipolazione.

    responsabili... per che cosa?

    A confronto con i giovani e con i problemi che investono il suo rapporto con essi, la comunità ecclesiale riscopre la sua responsabilità. In che direzione? Come ricorda il titolo del paragrafo: responsabili… per che cosa?

    La risposta è facile: la comunità ecclesiale esprime il suo significato e la sua funzione, rivisitando il progetto che l’ha costituita. Su questo riferimento essa determina l’orizzonte e il contenuto della sua responsabilità verso i giovani. La questione spinosa è un’altra, quella del metodo attraverso cui riscoprire l’esigenza e la qualità della responsabilità.

    In questi anni, qualcuno ha preferito percorrere la strada della ricomprensione dell’identità perduta. Le conclusioni sono state accurate e suggestive. Ma il cammino si è fatto spesso lungo e non pochi hanno corso il rischio di smarrirsi in un labirinto di distinzioni e di precisazioni. La Chiesa italiana, nel convegno di Palermo, ha proposto un sentiero diverso: l’ascolto e la riflessione teologica sui problemi, quelli veri e quotidiani.[8] Per dire la responsabilità ecclesiale verso i giovani, è diventato urgente mettere al centro della riflessione la sfida che i giovani ci lanciano, per pensare e progettare sotto l’urgenza dei problemi.

    L’esperienza è stata felice e stimolante. La rilancio anche in questo contesto, per dare spessore concreto alla responsabilità della comunità ecclesiale verso i giovani.

    La sfida: una situazione di emergenza sulla vita

    Chi sceglie di partire dai problemi concreti, in modo disponibile e attento, non fa molta fatica a scoprire la situazione di emergenza sulla vita, caratteristica della nostra stagione culturale.

    Per molti diventa impresa impossibile vivere una vita così come il Dio della storia l’ha progettata per gli uomini e le donne che chiama figli suoi.

    Molti hanno superato l’emergenza sulla possibilità della vita. Ma si trovano alla ricerca, disperata o rassegnata, di una qualità che la renda vivibile. Su tutti preme l’ombra della morte: quella quotidiana, che ci accompagna come un nemico invisibile e pervasivo, e quella violenta e conclusiva, che sembra bruciare ogni progetto. Non sappiamo più bene dove radicare la nostra speranza.

    Sul problema della vita, del suo senso e di quell’insuperabile minaccia alla vita che è la morte, la fede cristiana è chiamata a misurarsi. Continuare l’esperienza di Gesù e dei suoi discepoli significa, in concreto, annunciare il Vangelo dentro questi problemi, con la preoccupazione che questo annuncio risuoni veramente come «bella notizia».

    Due ambiti di responsabilità

    Due sono di conseguenza gli ambiti in cui la comunità ecclesiale può concretizzare la sua responsabilità verso i giovani. Da una parte, essa si preoccupa perché cresca in ogni giovane la ricerca di ragioni per vivere e per sperare. Dobbiamo tutti imparare a vivere a braccia alzate, nella trepida ricerca di due braccia robuste, capaci di afferrare la nostra fame di vita e di felicità. La comunità ecclesiale incoraggia e sollecita questo atteggiamento esistenziale. Lo sostiene con i giovani che lo stanno spontaneamente sperimentando; lo scatena in quelli che hanno rimosso ogni confronto con la morte, da buoni figli di questa nostra cultura, e non si pongono più alcun problema di senso. Dall’altra, la comunità ecclesiale ripensa all’evangelo per restituirgli la forza di salvezza «dentro» e «per» la vita quotidiana. Il primo compito è abbastanza facile. Viviamo infatti in una stagione culturale in cui è forte la consapevolezza dei tanti problemi che attraversano l’esistenza, anche se sono diversi i modi in cui si esprime questa drammatica emergenza.

    Il secondo è molto più impegnativo. Una lunga tradizione teologica e pastorale sembra stranamente spingere in direzioni diverse. Diventa urgente riscoprire l’esperienza di Gesù e dei suoi discepoli. L’annuncio non è mai un vuoto gioco di parole, verificato sui parametri della congruenza formale tra soggetto e predicato. I fatti sono la prima e più eloquente parola. Le parole della verità interpretano i fatti. La comunità ecclesiale annuncia Gesù di Nazareth con forza e con coraggio, facendo camminare gli zoppi e restituendo la vista ai ciechi. Essa fa un annuncio, che è di senso e di speranza contro la morte. Le parole che dice sono la vita che torna nelle gambe rattrappite del povero paralitico e negli occhi spenti del cieco dalla nascita. Essa ricorda che Gesù è il Signore e non c’è altro nome in cui essere pieni di vita, restituendo la possibilità di essere nella vita a tutti coloro che ne sono stati deprivati.

    Lo fa con tanta competenza e serietà, perché si riconosce «serva» di esigenze impegnative come sono quelle della vita, da essere sollecitata a rendere concreto e differenziato il suo servizio. Per questo chiama per nome le diverse situazioni di morte contro cui intende lottare e cerca uno stile di presenza, diversificato in rapporto a queste concrete situazioni.

     

    suggerimenti

    Con quali interventi la comunità ecclesiale può rendere concreta la sua responsabilità verso i giovani?

    Il confronto con quei giovani che sono riusciti a coniugare, nel loro vissuto, attenzione ai modelli culturali dominanti, inserimento maturo in essi, e profonda esperienza cristiana, ci mostra, con la forza dei fatti, che è possibile costruire qualcosa di interessante e convincente e ci suggerisce il processo in cui riorganizzare le molte risorse di cui dispongono le comunità ecclesiali. Per questo, è urgente suggerire e sostenere un modello di vita cristiana dove sia possibile sperimentare concretamente la speranza come esito di un esercizio di libertà che impara a leggere il presente (persone e avvenimenti) dalla parte del futuro di Dio e come quotidiana anticipazione nel presente di quel futuro verso cui siamo in trepida attesa.

    In questa logica, suggerisco alcune mie preoccupazioni. Esse riguardano fondamentalmente la comunità cristiana e il suo modo di porsi nei confronti dei giovani. Sono convinto che il soggetto concreto di queste responsabilità continui ad essere la Parrocchia, in modo prioritario anche se non esclusivo.

    Essa è, infatti, l’unico luogo ecclesiale veramente disponibile a tutti i giovani. I suggerimenti che seguono (se sono condivisi) la sollecitano però verso profondi cambi di mentalità e di prassi.

    Un luogo dove incontrarsi

    La prima condizione, pregiudiziale a tutto il processo, è l’incontro: la messa in opera di possibilità «fisiche» di confronto, di dialogo, di condivisione.

    Per non lasciare nel generico questa preoccupazione, rilevo un dato di facile constatazione, che chiede rapidi cambi di mentalità.

    L’azione pastorale della comunità ecclesiale verso i giovani si è svolta, per tanto tempo, su un territorio preciso, i cui confini erano ben delimitati. Tutti sapevano bene a quale struttura potevano fare riferimento: la Chiesa era una delle presenze sicure e visibili. Persino i modi di dire rispecchiavano questa situazione strutturale. «Vado in Chiesa», diceva chi si rendeva disponibile a frequentare attività e celebrazioni ecclesiali. «Perché non vieni in Chiesa… ti si vede così poco in Chiesa…», diceva il parroco, con un tono di rimprovero, a chi frequentava poco l’ambiente. Non era difficile verificare le diverse situazioni, perché i responsabili conoscevano bene tutti e riuscivano, senza fatica, a costruire un diagramma ideale delle frequenze.

    Ora le cose sono cambiate quasi radicalmente.

    La vita concreta di molti giovani si svolge, infatti, in spazi che non corrispondono più a quelli che sono abitualmente utilizzati per delimitare i confini di appartenenza. Molta parte della giornata e una grande quantità di giorni dell’anno sono trascorse «fuori» dai riferimenti istituzionali tradizionali. La faccenda non è solo fisica… né dà origine a quella «nostalgia di casa», tipica di un mondo ormai scomparso, almeno a livello giovanile.

    Gli interessi, i progetti, le esperienze più rilevanti dell’esistenza sono vissute in luoghi molto diversi da quelli tradizionali.

    Persino le forti esperienze religiose sono, spesso, dislocate rispetto agli ambiti tradizionali.

    Se la constatazione è corretta, diventa urgente pensare all’incontro come ad una specie di «esodo»: si tratta di abbandonare gli spazi consolidati e rassicuranti, per andare verso i luoghi di vita dei giovani.

    Lo spostamento verso i luoghi di vita reale dei giovani non è solo una questione «fisica», di spazi, in altre parole, in cui essi sono, vivono, s’incontrano; prima di tutto la questione è affettiva, perché coinvolge una condivisione piena del loro mondo e delle loro attese.

    Incontrarsi per condividere e maturare assieme 

    L’incontro è orientato al confronto e allo scambio reciproco. Esso è la condizione, non l’obiettivo. Va dichiarato con decisione e coraggio, per non lasciarsi catturare da modelli ricorrenti, che hanno davvero poco di forza educativa.

    I giovani hanno molto da offrire alle comunità cristiane. La Chiesa ha un suo dono grande da offrire ai giovani, per la qualità della loro vita e soprattutto per radicare la loro speranza sulla roccia sicura del Crocefisso risorto. Il volto concreto della responsabilità corre consequenziale a questo scambio e alla reciproca accoglienza.

    Un incontro per far incontrare Gesù il Signore

    Il punto di riferimento della vita cristiana e, di conseguenza, l’esito dell’esperienza ecclesiale è l’incontro personale con Gesù. Tutto il processo pastorale tende a questo obiettivo ed è su questa meta che si verifica e si consolida.

    I responsabili delle comunità ecclesiali non cercano, di conseguenza, di assicurare identificazione alle sue strutture, ma impegnano tutta la comunità a decentrarsi verso la sua ragione costitutiva: la Chiesa cerca i giovani, li convoca e li incontra per aiutarli ad incontrare il Signore della vita e della speranza. L’incontro con Gesù si trasforma in una conversione continua della propria vita alla sua Parola e alla sua causa, nella celebrazione della fede nella vita liturgica e sacramentale, in una sequela coraggiosa della sua persona, che porta a rompere con il peccato e con i modelli di vita che ne derivano, nella disponibilità a «portare con gioia la croce» in tutti i momenti della propria giornata per vivere con coerenza e autenticità la propria esperienza ecclesiale.

    Le condizioni per l’incontro

    L’incontro con Gesù, confessato nella fede ecclesiale come il Signore, è il contenuto, sognato e programmato dell’incontro. Come sappiamo tutti molto bene, però, il contenuto è interpretato dalla relazione che lega i diversi interlocutori. Il rilancio dello scambio tra giovani e Chiesa, per un reciproco arricchimento, riporta al problema della relazione. Una relazione positiva determina la possibilità del confronto e dell’accoglienza della diversità. Quando resta scoperta la domanda di relazione amorosa e l’esperienza di senso e di collegamento verso la vita quotidiana, è bruciata la capacità di identificazione nei confronti dell’istituzione.

    Sulla qualità della relazione concentro quindi la mia attenzione, suggerendo qualche condizione concreta di praticabilità.

    Un luogo di ospitalità.

    La comunità ecclesiale si pone, prima di tutto, come uno spazio, concreto e forte, di ospitalità. Lo fa nell’esercizio quotidiano della sua presenza e dei gesti che essa è chiamata a porre.

    L’ospitalità, suscitata e sperimentata nello stile della comunicazione, «interpreta» i contenuti fatti circolare, li rende efficaci e veri.

    Il tema dell’ospitalità è già ritornato spesso nelle mie riflessioni.[9] Lo considero, infatti, un’esperienza evangelica pregiudiziale a qualsiasi azione pastorale, un modo, concreto e verificabile, per restituire un po’ di affidabilità a molte grosse affermazioni che punteggiano le nostre proposte. Si tratta però di passare, una buona volta, dalle convinzioni ai fatti, controllando ed eliminando gli ostacoli che ne impediscono la realizzazione.

    Dire ospitalità significa, in concreto, sottolineare l’esigenza che il luogo dell’incontro sia abitato da persone capaci di ospitalità.

    Attraverso il richiamo ad un’esperienza quotidiana preciso a cosa penso, quando faccio appello alla ospitalità.

    Ci sono persone che quando parlano sembrano abbracciare il proprio interlocutore, in un incontro appassionato che ha il sapore gioioso dell’accoglienza incondizionata; e ce ne sono altre invece che, dicendo magari le stesse cose, giudicano nelle parole pronunciate e condannano impietosamente. Figure tipiche di questo atteggiamento così diverso sono i due personaggi della grande storia dell’accoglienza, raccontata da Gesù: il padre e il fratello maggiore della parabola cosiddetta del «figlio prodigo» (Lc 15, 11-32). Quando il ragazzo scappato di casa ritorna, il padre lo accoglie con un profondo abbraccio di pace e di riconciliazione. Non gli fa nessun rimprovero; non permette al ragazzo neppure una parola di pentimento. Non agisce così per rassegnazione e per indifferenza; e neppure certamente perché ha paura di rovinare tutto, adesso che le cose sono tornate alla normalità. La colpa è stata gravissima. Ha prodotto sofferenze pungenti in tutti. Il padre non può chiudere un occhio, come se non fosse successo nulla.

    Non è questo lo stile di Dio verso il peccato dell’uomo, che Gesù ci ha rivelato. A chi ha provocato tanto dolore, il padre rinfaccia il suo tradimento con la parola più dolce e inquietante possibile: l’abbraccio della gioia e della festa.

    Il figlio maggiore contesta questo comportamento, rinfacciando la cattiva condotta del fratello. Ricorda la disobbedienza del fratello e sottolinea il suo tradimento. La sua parola è dura: un giudizio di condanna senza appello. Il padre, invece, «ospita» il figlio tornato finalmente tra le sue braccia. Non mette una pietra sul passato, ma neppure lo rivanga con l’acredine di chi si vuole vendicare. Certo, non può dimenticare quello che è successo né può rassegnarsi a lasciare il figlio nel suo vecchio modello di esistenza.

    Lo vuole diverso, trasformato dentro e nuovo nei comportamenti. Per rinfacciare al figlio la sua condotta ingiusta, sceglie una strada insolita: non accusa né rimprovera, ma accoglie. Il suo dolore e la gioia del ritrovamento diventano abbraccio e festa.

    Questo è lo stile di comunicazione che l’espressione «ospitalità» vuole evocare. La qualità nuova di vita non nasce sulla congruenza logica delle informazioni, né si radica sulla loro verità. Le accuse fatte dal figlio maggiore erano terribilmente vere.

    Siamo restituiti alla vita, come lo è stato tra le braccia del padre il ragazzo fuggito di casa, perché il gesto che accompagna le parole e il loro tono ci permettono di sperimentarne tutta l’autenticità.

    Possiamo impegnarci, anche come comunità ecclesiale, a diventare persone capaci d’ospitalità, secondo questo stile evangelico?

    Un luogo di provocazione.

    Per qualcuno l’invito verso l’ospitalità fa a pugni con l’esigenza di fare proposte. E così s’inventa una specie di divisione del lavoro e del tempo (tempi d’ospitalità e tempi dove dire le cose senza mezzi termini…); oppure ci si divide tra persone che le cantano chiare per amore di verità e per il bene dei giovani, e persone che rinunciano e si rassegnano.

    Sono convinto che proprio l’esperienza di ospitalità diventa proposta forte e coraggiosa, capace di rompere il cerchio chiuso dell’egoismo e di una soggettivizzazione sfrenata. L’ospitalità, nella figura evangelica appena ricordata è, infatti, un’esperienza di forte provocazione.

    Non posso immaginare la comunità ecclesiale come l’istituzione che difende l’oggettività dei valori e delle norme, contro l’intemperanza giovanile e l’enfasi sulla soggettività. Provocare significa, al contrario, diventare testimoni, trepidanti e sofferti, delle esigenze irrinunciabili della vita, così com’è compresa nel mistero di Dio. La comunità ecclesiale non divide il suo rapporto con i giovani in tempi in cui si lancia verso un’ospitalità bonacciona e rassicurante, e tempi in cui invece dice forte le esigenze che nascono dal confronto inquietante con la verità. Nel suo insieme e in tutti i suoi gesti, essa è ospitante e provocante nello stesso tempo: accoglie, in modo incondizionato e provoca verso la novità di vita, in forma forte e coraggiosa. La stessa esperienza evangelica fonda e sostiene i due atteggiamenti.

    La comunità ecclesiale si pone come proposta provocante perché è sperimentata, soprattutto negli spazi della sua visibilità, come luogo alternativo alle logiche dominanti nella prospettiva di una qualità nuova di vita. Le direzioni di questa qualità nuova di vita le ho già ripetutamente ricordate.[10] Rilevo solo che, anche in questo caso, la faccenda è di respiro «culturale».[11] Si tratta, in altre parole, di immaginare quel modello di vita che sia efficace rispetto ai modelli dominanti e, nello stesso tempo, fedele alle esigenze più radicali della fedeltà evangelica.

    La maturazione dell’esperienza religiosa

    Una delle questioni oggi più urgenti è costituita dalla qualità della risposta alla intensa e diffusa «domanda religiosa». La comunità ecclesiale può diventare il luogo in cui i giovani sono in grado di sperimentare quell’esperienza religiosa, che satura la loro domanda, in una grande avventura di libertà e responsabilità.[12] La condizione è irrinunciabile: non possiamo consegnarci ad una nuova espressione di consumismo (come, purtroppo, sta capitando…), proprio nel momento in cui affidiamo le ragioni fondamentali della nostra esistenza al mistero che ci avvolge.

    Anche questo tema richiederebbe una riflessione lunga e articolata. Lo affronto solo con qualche battuta, rimandando ad altri contesti, in cui il tema è stato esaminato nella ampiezza che gli competeva.[13]

    La proposta cristiana s’inserisce all’interno della ricerca di qualità di vita, come quella «bella notizia» che orienta tra le diverse opportunità e dà consistenza alla speranza. Il suo contributo specifico si colloca quindi attorno all’unico, grande problema, che è appunto quello della vita, nella direzione della qualità (per fare ordine nel groviglio dei progetti che si rincorrono in una stagione di pluralismo), e nella direzione del fondamento (per restituire speranza a chi la cerca, inquietato dalla quotidiana esperienza del limite).

    Dal punto di vista metodologico, vanno affrontati perciò due compiti, ugualmente importanti: educare i giovani a diventare uomini capaci di invocare; suggerire e sostenere un modello di vita cristiana dove continui ad avere spazio l’esperienza (e l’esigenza) dell’invocazione.

    È importante non immaginare questi due compiti come successivi in ordine cronologico. Il vissuto pastorale di questi anni ha mostrato ormai, in modo indiscutibile, i limiti di una evangelizzazione di tipo responsoriale. Se vogliamo far nascere prima le domande per offrire le risposte solo in un secondo momento, i tempi si farebbero molto lunghi, con conseguente slittamento sine die del momento dell’annuncio. In una stagione di pluralismo, come è quella che stiamo vivendo, non ha del resto senso spostare in avanti la proposta cristiana, visto che di proposte siamo quotidianamente circondati.

    Educazione all’invocazione e offerta del vangelo di Gesù sono due momenti ugualmente urgenti e intensamente collegati. Il diritto di precedenza è stabilito solo in rapporto alle concrete persone e alle circostanze operative. In ogni caso, nessuno dei due compiti può essere tralasciato.

    La distinzione tra educazione ed evangelizzazione è soprattutto logica: con il primo compito, serviamo la maturazione della vita e della sua qualità; con il secondo verifichiamo le condizioni che restituiscono alla proposta cristiana la sua costitutiva forza salvifica.

    Riscoprire la funzione sacramentale della Chiesa

    Il dialogo tra i giovani e la Chiesa è reso difficile da due difficoltà, che disturbano la comunicazione tra gli interlocutori.

    Da una parte, infatti, troppe valutazioni riguardano una immagine di Chiesa che è limitata, parziale e inadeguata. L’immagine di Chiesa dominante, infatti, accentua la dimensione gerarchica e istituzionale, come se tutta la Chiesa si riducesse a questa realtà. Da questo punto di vista è facile gridare alla delusione e cercare soluzioni nella direzione del rifiuto o dei modelli alternativi. Dall’altra, le preoccupazioni dei responsabili ecclesiali nei confronti dei giovani si riducono talvolta alla richiesta di alcune pratiche esteriori, misurate, in modo prevalente, sulla conoscenza di una serie di informazioni e sull’osservanza delle norme proposte. Anche in questo caso, la delusione è incombente, in una stagione di forte soggettivizzazione.

    Il recupero e il consolidamento della relazione tra giovani e Chiesa passa, di conseguenza, sulla responsabilità di ricostruire una immagine sacramentale della Chiesa e sulla invenzione di modelli nuovi di appartenenza.

    Riscoprire la funzione sacramentale dell’istituzione ecclesiale

    Il Concilio Vaticano II ha definito l’identità della Chiesa a partire dalla sua missione. Nei documenti conciliari, infatti, la Chiesa si autoproclama «universale sacramento di salvezza»: mediazione efficace ed anticipazione di quel progetto salvifico globale che Dio attua in Gesù Cristo per lo Spirito Santo, che investe tutti gli uomini e tutta la storia.

    Solo comprendendo bene cosa significhi tutto questo, è possibile superare quella falsa contrapposizione tra istituzione e carisma che riduce la Chiesa alla sola realtà istituzionale e gerarchica o che, al contrario, la rifiuta nel nome del mistero della Chiesa stessa. In fondo, si tratta di una questione teologica ormai consolidata nella sensibilità ecclesiale più matura, che ha riflessi pastorali davvero enormi. I guai incominciano, sul piano pratico, quando questa chiarificazione è ignorata o male compresa.

    Quello che più sopra ho indicato come una delle cause che influenzano negativamente il rapporto dei giovani con la Chiesa e la loro comprensione di essa, ritorna come compito urgente per gli educatori della fede, per i catechisti e i responsabili delle comunità cristiane.

    Invito a meditare quella figura di Chiesa che Lumen gentium propone: «La società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, la comunità visibile e quella spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa ormai in possesso dei beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse, ma formano una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino. Per una non debole analogia, quindi, è paragonabile al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a Lui indissolubilmente unito, in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del corpo» (LG 8).

    Il testo del Concilio ci invita a porre in stretto rapporto la realtà sociale della Chiesa e il suo mistero di fede teologico. Il rapporto è molto speciale: non si tratta di identificare l’una con l’altra, ma neppure possiamo operare indebite separazioni; la relazione è di natura sacramentale. La forma esteriore e visibile della Chiesa è il segno sacramentale del mistero interiore.

    Ridefinire la figura di appartenenza

    La questione del senso di appartenenza alla Chiesa è molto collegata alla figura di Chiesa in cui ci si riconosce. Ad una visione di comunità ecclesiale che tende a coincidere quasi unicamente con la sua dimensione istituzionale, fa da riscontro un modo coerente di pensare e di educare all’appartenenza. In questa logica, per fortuna ormai quasi passata, l’appartenenza era legata ad una figura di comunità depositaria di servizi. Una serie di norme regolavano il processo. Tutto sommato le cose andavano abbastanza tranquille perché si poteva contare sul sostegno del contesto culturale e sociale circostante.

    Viviamo in una stagione di appartenenze deboli: l’appartenenza non diventa una ragione per fare delle scelte impegnative, non è il riferimento su cui si confrontano le altre decisioni che attraversano l’esistenza sono persino assunti atteggiamenti diversi in rapporto alle differenti istituzioni cui si appartiene di volta in volta. Questo è un problema non piccolo: minaccia alla radice il rapporto dei giovani con la comunità ecclesiale o lo riduce ad uno dei tanti riferimenti su cui si distende la giornata. D’altra parte, la pretesa di assicurare appartenenze forti, totalizzanti, che funzionino come esclusione delle altre… è qualcosa di poco gestibile nel nostro tempo o richiede costi educativi troppi alti (e ingiustificati) a chi la vuole assicurare.

    Propongo di ripensare al senso di appartenenza, a partire da quella figura di sacramentalità che ho appena ricordato per definire il volto conciliare della comunità ecclesiale. La necessità di vivere l’appartenenza come sostegno concreto e sperimentabile ad un cammino di fede, capace di diventare «immersione» e «affidamento» al mistero di Dio, porta, di conseguenza, a rivisitare le condizioni di appartenenza.

    Questa nuova figura di appartenenza si costruisce su alcune esigenze. Le ricordo, ampliando verso l’esperienza ecclesiale quello che le scienze dell’educazione ci suggeriscono a proposito dell’educazione al senso di appartenenza.

    1. Si richiede prima di tutto un minimo di interazioni dell’individuo con l’istituzione cui si vuole appartenere. Questo minimo non va pensato in termini giuridici, ma secondo le logiche della dinamica di gruppo (condivisione degli obiettivi, percezione del significato funzionale del gruppo, accettazione delle norme e dei ruoli, esperienze di gratificazione...).

    2. Occorre anche la conoscenza e l’accettazione del sistema di valori, credenze e modelli che determinano la proposta oggettiva dell’istituzione in questione, fino a definire progressivamente in essi il personale progetto di vita. Nel caso della comunità ecclesiale, questo processo comporta l’acquisizione e il consolidamento dei contenuti dell’esperienza cristiana, la partecipazione affettiva ai gesti e ai riti, il riconoscimento di una funzione magisteriale, l’adozione dei modelli proposti per la soluzione dei personali problemi.

    3. Si richiede inoltre l’esperienza soggettiva di essere accettato nell’istituzione. E questo suppone l’inserimento in una trama di rapporti né burocratici né formalizzati, un’ampia distribuzione di informazioni e di ruoli, un insieme di persone non troppo vasto.

    4. In un tempo di pluralismo, si richiede infine la capacità di armonizzare a livello personale le diverse appartenenze, per elaborare i conflitti che ne scaturiscono, integrando e controllando le differenti proposte attorno ad un’appartenenza che funzioni come riferimento totalizzante.

    Questi brevi cenni danno certamente da pensare a chi è impegnato per consolidare la relazione dei giovani con la Chiesa e vogliono ricaricare le singole comunità di una responsabilità piena nei loro confronti.

    Gli interventi riguardano i due partner della relazione.

    I giovani vanno aiutati a scoprire il vero volto della Chiesa, le esigenze e le qualità normative che l’attraversano: il riferimento non può correre verso «la Chiesa che mi piace», dimenticando o contestando il volto reale della Chiesa che Gesù ci ha consegnato. Le diverse esperienze che sono realizzate nella prassi pastorale attuale (penso, per esempio, al collegamento con i movimenti o alla vita di gruppo…) sono preziose in questa direzione, alla condizione che permettano l’incontro con la Chiesa nella sua autenticità e conducano progressivamente ad essa, superando ogni tentazione di chiusura e di autosufficienza..

    Molti compiti riguardano però la comunità ecclesiale. La creazione di uno spazio dove i giovani si sentano di fatto accolti, la fiducia e la responsabilizzazione di cui si riconoscono avvolti, il «posto» che loro è riservato nella struttura istituzionale… sono, per esempio, condizioni irrinunciabili per consolidare l’appartenenza. Non bastano quindi le belle parole né sono sufficienti gli impegni concreti: tutto deve passare attraverso la soggettività di ogni persona, perché solo in essa si può concludere: «si sono accorti di me, quindi mi amano e mi apprezzano».

    L’urgenza di armonizzare le diverse appartenenze, in cui si distende la giornata dei giovani nell’attuale situazione culturale, è una questione davvero spinosa. Merita un’attenzione speciale. Gliela riservo nel paragrafo che segue.

    Ripensare i luoghi tradizionali

    Lo spostamento verso la vita non vanifica il significato dei luoghi tradizionali della comunità ecclesiale. Al contrario, li rilancia in una figura nuova e profondamente urgente: essi devono diventare luoghi dove i giovani possono sperimentare una relazione di amore, capace di restituire senso e speranza; sono un frammento di futuro nel ritmo duro del presente.

    Per dire quale può essere il loro senso e la loro funzione, per una comunità ecclesiale che ha scelto di piantare le sue tende là dove i giovani vivono, lottano, cercano di ragioni di speranza, mi piace pensare alla eucaristia.

    Un’eucaristia «fuori» della storia quotidiana sarebbe un gesto inutile e vuoto: l’eucaristia sollecita i cristiani, sempre tentati a leggere la propria esperienza solo dalla prospettiva del suo esito, quando asciugata ogni lacrima vivremo nei cieli nuovi e nella nuova terra, a misurarsi coraggiosamente con i gesti della necessità, nel tempo delle lacrime e della lotta. L’eucaristia però immerge nel futuro la nostra piena condivisione al tempo: in quel frammento del nostro tempo che è tutto dalla parte del dono insperato e inatteso. Dalla parte del futuro, il presente ritrova la sua verità, il protagonismo soggettivo accoglie un principio oggettivo di verificazione.

    Nell’eucaristia il passato ritorna come memoria, efficace e solenne, delle cose meravigliose che Dio ha compiuto per noi, prima fra tutte la trionfante vittoria di Gesù sulla morte, per la vita di tutti.

    In questa discesa verso la sua verità, siamo sollecitati a restare uomini della libertà e della festa, anche quando siamo segnati dalla sofferenza, della lotta e dalla croce.

    Cantando i canti del Signore in terra straniera, la riscopriamo la nostra terra, provvisoria e precaria, ma l’unica terra di tutti. Cantando i canti del Signore, la «terra straniera» diventa la nostra terra, proprio mentre sogniamo, cantando, la casa del Padre.



    [1] KEHL M., Dove va la Chiesa? Una diagnosi del nostro tempo, Queriniana, Brescia 1998, 84.

    [2] MIDALI M. - TONELLI R. (edd.), L’esperienza religiosa dei giovani, Elle Di Ci, Leumann 1995-97. POLLO M., L’esperienza religiosa dei giovani. 2/1 e 2/2. I dati, Elle Di Ci, Leumann 1996.

    [3] «Evangelizzazione e testimonianza della carità» (Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per gli anni ’90).

    [4] Qualcosa si stava muovendo anche negli anni precedenti… ma i tempi non erano ancora pronti per quel coinvolgimento generalizzato che è facile constatare dalla fine degli anni ’80. È interessante, a questo proposito, l’appello del Card. Cé all’assemblea generale della CEI del maggio 1977, caduto poi nel vuoto: «Pongo ora un interrogativo: dopo il prossimo Sinodo dei Vescovi che tratterà della catechesi e rivolgerà una particolare attenzione ai giovani; dopo il Simposio dei Vescovi europei, del 1978, che avrà come tema i giovani e la fede; dopo un congruo cammino di preparazione delle Chiese locali, è pensabile un’assemblea dell’episcopato, o altra forma di incontro ecclesiale, sui problemi dei giovani e la proposta di fede?» (si veda Il Regno/documenti n° 11, 1977, 253).

    [5] Rimando allo studio di L. GALLO, Il senso di Chiesa, nel vol. 2/3 dell’opera già citata (pp. 119-134).

    [6] Molti dei temi qui accennati richiederebbero uno sviluppo approfondito ed esigerebbero distinzioni più puntuali. Risparmio l’uno e le altre, affidando il tutto alla sensibilità e alla competenza dei lettori.

    [7] Ho analizzato, con una certa abbondanza di particolari, questo inquietante problema nel capitolo terzo del mio libro Per la vita e la speranza. Un progetto di pastorale giovanile, LAS, Roma 1996.

    [8] Quattro indicazioni esprimono, secondo la mia riflessione, il centro dell’esperienza di Palermo e il lavoro successivo attorno al «progetto culturale»:

    1. La comunità ecclesiale pone i problemi della vita e della speranza di tutti come i suoi problemi «veri», quelli cui deve farsi sensibile nel nome del suo Signore e della sua fede.

    2. Cerca la compagnia, di là delle differenze, per risolvere più in fretta, più incisivamente, più universalmente, questi problemi (quelli della vita, del suo senso e della sua qualità, e della speranza). La necessità di ridefinire la propria identità ha come unica preoccupazione l’impegno di qualificare meglio le sue risposte.

    3. Riscopre la necessità di evangelizzare come espressione più alta di carità: i discepoli di Gesù annunciano il Vangelo come offerta di senso e di speranza nella diffusa situazione di ricerca, di incertezza, di disperazione e di morte.

    4. Consapevole che il problema fondamentale è di «qualità di vita», assume il compito coraggioso, da realizzare nella fantasia dell’amore e nel coraggio della compagnia con tutti, di ricostruire un progetto culturale per una qualità di vita a misura d’uomo.

    [9] Cito per tutti uno studio che il lettore affezionato ha già avuto modo di incontrare nelle pagine della rivista: POLLO M. – TONELLI R., Si può educare narrando?, in Note di pastorale giovanile 31 (1997), 6, 7-36.

    [10] Ricordo le pagine 99-112 di TONELLI R., L’avventura di diventare cristiani adulti, Elle Di Ci, Leumann 1994.

    [11] Per questo sono convinto che l’impegno attorno al «progetto culturale» verso cui è convocata la comunità ecclesiale italiana rappresenta una carta urgente e preziosa, in cui esprimere la responsabilità verso i giovani.

    [12] Considero «esperienza religiosa» l’insieme dei comportamenti (a prevalente natura «rituale») e degli atteggiamenti con cui una persona vive, in termini sufficientemente riflessi, la consapevolezza che ciò che dà senso alla vita e consistenza alla speranza è collocato «oltre» la propria esistenza, un dono sperato e almeno inizialmente sperimentato. Nasce all’interno del proprio mondo soggettivo, perché si tratta di sperimentare un fondamento alla propria esistenza e alle esigenze (per esempio di natura etica) che l’attraversano. Si sporge però oltre la propria soggettività, perché si è sperimentato quanto sia insufficiente fondare senso e responsabilità solo all’interno del proprio quotidiano vissuto.

    [13] MIDALI M. - TONELLI R. (edd.), L’esperienza religiosa dei giovani. 3. Proposte per la progettazione pastorale, Elle Di Ci, Leumann 1997.


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