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    Dio della mia allegria (Salmo 43)



    Maria Giovanna Noccelli

    (NPG 2005-07-73)


    «Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa contro chi è senza pietà;
    dall’uomo iniquo e perfido, dall’uomo ingannatore salvami;
    tu sei il Dio della mia fortezza, perché mi respingi?
    Perché triste cammino sotto l’oppressione del mio nemico?
    Manda la tua verità e la tua luce, siano esse a guidarmi
    mi portino al tuo monte santo, alle tue dimore.
    Io salirò all’altare di Dio, al Dio della mia allegria e della mia gioia.
    A te renderò grazie con la cetra, o Dio, Dio mio.
    Perché ti abbatti, anima mia, perché ti agiti dentro di me?
    Sta’ in attesa di Dio!
    Ancora lo celebrerò,
    Lui salvezza del mio volto, mio Dio».

    Dal treno che la porta ad Auschwitz, Etty Hillesum, una giovane donna ebrea olandese, lanciò una cartolina postale, indirizzata all’amica Christine van Nooten; qualcuno la raccolse dalla strada ferrata e la spedì.
    Vi si legge, tra l’altro:
    «Christine, apro a caso la Bibbia e trovo questo: Il Signore è il mio estremo rifugio. Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. Abbiamo lasciato il campo cantando» (Etty Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano 1990, p.149).
    Probabilmente la Parola aperta a caso da Etty fu proprio questo salmo, mentre si trovava nell’esilio di questa vita, deportata come tante generazioni di ebrei.
    «Parole, simili a un soliloquio, esprimono i sentimenti profondi del Salmista: egli si trova lontano da Sion, punto di riferimento della sua esistenza perché sede privilegiata della presenza divina e del culto. Sente, perciò, una solitudine fatta di incomprensione e persino di aggressione da parte degli empi, aggravata dall’isolamento e dal silenzio da parte di Dio» (Giovanni Paolo II, Salmi e cantici, Libreria Editrice Vaticana, p. 193).
    La tristezza non è verità né realtà: è un’esperienza della nostra vita percettiva. Quando lasceremo il nostro corpo, e vedremo come in un film la nostra vita, quel film che vedremo è ciò che abbiamo proiettato noi stessi, ciò che noi stessi abbiamo sceneggiato, montato, diretto quali attori e registi: la nostra vita, con le scene (le esperienze) che abbiamo avuto bisogno di fare, prima di, e per, risvegliarci. «Ma al risveglio, mi sazierò del tuo volto, Signore».
    Spesso ci penso, come ad uno degli incubi peggiori della nostra vita «quaggiù» (ma esiste realmente un «quaggiù» e un «lassù»?) sia stato il nazismo: «uomini senza pietà» (significato di spietati), personificazione di ogni nostra più cupa notte di desolazione, disperazione, paura; la paura di essere lontani, separati da Dio, irraggiungibili dal suo braccio, dal suo amore; in balìa del male, del non senso, dell’iniquità più assurda e totale. Sì, io penso che questo sia stato, nella sua verità profonda, simbolica, invisibile, il lungo incubo del nazismo. E quanto, quanto ancora la nostra domanda fondamentale «ma Dio dov’era? Dov’è Dio?», domanda di un intero popolo (il popolo di Etty), domanda di ogni uomo che viva momenti bui, sotto la tentazione di credere che ciò che vive sia la realtà (e non un attimo, un brutto sogno nell’attimo di una eternità) e la realtà ultima, si fa sentire in questo salmo: perché triste me ne vado, oppresso dal nemico? (nemici interni, nemici esterni; ma c’è poi differenza? O i secondi non sono che la materializzazione esterna dei primi? E l’uomo ingannato, che ci opprime dall’esterno, non è una possibilità della nostra stessa umanità, come Etty aveva compreso? E non è forse di questa possibilità che abbiamo veramente paura, cioè di noi stessi, del nostro lato oscuro? E non è forse da questa possibilità che invochiamo la salvezza di Dio, Dio che è in noi, Dio che è la nostra parte migliore, la verità ultima del nostro stesso essere?).
    E il grido dell’ebreo, grido di ogni uomo – «Perché me ne vado triste? Perché cammino oppresso? Perché il mio cammino in questa vita è tristezza, oppressione?» è, ancora una volta, il grido di ogni uomo e donna.
    E la risposta di Dio potrebbe essere: «Perché la tua anima si agita dentro di te? Perché lo stai credendo, stai credendo che il male, la morte che vivi sia vera, stia realmente accadendo. Perché hai scelto di fare l’esperienza del buio, per ricordare a te stesso che sei sempre nella luce, che vieni dalla luce e alla luce torni. Ma tu non sei veramente là. È sempre e soltanto in me che tu esisti, sempre e solo al sicuro tra le mie braccia, in alto, nella mia dimora. La realtà è solo Dio. Svegliati, tu che dormi! Dio ti illuminerà. Il Signore sarà la tua luce».
    Ecco allora che il salmo diviene invito a reagire alla tristezza; il salmista si «rammenta» (avere fede, non è forse un ricordare la verità?) la fiducia; «egli sente ormai che la parentesi oscura della lontananza sta per finire; il Signore stesso sarà il fine ultimo del viaggio». Così, Etty si lascia raggiungere da questa Parola, rammentare questa fiducia; e può andare via su quel treno di morte dicendo: «Abbiamo lasciando il campo cantando»; come chi parte per un pellegrinaggio verso la vita. E Auschwitz, epilogo e culmine dell’inferno percettivo di questa esperienza umana, diventa la porta, il cancello sull’infinito della liberazione, del risveglio alla vera vita. «Di vita in vita», soleva chiamare il passaggio della morte il nostro amato papa Giovanni Paolo II. Di vita in vita.
    «Il Signore è la radice di ogni felicità, è la gioia suprema, è la pienezza della pace». Il nostro Dio è un Dio di gioia, non esiste la possibilità della morte, di ogni morte, in lui. Questa possibilità Gesù l’ha presa su di sé, e l’ha attraversata: la sua morte, la sua sofferenza è stato il travaglio di ciò che noi patiamo quando diamo realtà, carne, materia, all’oscurità che è in noi. La sua resurrezione ci mostra la nostra realtà ultima – realtà di luce, di vita, di esseri risorti – che non è ciò che sarà dopo che saremo morti, ma ciò che è sempre e continua a sussistere, anche mentre crediamo di morire (di tutte le nostre morti esistenziali, fino alla morte fisica).
    Il nostro Dio non chiede mai, mai, la nostra infelicità, il nostro sacrificio. Egli lascia che noi facciamo i nostri cammini di esperienza entro ciò che non siamo – per ricordare ciò che siamo. Egli è, in ogni momento, quel ricordo fondamentale capace di riportare al sorriso il nostro volto abbattuto, troppo spesso tentato di dar credito alla moltitudine di pensieri e convinzioni che ci portano (ci fanno credere di essere) lontani da Dio. «Ma io sono con Te sempre: Tu mi hai preso per la mano destra».


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