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    Reti e risorse del territorio: una visione allargata dell’idea di partenariato



    Pastorale giovanile e territorio /4

    Maurizio Ambrosini

    (NPG 2005-07-66)

     

    Perché si lavora con gli altri?
    Da molti anni il mio impegno pastorale mi chiama al confronto con le realtà pubbliche e private del territorio. Avevo studiato il principio della sussidiarietà, avevo fatto qualche corso sul lavoro di rete (ci sono stati anni in cui si parlava solo di quello....): tutte cose importantissime, da conoscere e da vivere, ma la motivazione da cui ancora oggi parto è diversa.
    Come sempre (sarà una specie di «mania» che mi ritrovo...) parte dai visi e dalle storie dei ragazzi e delle famiglie che ho incontrato. Chiedersi con serenità con loro e per loro qual è oggi il vero bene; chiedersi quale occasione formativa o animativa può permettere a tutti i soggetti coinvolti (ma compreso) di crescere.
    Impegnarsi:
    • nella consapevolezza che anche solo un ragazzo vale più della tua struttura o della tua organizzazione;
    • nel riconoscere che Dio usa tempi, persone e mezzi che neppure tu controlli;
    • nell’essere certo che «l’altro» non è prima di tutto un qualcuno da cui difendersi, ma la concreta possibilità di incontrare ricchezza;
    • nella convinzione che la diversità aiuta anche la tua identità a maturare;
    • nel respirare e nel far respirare (anche a tavoli tecnici....) un’aria di gratuità e di interesse per le persone e per la città;
    • nell’immaginare che se qualcuno, diverso da te, ti ha usato (consapevolmente o inconsapevolmente) sia sempre possibile ricominciare. Perché Dio fa così con noi e se noi ne diventiamo anche pallido segno, abbiamo già realizzato molto.
    Si può lavorare in rete per molti motivi:
    • perché lo indicano le normative e le leggi;
    • perché lo consiglia l’aiuto che si può ricevere per realizzare meglio il proprio progetto;
    • per coscienza del proprio e altrui limite e perché il lavoro lasci spazio a problemi e soluzioni non previste, capaci di intuizioni e di silenzi, di sofferenze e di delusioni, ma anche di generare «cose nuove», mai viste.
    Se, a distanza di vent’anni, dovessi tracciare un bilancio di quello che pensano gli altri del mio lavoro di rete mi troverei davanti ad un simpatico paradosso:
    • i miei confratelli potrebbero pensare che sono molto «alleato» dell’Ente pubblico, ma alla fine risulto un «perdente» perché, dati alla mano, non ho portato a casa chissà quali risorse economiche. Altri, con meno sforzi, hanno ottenuto e ottengono molto di più!!!
    • una parte dell’Ente pubblico apprezza questo continuo intessere rapporti; un’altra parte lo considera molto ingombrante e fastidioso: sarebbe più semplice fare una convenzione su qualche attività, un po’ di soldi e poi... ognuno sta al suo posto...
    Tutto questo ci consola: è segno di una certa libertà, che, forse e ancora una volta, mette in primo piano quei visi e quelle storie incontrate. O, almeno, che prova a farlo.

    d. Pier Codazzi
    (referente per l’ODL rapporti con la regione lombarda)
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    Una diversa idea di politiche sociali

    I concetti di rete e di mappatura delle risorse del territorio hanno come presupposto una visione delle politiche sociali diversa sia da quella del Welfare State nella sua versione tradizionale, sia da quella riduttiva dei teorici dello Stato minimo.
    Questa visione, anzitutto, contrasta con una concezione ancora radicata (talvolta condivisa, in modo un po’autolesionistico, anche da esponenti del mondo della solidarietà organizzata) del sistema pubblico non solo come garante, ma come produttore unico e monopolistico della solidarietà tra i cittadini e degli interventi che la rendono effettiva: parlare di rete significa pensare che la risposta ai bisogni di un territorio passa attraverso il coinvolgimento di agenzie, attori e risorse diverse, tanto pubbliche quanto privato-sociali (e in certi casi, private tout court, come quando si opera per l’inserimento lavorativo di soggetti relegati ai margini del mercato occupazionale). Non è soltanto un problema di risorse economiche, la cui scarsità è stata indubbiamente una molla decisiva per l’apertura dell’intervento pubblico ad attori esterni, in particolare a quelle che sono definite organizzazioni di terzo settore o più semplicemente «iniziative solidaristiche» (Ambrosini, 2005a). La risposa efficace a problemi sociali raramente può essere raggiunta mediante interventi settoriali e separati; richiede una visione, come oggi si dice spesso, «olistica», ossia integrata e integrale, del caso e delle sue implicazioni. Non basta per esempio trovare il lavoro, a un soggetto in condizione di disagio: occorre spesso un’azione di formazione, accompagnamento, sostegno psicologico. Non basta la scuola, per un ragazzino in condizione di disagio, ma occorre offrirgli anche opportunità arricchenti di socializzazione e fruizione del tempo libero; e a volte anche un sostegno all’educazione familiare. Anche e soprattutto per questo, l’azione combinata di diversi soggetti, apportatori di competenze specifiche, è condizione necessaria per la buona riuscita dell’aiuto sociale.
    La valorizzazione degli attori della società civile non è dunque residuale, in funzione di supplenza della carenze o dei limiti finanziari dell’intervento pubblico, ma offre un valore aggiunto, in termini di coinvolgimento dei cittadini e delle società locali, di radicamento sul territorio, di saperi derivanti dall’esperienza e dal contatto con i beneficiari dell’intervento. [1]
    Rispetto alle teorie dello Stato minimo, l’idea di rete evita di assumere una concezione programmaticamente ostile nei confronti dell’intervento pubblico e magari ansiosa di occuparne gli spazi per sostituirlo. Dalla scuola alla sanità ai servizi sociali, le istituzioni pubbliche svolgono funzioni fondamentali per l’integrazione, la qualità del vivere, la tutela di una convivenza ordinata, lo sviluppo del territorio. Funzioni che vanno arricchite e completate dalla collaborazione con i soggetti privato-sociali, specialmente in aree «di frontiera» e in relazione a bisogni emergenti, ancora poco noti e non adeguatamente presi in carico. [2] Inoltre, dal punto di vista dei soggetti solidaristici, pensare il proprio ruolo come inserito in una rete aiuta a scongiurare i rischi del particolarismo, di una visione angusta delle questioni da affrontare e della concorrenzialità con altre esperienze.
    Pavolini (2003) ha distinto in proposito tre modelli differenti di interazione tra istituzioni pubbliche locali e organizzazioni privato-sociali:
    – il mutuo accomodamento: i soggetti del terzo settore ricevono finanziamenti pubblici, sono poco sottoposti sia a meccanismi competitivi sia a controlli sull’attività svolta, ma restano fondamentalmente esclusi dai processi decisionali pubblici: le parti restano quindi separate e reciprocamente impermeabili, e interagiscono in ambiti specifici e limitati;
    – il vendor, caratterizzato da una logica strettamente strumentale nel ricorso ad organizzazioni di terzo settore come fornitrici di servizi, in funzione di obiettivi di contenimento della spesa e senza un’adeguata considerazione delle questioni della qualità e dell’efficacia degli interventi; anche in questo caso, la partecipazione al policy making dei sistemi locali di welfare non è contemplata;
    – la negoziazione, in cui avviene un coinvolgimento di una parte del terzo settore nello sviluppo delle politiche sociali, mentre i meccanismi concorrenziali vengono attenuati. Si può poi distinguere una versione debole e una forte del modello, in base alla capacità delle istituzioni pubbliche di effettuare controlli non solo formali sui servizi erogati
    L’analisi di Pavolini mostra come non si possa parlare di un’evoluzione lineare dal primo al terzo modello. Negli ultimi anni si assiste, accanto alla diffusione della negoziazione, ad un ritorno del mutuo accomodamento, mentre il vendor, molto diffuso nella prima parte degli anni ’90, appare in declino.
    L’idea di rete degli interventi sociali, e quella connessa di individuazione delle risorse del territorio, vanno forse oltre il concetto di «negoziazione» così come è stato formulato da Pavolini. Implicano una pari dignità e un riconoscimento reciproco tra le agenzie e i soggetti che della rete costituiscono i nodi. L’ente pubblico può assumere in molti casi un ruolo di coordinamento e magari anche di regìa, ma non considerare strumentale, secondaria e reversibile la collaborazione instaurata con i soggetti privato-sociali; questi a loro volta non possono reputare la rete come un semplice espediente per acquisire finanziamenti da utilizzare poi per alimentare le proprie strutture, senza coinvolgersi effettivamente nello scambio interattivo con i partners.

    A che servono i partenariati

    Nello scenario così brevemente delineato, il nome che assumono le forme più avanzate di collaborazione in rete tra sistema pubblico e soggetti espressi dalla società civile è oggi quello di partenariato o partnership.
    Su questo terreno si misura infatti la capacità degli attori privato-sociali di assumere responsabilità pubbliche, partecipando ai processi di organizzazione sociale a livello locale di cui ha parlato Bagnasco (2003), ponendo in rilievo le esperienze di «costituzione di campi attrezzati di azione cooperativa» (ibid: 13), attraverso processi intenzionali e negoziati di convergenza tra istituzioni pubbliche, forze economiche, attori sociali, in formule come i patti territoriali. Possiamo dunque parlare di reti locali interistituzionali: nate per favorire lo sviluppo locale e il rilancio di aree economicamente depresse, queste forme di partnership sono ampiamente utilizzate oggi per una vasta gamma di azioni in campo educativo e sociale, essendo sollecitate anche dalla competizione sui finanziamenti europei. Va richiamato in proposito un vantaggio implicito che scaturisce dal coinvolgimento di soggetti esterni all’ambito pubblico nelle politiche sociali ed educative: su temi difficili, come gli interventi rivolti alla popolazione immigrata, il concorso attivo della solidarietà organizzata e di varie agenzie esterne (dalle organizzazioni sindacali alle istituzioni ecclesiali) può contribuire ad accrescere il grado di accettazione sociale degli interventi, stemperando le tensioni e coinvolgendo maggiormente le società locali (Ambrosini, 2005b).
    Partenariato o partnership è diventato così un termine di successo, dal significato non sempre univoco, che allude a forme strutturate di concertazione degli interventi, di progettualità condivisa e di gestione congiunta di attività, con la partecipazione attiva di istituzioni pubbliche locali (una di esse è di solito alla guida della rete), di attori solidaristici e spesso delle parti sociali (ossia delle organizzazioni imprenditoriali e sindacali).
    Rispetto alla frammentazione e alla debole formalizzazione di molte esperienze in campo sociale, la costituzione di una partnership locale tra soggetti collettivi e agenzie di varia natura presenta l’opportunità di conseguire diversi risultati apprezzabili:
    – stimola i partner a individuare una gerarchia di priorità su cui intervenire, tra le diverse problematiche sociali che il contesto locale presenta;
    – favorisce la progettualità condivisa e la concertazione degli interventi, coinvolgendo nelle diverse fasi i vari soggetti partecipanti, e superando quindi un’impostazione in cui le organizzazioni solidaristiche intervengono soltanto dopo che i poteri pubblici hanno fissato le caratteristiche del servizio da svolgere;
    – responsabilizza i soggetti nella progettazione, realizzazione, comunicazione, valutazione delle attività specifiche loro affidate, dovendo integrarle con le attività svolte da altri soggetti nell’ambito del progetto complessivo;
    – conduce a focalizzare le diverse peculiarità e gli apporti più qualificati che ciascun soggetto può fornire, collocandosi nel concerto delle diverse azioni previste dal progetto;
    – produce processi di specializzazione e miglioramento organizzativo, derivanti dal duplice movimento di concentrazione su attività specifiche e integrazione con le azioni svolte da altri partners;
    – aiuta a socializzare strumenti di analisi, metodi operativi, pratiche di lavoro sociale o educativo;
    – allena alla comunicazione, allo scambio, alla conoscenza reciproca, gettando ponti tra approcci e linguaggi sovente eterogenei e a volte contrapposti;
    – facilita i processi di diffusione delle innovazioni e delle buone prassi introdotte, allorquando i progetti sono già condivisi e sperimentati da istituzioni e soggetti rappresentativi della società civile;
    – sollecita l’introduzione di processi di valutazione delle attività svolte.
    Il rimando al partenariato richiede poi una nuova visione del ruolo della regolazione pubblica. Lo sviluppo di iniziative solidaristiche e di reti di collaborazione non è favorito dal ritiro dello Stato, magari mascherato da appelli moraleggianti alla mobilitazione della società civile e alla community care, bensì da un’azione istituzionale lungimirante e calibrata. Occorre però una visione politica depurata delle ambizioni eccessive del passato, meno convinta dell’onnipotenza dello Stato e anche dell’opportunità che sia monopolio dell’azione politica l’obiettivo di realizzare una società più equa e inclusiva. Per le istituzioni pubbliche, il passaggio ad una logica di rete e di partnership territoriale significa assumere con maggiore consapevolezza un ruolo di programmazione, di regia, di facilitazione della collaborazione tra i soggetti partecipanti, di superamento delle barriere e dei conflitti di competenze tra diversi livelli istituzionali o tra settori e uffici delle stesse amministrazioni pubbliche: un ruolo di governance, anziché di government, che concentra le competenze delle amministrazioni pubbliche su funzioni promozionali, di catalizzazione di aggregazioni tra gli attori interessati, di costruzione di ambiti di concertazione (Bifulco, de Leonardis, Donolo, 2000). Significa anche, va ribadito, assumere una visione più modesta delle possibilità della politica, e insieme più aperta al contributo degli attori organizzati della società civile, in grado di valorizzare l’attivazione dei cittadini e le risorse di impegno civico diffuse nel tessuto sociale. Nessun soggetto da solo può risolvere oggi i problemi dell’integrazione sociale di una comunità locale (così come quelli dello sviluppo economico, e i due ambiti sono correlati). Convergenza di forze diverse, negoziazione dei rispettivi apporti, lavoro di rete in grado di integrare energie pubbliche e privato-sociali, possono individuare e rendere operanti delle soluzioni condivise, e quindi più robuste e con maggiori probabilità di successo.
    Per i soggetti delle organizzazioni solidaristiche (e laddove coinvolti, per i soggetti privati tout court), la partecipazione alla rete comporta la fuoruscita da rapporti bilaterali e particolaristici con l’istituzione pubblica, per entrare a far parte fin dalla fase di concezione, con autonomia, capacità ideativa e valorizzazione delle proprie competenze migliori, di un più ampio progetto di risposta alle problematiche da affrontare.

    Oltre le risorse istituzionali e professionali: costruire alleanze più ampie

    C’è però un aspetto che va approfondito. Si può osservare che, in sede di progettazione e costruzione di partenariati, le cooperative sociali si sono distinte per intraprendenza e dinamismo, mentre le associazioni di volontariato (così come parrocchie, oratori, altri soggetti non culturalmente preparati rispetto all’idea di progettare e competere) hanno confermato di essere più restie e meno attrezzate per entrare nell’agone delle gare per aggiudicarsi le risorse economiche necessarie per sviluppare la propria attività. La predisposizione di progetti in grado di accedere a finanziamenti pubblici, regionali od europei, richiede infatti il raggiungimento di una soglia tecnica inattingibile per la maggior parte delle associazioni, e specialmente delle piccole associazioni locali. La competizione progettuale ha così in molti casi ampliato il solco tra componenti imprenditive e professionalizzate, e componenti associative e volontaristiche della galassia solidaristica: componenti poco «imprenditive», ma imprescindibili come risorse del territorio e capaci di costruire legami e ponti di comunicazione con le società locali.
    Lo sviluppo di forme di partenariato e di interventi professionalmente qualificati ha quindi implicazioni rilevanti per la diversificazione delle iniziative solidaristiche e richiede un’attenzione precisa. Ragionando sui dispositivi di aiuto sociale, si è indotti molte volte a distinguere una sfera formale e dotata di competenze specifiche, rappresentata dai servizi pubblici, da una sfera informale e debolmente qualificata, rappresentata dalle reti primarie e dal volontariato (o dal privato-sociale nel suo complesso). Ma l’idea che la professionalità appartenga alla sfera pubblica, la spontaneità, l’impegno personale e l’afflato solidaristico invece siano appannaggio delle associazioni volontarie è semplificatoria e fuorviante. Coinvolgimento e impegno personale non mancano nei servizi pubblici. D’altro canto, il grado di competenza e di prestigio professionale raggiunto da iniziative e servizi promossi dal privato-sociale, li ha fatti diventare in alcuni campi un punto di riferimento per gli stessi servizi pubblici.
    La distinzione tra area dei servizi professionali, strutturati, formalizzati, per definizione pubblici, e area dei servizi informali e debolmente strutturati, coincidente con il privato-sociale, è dunque compromessa dallo sviluppo di organizzazioni solidaristiche efficienti e qualificate. Appare sempre più evidente che la demarcazione che si va oggi profilando è quella che oppone le iniziative di aiuto che restano semi-informali, istituzionalmente marginali, basate su un volontariato diffuso, rispetto ad iniziative strutturate, dotate di una veste istituzionale solida, basate prevalentemente su operatori professionali. In questo secondo insieme si ritrovano servizi pubblici e organizzazioni privato-sociali che si collegano tra loro e promuovono tavoli di consultazione, progetti di partenariato e iniziative congiunte, fuoriuscendo dalla dicotoma pubblico/privato.
    Una conseguenza della nuova polarizzazione investe la tendenziale selezione o quanto meno la crescente differenziazione delle iniziative solidaristiche: alcune, più prossime allo spirito della solidarietà volontaria, si collocano verso il polo dell’informalità, privilegiano l’autonomia di azione, continuano a erogare servizi di aiuto diretto alle persone, ma rimangono a livelli minimali di riconoscimento pubblico, e talvolta neppure lo domandano. Altre organizzazioni invece entrano in rapporti con le istituzioni pubbliche, si dotano di competenze e strutture adeguate alla gestione di specifici servizi, diventano interlocutori privilegiati dei sistemi locali delle politiche sociali, si attrezzano per ottenere finanziamenti per i propri progetti e attività. Disponibilità di finanziamenti e rapporti privilegiati tendono a generare reti sempre più strutturate, competenti e implicitamente escludenti verso il mondo della solidarietà meno formalizzata e anche eventualmente verso nuovi interlocutori.
    È evidente in ogni caso che partnership non significa automaticamente qualità degli interventi: anche la partnership è un metodo, non un fine in sé, può essere attuato in modi diversi e orientato verso obiettivi che vanno sempre monitorati e verificati dal punto di vista della rispondenza alle effettive esigenze delle comunità locali e dei gruppi sociali a cui gli interventi sono rivolti. Il rischio di favorire, anche inavvertitamente, forme di commensalità a vocazione spartitoria, in cui i soggetti più forti, o comunque accreditati nello scacchiere politico locale, si spartiscono le risorse disponibili (in genere scarse), va sempre tenuto sotto controllo (cf ancora Bifulco, de Leonardis, Donolo, 2000).
    Il fenomeno positivo del rafforzamento di reti e forme di collaborazione strutturate contiene dunque un rischio, quello dell’emarginazione dei soggetti meno organizzati, basati su un volontariato di base (spesso neppure formalizzato, se pensiamo per esempio al volume di attività educative promosse dagli oratori), e un significativo coinvolgimento delle comunità locali, benché il loro intervento resti indispensabile per rispondere proprio alle problematiche più pesanti, quelle delle componenti sociali più deboli e sbandate (si pensi ai senza dimora, o ai ragazzi «difficili»), oppure escluse dai canali ufficiali del sostegno sociale «ufficiale» (si pensi agli immigrati irregolari). La tendenza a sviluppare reti formali e partenariati ben costruiti non dovrebbe andare a discapito delle componenti volontarie e meno formalizzate dell’arcipelago della solidarietà, ma semmai funzionare da locomotiva in grado di collegare tra loro e far progredire i diversi attori locali, valorizzandone gli apporti specifici e le capacità di risposta ad aspetti differenti dei bisogni individuati.
    Contro la scissione tra apparati professionali dell’intervento sociale (pubblici e di terzo settore) ed energie sparse del mondo associativo, pertanto, è oggi vitale che i progetti in partenariato accolgano e valorizzino gli apporti che i vari attori nella loro diversità possono arrecare, saldando i necessari interventi specialistici con la partecipazione della società civile. In questo senso, un’attenta ricognizione delle risorse del territorio comporta il riconoscimento e il coinvolgimento di agenzie non professionali, ma radicate nel contesto locale. Queste a loro volta, vanno spesso aiutate ad uscire da una concezione angusta della propria missione, viziata da autoreferenzialità e particolarismo. Soggetti qualificati di secondo livello (penso, nel tessuto ecclesiale, a servizi diocesani come Caritas, FOM, pastorale giovanile) possono svolgere un ruolo saliente di stimolo e guida per la crescita del tessuto sociale di base e per l’attivazione di forme adeguate di partenariato, ossia non troppo professionalizzate ed esigenti in termini organizzativi.
    Un rapporto virtuoso tra partecipazione dei cittadini, imprenditoria sociale e responsabilità pubblica richiede la costruzione di reti più articolate, in cui trovino posto strutture organizzate in forme quasi-aziendali e i diversi ambiti, non sempre formalizzati, in cui si esprime l’impegno sociale volontario, si producono saperi taciti, si costruiscono rapporti di fiducia e legami tra le persone.


    BIBLIOGRAFIA

    * Ambrosini, M.
    2005a Scelte solidali: L’impegno per gli altri in tempi di soggettivismo, Bologna, Il Mulino.
    2005b Sociologia delle migrazioni, Bologna, Il Mulino.
    * Bagnasco, A.
    2003 Società fuori squadra. Come cambia l’organizzazione sociale, Bologna, Il Mulino.
    * Bifulco, L., de Leonardis, O. e Donolo, C.
    2001 Per un’arte locale del buongoverno, in «Animazione sociale», gennaio, pp. 35-64.
    * De Bernardis, A. (a cura di)
    2005 Educare altrove, Milano, F. Angeli
    * Pavolini, E.
    2003 Le nuove politiche sociali. I sistemi di welfare fra istituzioni e società civile, Bologna, Il Mulino.


    NOTE

    [1] Sarebbe ingiusto sostenere che siamo all’anno zero su questa strada. La promulgazione della legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali (legge 328 del 2000), rappresenta non solo il primo tentativo di intervento organico in materia di assistenza sociale che l’Italia abbia conosciuto, dopo la legge Crispi del 1891, ma anche un disegno politico che valorizza il ruolo dell’insieme delle iniziative solidaristiche, in una logica aperta all’idea di sussidiarietà, come si usa dire, «orizzontale». La collaborazione tra enti pubblici locali, forze sociali e iniziative solidaristiche, valorizzando competenze e peculiarità di ciascun attore, costruendo reti, istituendo le condizioni in cui ciascuno possa dare il meglio di sé, è un punto qualificante della riforma. Il problema è quello della sua effettiva attuazione, che non è stata convintamente promossa dal Governo in carica.
    [2] Un esempio interessante può essere fornito dagli interventi di sostegno all’apprendimento noti come «doposcuola»: sorti a volte sull’onda della contestazione, con una funzione critica nei confronti dell’istituzione scolastica, o comunque in ambiti esterni e non comunicanti con l’istituzione, sono oggi sempre più spesso interlocutori riconosciuti della scuola, operano in collaborazione con l’istituzione (o almeno con gli elementi più sensibili all’interno di essa), sottoscrivono appositi protocolli di accordo per formalizzare i reciproci rapporti. Con il sostegno di finanziamenti pubblici, in diversi casi hanno assunto una fisionomia organizzativa più articolata e offrono una gamma più ampia di interventi per la socializzazione e la gestione del tempo libero dei ragazzi (cf De Bernardis, 2005).


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