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    La partecipazione alle progettazioni territoriali


     


    Pastorale giovanile e territorio /5

    Marco Zucchelli, Collaboratore per le Politiche Sociali – Caritas Diocesana Bergamasca

    (NPG 2006-03-39)

     

    Le condizioni nelle quali versa l’attuale società scoraggiano azioni creative di ripensamento. Insomma, fanno passare la voglia, assopiscono ogni tentativo di reazione, riducono a più miti consigli, suggeriscono moderazione e prudenza per convincere alla non-azione. Questo è il motivo per cui i giovani assistono ad un cristianesimo che si ritira nei luoghi omogenei di pensiero (parrocchia e movimenti). La parrocchia è necessaria, ma il suo senso non è quello di portare dentro il mondo ma portare fuori la speranza. Lo stesso dicasi dei gruppi parrocchiali e delle associazioni. Non hanno altro senso che attrezzare i partecipanti a frequentare i luoghi di tutti con l’intenzione esplicita di ripensarli in modo più «umano». Nella misura in cui la comunità cristiana coinvolge i giovani in parrocchia, deve aiutarli a finalizzare il proprio servizio alla crescita di una sensibilità comune nei confronti della storia. Non deve accadere che il servizio parrocchiale divenga un alibi per disinteressarsi della sorte degli uomini che abitano sul proprio territorio, o peggio una giustificazione al rinvio infinito della propria assunzione di responsabilità nei confronti dell’esistenza. Perché questo non accada, occorre che la dedizione al mondo da parte della coscienza non sia occasionale tema di qualche convegno, ma l’oggetto permanente ed esclusivo del pensiero e dell’azione pastorale, catechistica, liturgica e caritativa. 
    Da questo ricaviamo non solo il diritto, ma addirittura il dovere di «esserci». Oggi la partecipazione alle progettazioni territoriali attraverso la costruzione di un nuovo stato sociale, anche a partire dalla nuova legge quadro 328/00, può divenire diventare una faticosa eppure splendida sfida.

    d. Pier Codazzi
    (referente per l’ODL rapporti con la regione lombarda)
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    Premessa

    Nell’approfondire il tema oggetto dell’articolo, ci muoviamo lasciando sullo sfondo, quasi come assiomi, i seguenti elementi chiave:
    – il tema di una nuova civiltà secolarizzata che desacralizza la vita e frantuma l’omogeneità sacrale della parrocchia: in passato era il territorio ad «appartenere» alla Chiesa e a vivere i tanti aspetti della sua vita quotidiana (casa, lavoro, festa e tempo libero, malattia, morte, ecc.) come all’ombra del campanile. Oggi la Chiesa, che fa parte del territorio, è una delle tante possibili risorse. Nel territorio è chiamata a leggerne i cambiamenti, a interpretarne i bisogni, esercitando una forte capacità di ascolto e di discernimento. È però una, non l’unica, e neppure, per certi versi, la più ascoltata;
    – il tema di chi è il «povero», non solo da un punto di vista teologico, ma anche sociologico (richiama il concetto di povertà assoluta, relativa, di vulnerabilità sociale, di marginalità, di emarginazione sociale, ecc.);
    – la storia della Chiesa a servizio della comunità e dei poveri in particolare è fatta di idee illuminanti, segni profetici, capacità di intuire le risposte più utili ai bisogni dei tempi. È una presenza che continuamente ha cercato di trovare nuove strade capaci di accogliere e accompagnare le persone alla ricerca di un senso alla propria vita. È una presenza che ha sempre cercato di agire aprendosi al mondo, facendo del lavoro di rete il suo principale metodo educativo e pastorale;
    – qualsiasi intervento avviene in uno specifico territorio che ha una sua storia, una sua cultura, una sua tradizione sociale ed ecclesiale. È il bisogno di saper conciliare un mondo sempre più globalizzato con l’esigenza di «particolarizzare» l’attenzione e l’impegno nelle piccole «comunità territoriali»: non a caso il territorio è per i cristiani il luogo della presenza di Dio nella storia degli uomini.

    Il nuovo contesto istituzionale: cenni alla legge quadro 328/00

    La «Legge-quadro per la realizzazione del Sistema integrato di interventi e servizi sociali» (n. 328 del 8/11/ 2000), partendo dal riconoscimento che i mutamenti sociali in atto richiedono un nuovo approccio culturale, imposta una nuova cultura di intervento e delinea un impianto istituzionale e organizzativo degli interventi sicuramente, almeno sulla carta, nuovo e moderno.
    Non si parla più di assistenza o di beneficenza, di provvedimenti amministrativi settoriali, riparatori e residuali, ma si è cercato di disegnare un quadro nuovo delle politiche sociali che vuole riconoscere e perseguire piena dignità al complesso campo dei bisogni sociali, o meglio, piena dignità alle persone che, per cause diverse – momentanee o durature – vivono condizioni di debolezza, di disagio o di fatica: non più «utenti» discriminati e passivi di fronte alle prestazioni, dunque, ma «pari opportunità, inclusione sociale e diritti di cittadinanza» per «promuovere la qualità di vita» che influenzi e ricada sulla intera collettività. Da questo punto di vista, la nascita della legge 328 nel novembre 2000, più che aprire un nuovo scenario nell’ambito socioassistenziale, chiude un percorso culturale e storico che risultava improcrastinabile.
    Più che fare un’analisi sistemica della Legge, qui si evidenziano alcuni punti essenziali che, indipendentemente dalle possibili modifiche introdotte dalla Regione – il soggetto titolato alla programmazione dei Servizi Sociali –, restano capisaldi per il nuovo modello di Stato sociale. Non è infatti da dimenticare come, con il referendum confermativo di modifica costituzionale del 2001, la Regione sia oggi la principale titolare della programmazione sociale. La Regione Lombardia, ad esempio, sta attuando un suo modello (distinto e ben diverso da quello di tutte le altre Regioni italiane), grazie all’approvazione del Primo Piano Socio Sanitario (PSSRL) emanato negli scorsi anni.
    Richiamiamo allora alcune principali caratteristiche della legge 328/00:
    1. Il titolo della legge parla di un «Sistema di interventi e di servizi sociali», esplicitamente e marcatamente «integrato», cioè non più disperso in tante diverse norme, prestazioni, fonti di finanziamento e settori d’intervento. Nella legge non si parla più di assistenza o di beneficenza con i loro provvedimenti settoriali, riparatori e residuali. Si riconosce e persegue la piena dignità al complesso settore dei bisogni sociali, o meglio, si afferma la piena dignità alle persone che vivono situazioni di difficoltà.
    2. Non più interventi riparativi ma un sistema di protezione attiva che valorizzi le responsabilità e le capacità delle persone e delle famiglie. È il riconoscimento della soggettività della persona che non è «un bisogno», ma prima di tutto uomo e cittadino. In particolare, la legge continuamente richiama il ruolo della famiglia come istituzione chiave per qualsiasi intervento nell’ambito della protezione sociale.
    3. Passaggio da interventi «categoriali» ad interventi che pongono al centro la persona, le famiglie con le loro esigenze che mutano nei diversi cicli della vita. È un sistema pensato a carattere universalistico, cioè rivolto a tutti i cittadini. Ciò non vuol dire non avere una particolare attenzione alle forme di disagio: le persone, in quanto tali, hanno prioritario accesso ai servizi che il territorio porrà a disposizione per star bene.
    4. Da interventi disomogenei a livelli essenziali e uniformi definiti a livello nazionale (in particolare art. 22 della legge). Questo vuol dire creare un minimo di livelli di prestazioni uguali per tutti i cittadini, indipendentemente da dove essi vivono (sono i cosiddetti LEA – Livelli Essenziali di Assistenza).
    5. Da prestazioni rigide e «preconfezionate» a prestazioni flessibili e «personalizzate». Le prestazioni e i servizi dovranno essere «personalizzati», con l’offerta di interventi domiciliari, semiresidenziali a ciclo diurno e residenziali. Obiettivo è permettere alla persona di essere aiutata a scegliere quale servizio meglio risponde al suo bisogno.
    6. La progettazione e la gestione «a rete» degli interventi diventa il modello operativo e di riferimento per la realizzazione del sistema integrato dei servizi sociali. È il tentativo di costruire un sistema allargato di governo del sociale (governance) nel quale, accanto alla promozione e alla regolazione pubblica, convive la co-progettazione, con un esercizio di responsabilità comuni da parte dei soggetti pubblici, privati e sociali, dei soggetti istituzionali e non.
    7. Accanto e dentro il sistema di «rete», è da sottolineare anche come la legge abbia previsto il riconoscimento e la valorizzazione della «cittadinanza attiva». Si dà molto risalto al ruolo delle famiglie nel decidere di scegliere quale tipo di servizio è più vicino ai propri bisogni, di esercitare forme di controllo sui servizi posti in essere e di contribuire attivamente alla progettazione e realizzazione dei servizi.
    8. Il ruolo di regia è affidato ai Comuni (art. 6), come ente più vicino ai cittadini. Altri soggetti fondamentali per l’applicazione della legge quadro sono le Province (con un ruolo di supporto informativo e formativo – art. 7), le Regioni che esercitano un ruolo di programmazione, coordinamento e verifica degli interventi sociali, stabilendo sia gli ambiti territoriali per la costruzione dei Piani di Zona dei Comuni, sia costruendo un Piano regionale di riferimento (art. 8) e lo Stato che determina il Piano Nazionale dei servizi, ovvero i principi e gli obiettivi della politica sociale (art. 9).
    9. Ruolo fondante la realizzazione del sistema integrato è affidato al terzo settore. È tra gli elementi più qualificanti e innovativi (art. 1 commi 4 e 5). Aver riconosciuto la necessità di una valorizzazione della sussidiarietà sia verticale che orizzontale, vuol dire avere riconosciuto pari dignità a presenze che, a pieno titolo, possono partecipare sia alla fase della consultazione e della concertazione che a quella della cogestione. E questo avviene non solo nella fase di gestione, ma anche nel momento di programmazione, di individuazione delle priorità, dei bisogni e nella predisposizione dei progetti di intervento.

    Chiesa e cambiamenti sociali in atto: il senso di una presenza

    L’applicazione della legge 328/00 sta sollecitando la Chiesa ad una rinnovata attenzione al rapporto tra Chiesa e territorio e, in particolare, al rapporto tra Chiesa e «poveri»: un’attenzione che si traduce in impegno verso la costruzione di un tessuto sociale attento ai diritti e alla giustizia, un’intenzionalità pedagogica aperta al confronto e determinata nella edificazione della comunità, una concretezza di servizio alla comunità, in particolare verso coloro che non risultano rappresentati e non hanno voce.
    È importante osservare e ricordare come la partecipazione alla costruzione dei Piani di Zona (strumenti di programmazione e gestione dei servizi in un territorio sovracomunale) avviene non tanto e solo nella possibile fase di gestione di servizi, ma anche in quella di preparazione e programmazione. È cioè una presenza che chiede aiuto a tutte le risorse «riconosciute e operanti sul territorio» per conoscere i bisogni, per «pensare» le priorità di intervento, visto che i fondi sono comunque pochi e per saper portare, ciascuno con il suo specifico carisma, un contributo concreto alla costruzione del territorio più accogliente.
    È evidente che le finalità ecclesiali di una presenza, per loro natura, si estendono ben oltre le mediazioni socioculturali e legislative perseguite dalle istituzioni pubbliche, ma la testimonianza della carità, proprio perché inserita concretamente in un contesto territoriale, deve confrontarsi e avere la capacità di contribuire fattivamente alla realizzazione del bene comune.

    Chiesa e territorio: presenza, indifferenza o inutilità

    L’esperienza storica degli ultimi anni può portarci a definire con tre aggettivi il rapporto tra Chiesa e territorio.
    Se prendessimo come criterio di riferimento l’attuazione della legge 285/97 (legge che per la prima volta ha previsto una forte collaborazione tra Istituzioni pubbliche e soggetti del territorio, nella fase di programmazione e attuazione degli interventi per il mondo degli adolescenti e giovani) e chiedessimo ai direttori degli oratori di darci un loro parere in merito, probabilmente troveremmo una equa distribuzione delle risposte in queste tre affermazioni: «è stata ed è una esperienza molto utile»; «sono del tutto indifferente al problema in quanto Chiesa e territorio sono due entità diverse»; «ho tanto lavorato ma il risultato è stato di essere ‘usato’ da parte delle istituzioni pubbliche».
    Certamente le tre asserzioni sono espressione di differenti sensibilità ed esperienze sociali e pastorali.
    Stupisce però la presenza di un pensiero ecclesiale che ritiene «inutile», o peggio ancora «indifferente», il rapporto con il territorio, che considera la «politica» un argomento negativo, da non confondere con l’essere Chiesa, dimenticando cioè buona parte di quella «dimensione orizzontale» della fede che sa essere autentica solo se radicata in una realtà concreta, fatta di persone, servizi, istituzioni.
    Se volessimo prendere come esempio l’oratorio, non possiamo dimenticare come la sua identità non nasce dalla definizione netta dei confini della propria competenza e disponibilità o da contrapposizioni ideologiche con il mondo, quanto piuttosto da un confronto dinamico con il territorio: non è un facile slogan affermare che l’obiettivo di un oratorio è contribuire a costruire insieme una comunità in cui ciascuno si educa a spendersi per il bene comune.
    Non è da dimenticare, tra l’altro, che la partecipazione a questi momenti di lavoro istituzionale aiuta gli oratori a conoscere meglio la realtà di adolescenti e giovani che non frequentano più (o non hanno mai frequentato) l’oratorio. Questi ragazzi sono sempre «figli» di un territorio e dovrebbero essere oggetto di particolare attenzione da parte dei vari responsabili educativi ecclesiali anche – e a maggior ragione – se non frequentano i nostri ambienti.

    Gli obiettivi di una presenza

    L’esperienza di questi primi anni di lavoro per l’attuazione della 328/00 ci porta ad affermare che, al di là dei risultati raggiunti, ciò che conta è la costruzione di un processo che aiuti anche la Chiesa stessa a riflettere sul senso pastorale di una azione. Si può tranquillamente affermare che questa occasione è diventata uno strumento con cui la Chiesa riflette su se stessa e cerca di trovare nuove strade per una nuova e più qualificata presenza e testimonianza sul territorio.
    Se volessimo sintetizzare gli obiettivi pastorali, senza dare ad essi un ordine di priorità, li possiamo così identificare:

    * riscoperta e/o valorizzazione del territorio, inteso come luogo per testimoniare la propria fede, nella testimonianza del vangelo, a partire proprio dalla tutela e valorizzazione dei più poveri. In altri termini, utilizzare i nuovi spazi sociali che si aprono nella costruzione della «rappresentanza ai tavoli di zona», come spazio di testimonianza dell’attenzione della Chiesa verso gli ultimi. Ciò comporta una nuova capacità delle Chiese locali a conoscere meglio i bisogni del proprio territorio, saper riconoscere le priorità, saper valorizzare le proprie e altrui risorse, saper leggere con competenza i cambiamenti sociali in atto e le criticità emergenti;
    * ricercare e rafforzare gli elementi fondativi, condivisi e inalienabili del proprio impegno nel sociale fra gli operatori e i volontari che si ritrovano intorno alla Chiesa locale e che hanno deciso di impegnarsi in forme di rappresentanza. È la capacità di coniugare l’impegno nel sociale con l’impegno nel civile e, quindi nel politico, come luogo e spazio per la costruzione del «bene comune». È, più in generale, la necessità di abituarsi al metodo della programmazione condivisa, ovvero nella assunzione della consapevolezza che la programmazione (e gestione dei fondi) non è più e tanto una competenza «solo» dei Comuni, ma di tutti i soggetti che nel territorio sono risorsa: e la Chiesa ne è sicuramente una delle principali;
    * partendo da questa occasione storica, basata su un nuovo modello di servizi sociali che pone al centro non più il singolo Comune, ma un territorio più ampio – l’ambito – cioè un insieme di territori, valorizzare e promuovere la opportunità di costruire una rete fra le varie comunità ecclesiali e, più in generale, di tutte quelle forme di impegno sociale di gruppi e associazioni di ispirazione cristiana. In altri termini, questa nuova impostazione pone alla Chiesa la necessità di dotarsi di strumenti che superino la propria competenza territoriale e si sappiano aprire ad un territorio più complesso: nel caso di molte diocesi, gli ambiti territoriali e i vicariati. Se si fa fatica a vivere l’esperienza vicariale, possiamo immaginare la difficoltà a vivere la rete, la «comunionalità» con un territorio ancora più ampio. La costruzione del Piano di Zona allora deve portare il mondo ecclesiale a promuovere, presso le parrocchie, la opportunità di saper tessere una rete a maglie forti sui vari territori, con le realtà presenti e vicine alla sensibilità della Chiesa, tra le stesse parrocchie, imparando cioè a lavorare insieme, promovendo di fatto una intenzionalità pedagogica, indispensabile per far maturare la consapevolezza della necessità di costruire o potenziare Caritas Parrocchiali e Segreterie Vicariali, al fine di condividere, ove possibile, comuni rappresentanze;
    * saper essere in grado di proporsi, con un minimo di competenza, a partecipare agli uffici di piano e ai tavoli di lavoro, con l’obiettivo di saper rappresentare e tutelare i bisogni condivisi con la rete. Ciò avviene potenziando anche una possibile intenzionalità gestionale, che può prevedere la partecipazione diretta di gruppi di volontariato o delle chiese locali alla promozione, alla riprogettazione ed eventualmente anche alla gestione di servizi (servizi–segno, Centri di Ascolto, ecc.);
    * l’esperienza della attuazione dei Piani di Zona sta aiutando la Chiesa a capire il vero senso e ruolo della Caritas. Parlare di Piano di Zona, vuol dire affrontare il tema delle politiche sociali e non tanto dei singoli bisogni o servizi in atto o da attuare. I riferimenti sono la conoscenza dei bisogni, l’attenzione alle fasce più scoperte, la razionalizzazione delle risorse economiche, ecc. Nel contempo, per promuovere rappresentanza, è necessario coordinarsi, avere «qualcosa da dire», prima ancora che «da dare». L’attuazione dei Piani di Zona sta diventando un momento, appunto, per capire l’importanza di un luogo che si ponga soprattutto in un’ottica di riflessione sul «diritto allo star bene» e sul ruolo, come Comunità, di saper evangelizzare a partire dai poveri;
    * la partecipazione, come Chiesa, alla costruzione di uno strumento territoriale come i Piani di Zona, che si situa a cavallo di un impegno sociale e un impegno politico, diventa un valido strumento per rimotivare o dare significato concreto ad una presenza dei laici alla costruzione di un territorio a misura d’uomo. La rappresentanza non è tanto espressione dei presbiteri, quanto soprattutto momento per valorizzare le competenze laicali: ciò che conta è avere la consapevolezza che queste persone hanno un «mandato» che le porta a rappresentare la Comunità ecclesiale, a parlare ed essere espressione di una comunità attenta e desiderosa di contribuire alla costruzione di una città solidale;
    * per dare ascolto al proprio territorio, per dare voce ai bisogni delle povertà, per dare parola ai bisogni più dimenticati o nascosti, per dare corpo a interventi di reciprocità e valorizzazione della comunità, per dare un’anima alla utopia di un quotidiano più vivibile, occorre costruire percorsi che sappiano dare «competenze» non solo tecniche ma anche pastorali alle varie persone che, in diversi modi, partecipano alla costruzione dei Piani di Zona. Non ci può essere, ai vari tavoli di lavoro, una presenza insignificante, che non ha nulla da dire: la riscoperta del momento formativo diventa essenziale per dare credibilità, serietà e futuro ad un progetto di costruzione di un territorio. Per questo è importante, ad esempio, prevedere la costruzione di un gruppo di lavoro stabile, formato dai collaboratori ecclesiali di ogni ambito e un supporto tecnico per la costruzione di percorsi formativi e/o informativi sulla legge 328/00 e, più in generale, sui cambiamenti delle politiche sociali.

    Una storia: Robin Hood e lo sceriffo di Nottingham

    Mi è piaciuta l’applicazione della storia di Robin Hood alle vicende del volontariato che il sociologo Alessandro Castegnaro ha rielaborato, presentando due modi, entrambi sbagliati, di concepire il rapporto tra volontariato e le istituzioni pubbliche. Parafrasando ulteriormente questa sua lettura, mi piace pensare a questa storia come modo per rileggere il rapporto tra Chiesa e istituzioni di un territorio, almeno come appare dalla esperienza dei Piani di Zona.
    1. Il primo modo è di chi ama stare lontano dalle istituzioni e punzecchiarle dall’esterno, evitando però di farsi coinvolgere. Lo sceriffo (le istituzioni) può continuare a fare le sue «nefandezze», tassando i poveracci, derubandoli, non proteggendoli dalle disgrazie della vita. Robin Hood lo punzecchia con le sue frecce, quasi contento della situazione che gli ha permesso di ritagliarsi un suo ruolo e sempre in attesa di nuove situazioni che gli permettano di lanciare nuove frecce: Robin Hood non si sente responsabile della situazione. È un modello di Chiesa che non si vuole sporcare le mani: anche se lo sceriffo rinsavisse, continuerebbe a restare fuori, in attesa e nella speranza di nuove accuse da lanciare: «Tanto fanno quello che vogliono, sicuramente non cambierà nulla, altri sono i nostri obiettivi educativi e pastorali, ecc.», sono le frasi più comuni.
    2. Un secondo modo di concepire Robin Hood è quello di non contrapporsi alle istituzioni, allo sceriffo, lasciandolo fare. Suo compito non è quello di criticare, ma di occuparsi dei bisogni della gente. «Poche polemiche, rimbocchiamoci le maniche, mio compito è aiutare il prossimo, chi ne ha bisogno», tanto più che molte delle ferite della povera gente non dipendono dallo sceriffo ma dalla sfortuna della vita (un incidente, una disabilità, ecc.). È un modello di Chiesa che dice: «niente politica, ma solo servizio». È una Chiesa che corre il rischio di essere solo uno strumento assistenzialista. Se lo sceriffo rinsavisse, questo modello di Chiesa affermerebbe che comunque non ha tempo per discussioni, perché i bisogni sono molti e pochi gli uomini di buona volontà: già aiutare il prossimo costa fatica, non fatemi fare altra ulteriore fatica nel pensare.
    Vorrei aggiungere altri due modi, forse più realistici e presenti in questi momenti nei quali si stanno attuando e/o riscrivendo i Piani di Zona. Userò ancora la storia di Robin Hood.
    Partiamo dall’idea che la conversione dello sceriffo (le istituzioni pubbliche) non sia completa. Pur avendo l’idea che i dolori della gente siano grandi ed estesi, è convinto che, molto spesso, i mali la gente se li va a cercare, oppure, più semplicemente, non è in grado di poterli risolvere tutti. Egli ha aperto il castello perché non ce la fa ad affrontare tutti i bisogni sociali e cerca aiuto, a poco prezzo e contando sulla buona volontà di alcuni che però non creino problemi.
    3. Un terzo modo è quello di una Chiesa che compiangerà lo sceriffo e cercherà di tamponare le falle della società con il suo lavoro socialmente utile, non ponendosi però troppe domande. Si trasformerà in un portatore di acqua a sostegno di chi non vuole assumersi le proprie responsabilità. È una modalità proprio contraria a quello che la dottrina sociale della Chiesa definisce come l’esigenza di dare a ciascuno ciò che gli spetta per diritto e non per assistenzialismo, o per la «bontà di qualche assessore o sindaco».
    4. Un quarto modo prevede che, responsabilmente e consapevolmente, lo sceriffo chieda un aiuto collaborativo e corretto. Rappresentanti della realtà ecclesiale entrano felicemente nei tavoli di lavoro, ma vi entrano con le «brache in mano», senza avere riflettuto, senza sapere esattamente cosa dire, in ordine sparso rispetto agli altri «gruppi», con idee troppo diverse. Il suo apporto non servirà molto allo sceriffo, anzi, sarà inutile. Però questo modello di Chiesa si sentirà blandito dall’idea di potersi sedere al tavolo dove «si decide». Le sue frecce ammuffiranno facilmente. Si perderà quel ruolo critico, di stimolo e di denuncia che prima svolgeva.

    E adesso...

    In un tempo caratterizzato da una forte ristrettezza economica che contrae le risorse disponibili per garantire la qualità della vita a tutti i cittadini, da un modello culturale liberista che sembra valorizzare in modo ideologico il principio della libertà individuale a scapito di princìpi più di solidarietà e condivisione, sempre più anche alla Chiesa è chiesto un aiuto per rispondere ad alcuni bisogni: molto spesso è una richiesta di aiuto «funzionale», legata cioè al mantenimento o al potenziamento di servizi e quasi mai è una richiesta di aiuto per pensare, per capire, per costruire progetti.
    È altrettanto vero però che anche le nostre parrocchie si muovono spesso in modo scoordinato e frammentario. Spesso si sentono domande di questo tipo: a chi fare riferimento per un problema? Chi è in grado di «tirare le fila?» Siamo in grado di coordinare una presenza e dare spazio a forme di rappresentanza nel rapporto con le Istituzioni? Siamo in grado di pensare ad un rapporto costruito su basi nuove, diverse dal passato (quando bastava un semplice accordo sulla parola tra parroco e sindaco per risolvere un problema)?
    Al di là delle discussioni teoriche e dei facili slogan, allora, partecipare alla costruzione di una comunità nella quale ciascun cittadino, nessuno escluso, possa «star bene», per le varie comunità cristiane credo significhi intraprendere o ampliare almeno sei piste di lavoro. È evidente che non si parte da zero: bisogna essere in grado di usare gli strumenti che nascono dalla propria tradizione storica cercando di ripensarli, con umiltà e buon senso, alla luce dei cambiamenti sociali e istituzionali previsti dalle politiche sociali.

    1. Imparare a leggere i bisogni. Parliamo di poveri che hanno un volto, che abitano in un territorio: cosa vuol dire essere povero in «questo territorio»? Non ha senso richiedere uno spazio di presenza ai vari tavoli di lavoro dei Piani di Zona se poi mi ritrovo a non avere nulla da dire. C’è oggi un bisogno assoluto di condurre un’analisi approfondita dei bisogni sociali. Da dove nascono, come si possono prevenire. In questo le comunità ecclesiali possono dire molto, se molto hanno pensato. Il disagio ha sempre più spesso origini socioculturali, è espressione di una società culturale. Noi non possiamo permetterci di non avere tempo per «pensare», per creare consenso, per creare solidarietà. In un’ottica ecclesiale, è questo uno dei punti qualificanti della presenza di Caritas nelle parrocchie: strumento pastorale per pensare come riuscire a coinvolgere tutta la comunità ad essere sempre più attenta e testimone della carità.
    2. Imparare ad «esserci». La presenza ai vari tavoli di lavoro istituzionali per la costruzione della programmazione del territorio, pur se faticosa e a volte infruttuosa, è un elemento chiave nel rapporto tra Chiesa e territorio: è un diritto da reclamare con forza, ma è anche e soprattutto un dovere. Partecipo perché ho qualcosa da dire, per contribuire a presidiare, a salvaguardare e tutelare i diritti di cittadinanza di tutti, in particolare di chi non ha voce: partecipo non perché sono «contro qualcuno», ma per tutelare i «diritti di qualcuno».
    3. Imparare a rappresentarsi. Sul concetto di rete tra parrocchie si è già scritto molto. I Piani di Zona sono la cartina di tornasole che evidenziano la fatica di costruire reti di rappresentanza tra comunità ecclesiali. Eppure chi siede ai tavoli istituzionali, lo fa perché rappresenta un mondo complesso e non solo la propria parrocchia. L’obiettivo del lavoro di rete però non è tanto nel risultato finale (che pure dovrà essere raggiunto), quanto piuttosto nel costruire fili e legami tra parrocchie, fili e legami nella «propria parrocchia»: è la testimonianza dell’amore di Dio che si esprime nella capacità di costruire comunione nella e tra le comunità.
    4. Imparare a porre servizi-segno. È la concreta volontà e disponibilità della parrocchia a porre, nella propria comunità, gesti visibili di un’attenzione della Chiesa ai bisogni del territorio. È un’opportunità concreta per investire risorse della comunità, per porre un gesto profetico di attenzione a chi ha meno attenzione. È il segno di una richiesta di giustizia sociale e non di assistenzialismo fine a se stesso. È uno dei tanti modi per testimoniare la carità, vivendola nella intera comunità.
    5. Imparare a promuovere un volontariato. Tra i tanti volontariati oggi esistenti, la Chiesa continua a sostenere in modo particolare un volontariato che fa della gratuità e della relazionalità due delle sue caratteristiche fondanti: è un volontariato che vuole essere una proposta di stile di vita per tutta la comunità e non un modo per delegare a «qualcuno» il compito di affiancare, magari a basso costo, situazioni di bisogno. Il «povero» è della comunità, è «comune a tutti gli uomini» e non è di qualcuno investito da una delega in bianco.
    6. Imparare a fare politica nel territorio. Oggi assistiamo al passaggio da una società a legami forti, e quindi con un forte senso di appartenenza, ad una società che dà libera all’iniziativa e all’autonomia del soggetto, indebolendo i propri legami. Se si indebolisce il senso di appartenenza al gruppo e lo si sostituisce con una sorta di autoreferenzialità individualistica, il senso di cittadinanza diventa più fragile, si ha un insieme di piccoli sistemi «chiusi» l’uno rispetto all’altro. Ciascuno cerca di tutelare i suoi interessi. Ciascuno ha paura dell’altro. Ciò che sempre più sta venendo a mancare è allora l’impegno a tradurre sul terreno dell’azione politica il valore della solidarietà. Le scelte partitiche non riguardano la Chiesa: le scelte politiche, la costruzione del «bene comune» possibile, sì. Ci è chiesto di recuperare il senso e la bellezza dell’essere nel territorio. Recuperando la famosa espressione di Paolo VI laddove sosteneva che la politica è la più alta espressione della carità cristiana, il fare politica è certamente il bisogno, il desiderio di pensare in grande, di sognare e di credere che è possibile costruire un territorio più a misura d’uomo, di tutti gli uomini.

    Come si è cercato di sottolineare, a più riprese e in modi diversi, l’attuazione della legge 328/00 è una grossa occasione per riscoprire il senso e il significato del territorio e, in particolare, del rapporto tra Chiesa e territorio. Con quale diritto noi reclamiamo un’attenzione ai poveri, se noi stessi facciamo fatica a riscoprire il valore della povertà, il valore dell’essere Chiesa povera a fianco dei poveri? È forse l’occasione per porre gesti concreti, servizi segno, per maturare una nuova consapevolezza della nostra testimonianza della carità vissuta come comunità.
    È sempre più necessario avere a cuore il destino delle persone, specialmente di quelle che non hanno voce per esprimere il loro disagio e la propria sofferenza. Soprattutto lo sforzo è di riuscire a capirle, a rappresentarle, a proporre risposte più efficaci, a fare un cammino con loro, vedendo in essi il Volto di un Dio che ama, che tramite noi cerca di entrare nella vita delle persone e di comunità.
    È il desiderio di contribuire alla costruzione della «città terrena secondo i valori della giustizia, della solidarietà e della pace».


    T e r z a
    p a g i n A


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