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    Raccontami... un'altra storia



    Giuseppe Berretta

    (NPG 2005-08-52)

    Una volta la nonna raccontava le favole ai suoi nipotini. Favole che disegnavano i mondi colorati della fantasia, abbastanza verosimili per risvegliare l’incanto del desiderio e il bisogno dell’emulazione. Sull’orizzonte del racconto di favola, l’eroe intrepido, perseguitato, sofferente, vincente emergeva come simbolo ideale e modello di identificazione. Quando il veicolo narrativo era la voce suadente della persona cara, l’immaginazione del bambino si lasciava andare senza remore al gioco della creazione di un infinito universo di paesaggi e interazioni, un universo possibile e rassicurante, perché costruito a propria immagine e somiglianza con la materia prima della fabula ascoltata e del lavoro della propria fantasia. Era questo il primo modo, il più semplice e il più compiuto, di conoscere il mondo reale. Da qui partiva il faticoso viaggio di esplorazione delle cose e degli uomini destinato a durare tutta la vita.
    È così che la mia generazione ha imparato ad apprendere: seguendo il filo rosso del sogno e dell’invenzione, e costringendo le creature dell’immaginario a misurarsi ogni giorno con la realtà. Per molti di noi quel mondo incantato rimane ancora il più sicuro rifugio nei momenti in cui l’ansia, la stanchezza, le delusioni minacciano di travolgerci e di farci perdere la rotta nel mare in burrasca della vita.
    Il tramonto della cultura rurale e della famiglia patriarcale, gli sconvolgimenti bellici del Novecento, l’avvento della civiltà industriale, hanno modificato radicalmente i modelli della comunicazione e di allevamento dei bambini. Le famiglie sono diventate meno numerose, e in queste la presenza dei nonni sempre più rara, il tempo da dedicare ai figli si è di fatto davvero esiguo, e all’elettrodomestico principe di casa, la televisione dalle mille risorse, abbiamo finito con l’assegnare il compito di baby-sitter dei nostri bambini.
    Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, la stampa e la radio dominavano il campo della comunicazione di massa: entrate prepotentemente in tutte le case, avevano dato una forte spallata ai microuniversi della comunicazione domestica. Nei miei ricordi ci sono ancora i fotoromanzi e le riviste patinate che hanno affascinato generazioni di signorinelle e casalinghe, gli eroi di carta dei fumetti e delle interminabili raccolte di figurine adorati dai ragazzi, le smaglianti trasmissioni radiofoniche (da I quattro moschettieri dell’EIAR ai radiodrammi, da Sorella Radio a Gran Varietà) che inchiodavano le intere famiglie in silenzio davanti agli apparecchi.
    Ma c’è anche il ricordo e la suggestione del cinema. Il cinema come premio di assiduità all’oratorio, o come momento di svago familiare, rappresentò la più coinvolgente delle esperienze di comunicazione. Lo scenario del grande schermo, così simile alla nostra fantasia, divenne il contenitore naturale dei sogni che ciascuno avrebbe desiderato sognare, e il firmamento del cinema si popolò di un nugolo di stelle, eroi di celluloide, destinate a popolare l’immaginario individuale e collettivo, a vivere in questi una vita propria, e perfino a determinare azioni e scelte di vita.
    Più tardi la televisione. Sull’onda del boom economico degli anni Sessanta, la televisione rappresentò in Italia il primo grande strumento di coagulo della cultura di massa. Per il piccolo schermo, ancora in bianco e nero, passarono l’informazione e i grandi eventi raccontati in audio e in video in tempo reale (come non ricordare il saluto di papa Giovanni in piazza San Pietro la sera del giorno d’apertura del concilio Vaticano II, o le immagini dell’assassinio di Kennedy a Dallas, o quella sera del 21 luglio del ‘69 quando, con le voci tremanti di emozione, Stagno e Paternostro vivevano insieme agli Italiani l’ebbrezza della conquista del suolo lunare). Ma passarono anche le grandi opere della letteratura universale, del cinema e del teatro; nuovi tentativi di alfabetizzazione di base (come la felice trasmissione del maestro Manzi «Non è mai troppo tardi»); nuove forme di catechesi e di conforto dello spirito («In famiglia», «Chi è Gesù», «La Posta di Padre Mariano»); e ancora l’intrattenimento, lo spettacolo, la musica, le canzonette e lo sport. Il coinvolgimento televisivo ha certamente caratterizzato la seconda metà del secolo, tanto da far pensare ad una nuova unità d’Italia, a distanza di cento anni!
    Sulla trama di questi tessuti narrativi si è modulata la nostra storia recente. Le storie di ciascuno e di tutti, che in altri tempi erano affidate all’abilità narrativa dei vecchi, sono state poi raccontate dai giornali e dalle riviste patinate, dalla radio e dalla televisione. La narrazione continua, come la vita.

    Riprendere il filo della storia

    Altre volte, in questa rubrica, ho parlato della scuola come luogo privilegiato dell’incontro generazionale. Nella scuola – che per molti versi è continuazione della famiglia – il rapporto dei giovani con gli adulti si dilata, si approfondisce e si trasforma. È nella scuola che viene tessuta la trama della continuità culturale, mediante le spole della formazione e dell’informazione su cui corrono i fili del tempo e della memoria. Ai più piccoli, nella scuola primaria, la maestra racconta e si racconta: nel proporre il loro mondo ne definisce i tratti essenziali, tracciando le linee sulle quali comincerà a muoversi la generazione futura. La funzione chiave della maestra, infatti, non è quella di trasmettere competenze astratte o di distillare nelle menti degli allievi conoscenze ripulite di ogni possibile scoria, bensì quella di aprire le loro intelligenze al mondo reale, fatto di straordinarie conquiste, ma anche di contraddizioni e di segreti, un mondo fascinoso e spesso incomprensibile, che si può raccontare solo attraverso il racconto di se stessi. Per questo la maestra, che lo voglia o no, è comunque coinvolta in una relazione personale che si gioca di fatto non su ciò che dice ma su ciò che è. Ed è qui il mistero della conoscenza umana: il senso delle cose non sta nelle cose ma nella parola dell’uomo.
    Pensando a quello che ancora in larga parte è l’insegnamento nella scuola di base, ho sempre trovato molto interessante la categoria della narrazione come chiave di lettura dell’esperienza della comunicazione educativa in genere, e in particolare della trasmissione dei saperi nella scuola.
    Il concetto di narrazione riporta a quello di storia e di storie. Si narrano storie che sono vere (anche quando si tratta di favole) perché il loro significato ultimo è assolutamente vero. Tutte le storie sono visioni dell’esistenza tradotte in parole e consegnate alla memoria dell’umanità. Ogni storia, attraverso la voce di chi racconta, parla di tempi e di luoghi, di passioni e di speranze, di inganni e delusioni. La storia rivela il suo senso a poco a poco e mai per intero, quando traccia direzioni e indica orizzonti, quando non definisce confini e non si chiude, lasciando il prezioso dono dell’attesa, che il bambino ingenuamente esprime reiterando la sua richiesta: «Mamma, raccontami un’altra storia…».
    Nella filosofia, nella letteratura e nell’arte (ma oggi anche in molti ambiti scientifici), è ricorrente l’intuizione che tutte le conoscenze passano attraverso le storie. Platone fu un grande narratore di miti, la Bibbia è un immenso contenitore di storia e di storie, i romanzieri dell’Ottocento hanno raccontato le piccole storie umane intrecciate alla storia dei popoli, i filosofi – in particolare i postkantiani – hanno cercato con insistenza vie di interpretazione delle storie mediante la storia. L’arte è il contrappunto della storia. Ciò che non avremmo mai potuto sapere e vedere, ci è raccontato con dovizia di particolari dalle opere d’arte dell’umanità: le antiche necropoli, la pittura murale e l’iconografia di ogni tempo, le piante delle città e i loro monumenti, le opere musicali, ci narrano le storie infinite degli uomini, quelle storie che, svelandoci il senso possibile delle cose, ci fanno sensibili al dolore dell’universo e ci rendono più umani.[1]
    E proprio da un punto di vista antropologico, nelle sue dimensioni della verticalità (il flusso del tempo) e dell’orizzontalità (gli spazi di relazione), la narrazione orienta il sogno di conoscenza dell’uomo, e si fa crogiolo di cultura quando, tracciando la planimetria della storia, proietta la vita al di là della vita e permette all’uomo di elaborare il sentimento schiacciante della mortalità a cui lo incatena l’esperienza della vita stessa. Così, se raccontare è raccontarsi, l’incontro narrativo rappresenta anche il crocevia generazionale attraverso cui passa il dialogo tra i popoli e la loro stessa storia.
    Pure, le società di oggi – caratterizzate da un alto livello di complessità culturale – non sembrano coltivare il sentimento del tempo e gli spazi relazionali: in esse l’individuo tende a curvarsi sulla temporalità puntiforme del presente, inseguendo l’attimo fuggente e rimuovendo con forza l’idea della morte. In tale solitudine la conoscenza si sbriciola in una pletora di nozioni segmentali, l’apprendimento si risolve nell’acquisizione di specifici tecnicismi, i patrimoni culturali sono affidati ai supporti cartacei e agli strumenti della comunicazione elettronica.
    È inevitabile che la scuola – specchio dei tempi – rifletta il profondo disagio di questa condizione. La pressante richiesta di informazione e di competenze ha ingolfato la progettazione didattica, riversando sugli insegnanti un mare di attese devianti e improprie. L’educazionale è la giungla rigogliosa dove si nascondono queste insidie: alla scuola è demandato il compito di educare alla conservazione della salute, di prevenire le malattie, di evitare le dipendenze dal fumo, dall’alcool e dalle sostanze psicotrope; alla scuola si chiede di inculcare nei giovani i principi e le regole della corretta alimentazione e di una sana abitudine all’attività sportiva; le viene delegata tout court la grave responsabilità di educare al sesso e alla sessualità (ma come, ex cathedra? e chi dovrebbe farlo, e quando?); e si chiede ancora alla scuola di provvedere al rilascio della patente per la guida dei ciclomotori, o di trasformarsi in agenzia viaggi per l’organizzazione low cost di gite ed escursioni che troppo spesso nulla hanno a che fare con l’attività didattica. E così via.
    In questo svagato orizzonte di domande e di risposte improbabili, alunni e insegnanti sembrano arrancare nello smarrimento e nel disincanto. L’istruzione va perdendo il suo senso, la continuità dell’apprendimento è tradita dall’ossessione della modularità e dalle interrogazioni programmate, l’assiduità alla frequenza e la disciplina sono divenuti degli optional aleatori; molti sono ormai i ragazzi che si aspettano dalla scuola solo la pagella finale, e molti docenti (più chiaramente quanto più si sale per i gradi dell’istruzione) vivono nell’incertezza di capire cosa devono insegnare e a chi.

    Il sapore del sapere

    È la fine della scuola?
    Non è detto. Al di là del facile catastrofismo e del prevedibile declino dei nostri modelli di scuola, credo si possa pensare che nel cuore di questa apparente dissoluzione di strutture e di valori si nasconda uno stato nascente, una possibilità a venire, ancora ignota e indefinita, ma piena di vigore e di vitalità. Il primo compito di noi operatori scolastici – ma anche di utenti e di comuni cittadini – non è quello di levare al cielo sterili lamentazioni, ma di coltivare quello stato nascente con tutte le forze di cui disponiamo. Si tratta di investire in fiducia e speranza, ma soprattutto di agire. Una pista d’azione è quella di tornare a tessere forti legami creativi e ambiti di autentiche relazioni. Rimettersi veramente in gioco, riprendere il filo della storia. Poiché – com’è stato ribadito in un recente incontro a Milano – siamo fatti di storie, e ciascun uomo è la sua storia, «lo spazio dell’insegnare è ancora uno spazio possibile di libertà e di scommessa sul sapere, a condizione che questa libertà si abbia il coraggio e la serenità di prendersela. Perché ragazze e ragazzi siano coinvolti in una ricerca condivisa, aperta alle loro domande e ai loro desideri. Perché la cultura torni ad essere una straordinaria riserva di parole a disposizione per umanizzare la nostra umanità».[2]
    Riappropriarsi dunque dell’attitudine narrativa per riconquistare lo spazio e il tempo perduti. Ma come?
    Smettendola, per esempio, di insegnare per assunti e definizioni senza avere il coraggio di oltrepassare i confini e cercare il senso nascosto delle cose, il sapore del sapere (sàpere). Dietro un teorema matematico o un’equazione algebrica, dietro una formula di fisica (penso alla legge di Newton sulla gravitazione universale, o alla formula della relatività di Einstein) c’è la storia di una passione e di una ricerca. Smettendola di frazionare i saperi in percorsi disconnessi dai grandi flussi storici, in moduli monovalenti senza richiami evocativi e senza memoria. Smettendola di considerare le tecniche dell’analisi testuale, non strumenti complementari, ma principi e fondamenti della competenza linguistica, e avere l’umiltà di ritornare a quelle esercitazioni semplici ed essenziali che sono le operazioni di sintesi, di composizione a tema, di lettura e rilettura ordinate, di memorizzazione di testi, di commento, di libera creazione.
    A questo punto penso che se molti potranno trovarsi d’accordo sul fatto che una corretta comprensione dell’Infinito leopardiano implica la contestualizzazione globale del testo (sulle linee della biografia e dell’opera dell’autore, dell’ambientazione storica nella quale si colloca, degli intendimenti espliciti e inconsci ai quali risponde) e quindi su una possibile ermeneutica della narrazione in funzione della letteratura, molti altri avanzeranno severe riserve ove si parli, anziché di opere artistiche e letterarie, di argomenti rigorosamente scientifici.
    Voglio citare a questo proposito Umberto Eco che, in una sua Bustina di Minerva,[3] si schiera «tra coloro che ritengono che anche il sapere scientifico debba prendere la forma di storie». E ricordando come già Euclide, per comunicare cosa fosse un angolo retto, non ne dava la definizione, ma ne raccontava passo dopo passo la costruzione, afferma che «il sapere si propaga attraverso storie», e che «il nostro sapere (anche quello scientifico, e non solo quello mitico) è intessuto di storie». Nell’universo della fantasia umana infatti «per creare storie si immaginano mondi, e l’universo della realtà, dove per permetterci di capire il mondo si creano storie». È una posizione non isolata né nuova nell’attuale dibattito sull’epistemologia e la didattica delle scienze.
    Già negli anni Ottanta Lyotard – fine analizzatore dei molteplici aspetti della postmodernità – sosteneva la priorità del pensiero e delle forme narrative nella costruzione del sapere, nelle civiltà più evolute, rispetto al sapere scientifico, assegnando quindi la funzione di trasmissione e di elaborazione delle conoscenze alla narrazione.
    E individuava nella crisi dei grandi racconti, capaci di organizzare i saperi in modo organico e gerarchico, la ragione della diffusa difficoltà di dare oggi una rappresentazione esaustiva e tranquillizzante della realtà, in grado di ridurre la complessità nella quale ci troviamo a vivere.[4] Sulla base di quanto detto finora, in una scuola che cambia col cambiare dei tempi, nel disorientamento generato dalla complessità culturale e dalla perdita delle tradizionali bussole pedagogiche, vale la pena di tentare il recupero di quella che ho descritto come dimensione narrativa della conoscenza. Il che significa ripensare, nell’approccio ai saperi a tutti i livelli, alla possibilità di veicolare le singole unità di apprendimento in ampie contestualizzazioni narrative capaci di svelare il senso delle cose attraverso la trama dell’esperienza personale, delle vicende umane, del gioco creativo della fantasia; e adottare, nella dialettica della comunicazione insegnante-alunni, quella che Antonio Nanni chiama la pedagogia narrativa, ove il narrare non è oggetto, ma soggetto dell’azione formativa della scuola, «Come dire: educare narrando, dare un impianto narrativo al percorso educativo, concepire l’educazione non solo come tempo e luogo delle spiegazioni, della trasmissione del conoscere, ma anche come ascolto reciproco tra soggetti narranti».[5]

     
    NOTE

    [1] È appena da ricordare il verso virgiliano «Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt» (Eneide, I, 462), che traduco molto liberamente: «Il dolore dell’universo ci tocca il cuore».

    [2] Incontro di Retescuole «Felicità Sottobanco» – Milano S. Babila, Sala San Carlo, 7 maggio 2005.

    [3] Ecco l’angolo retto, nella rubrica La bustina di Minerva, in L’Espresso, 28 aprile 2005.

    [4] Jean Froncois Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli Ed., Milano, 1981.

    [5] Antonio Nanni, La pedagogia narrativa: da dove viene e dove va, in Raffaele Mantegazza, a cura di, Per una pedagogia narrativa, EMI, Bologna, 1996.


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