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    Virginia Di Cicco

    (NPG 2005-07-2)


    Ora vi racconto, voi immaginate una scena.
    Cinquanta gradi, più o meno, temperatura ardente, scioglierebbe qualunque cosa, fiaccherebbe chiunque; sei giorni di lavoro alla settimana, 7 ore al giorno: a quella temperatura vorrei sapere chi potrebbe lavorare di più; gli uomini lavorano nella polvere che scotta, che brucia i loro piedi, perché gli uomini lavorano scalzi e senza cappello, senza avere la testa coperta neanche da un cappello magari più pratico dei loro turbanti, neanche un panno da bagnare ogni tanto, per avere conforto. E la polvere si infila ovunque, negli occhi che non hanno sollievo: di occhiali protettivi per la luce neanche a pensarci – i raggi sembrano perforare il cervello – e per quella sabbia che brucia e punge, neanche a parlarne. La sabbia sulla pelle che sfrega e scortica anche se le vesti sono teli leggerissimi. La sabbia soprattutto nella bocca, la masticano, fa massa con la saliva, impasta la lingua, eppure di maschere filtranti se ne sente parlare in giro.
    Immaginateli chini a cercare, maneggiare, spazzolare, trattare con cura e quando qualcosa sembra non andare, immaginate due tipacci di rais colpirli con un giunco. Frustarli come bestie da soma. Frustarli se per esempio i portatori per scaricare i detriti negli appositi vagoncini compiono un percorso magari più lungo di quello prestabilito perdendo del tempo prezioso.
    Avrete sicuramente immaginato una scena da antico Egitto o antica Roma con schiavi in mutande che trasportano pietre e sudore e sangue e mausolei in costruzione, monumenti che porteranno il nome del re e non di quei schiavi da niente.
    Bene, ora che avete fatto opera di immaginazione dovrò deludervi: non siamo al tempo delle piramidi egizie quando gli schiavi trascinavano pietre e venivano frustrati per niente. Siamo nel 2000 dopo Cristo e l’ambientazione è niente di meno che uno scavo archeologico, un semplice scavo duemila anni dopo la nascita di Gesù ma niente sembra cambiato.
    Così vengono trattatati gli operai altamente specializzati dagli organizzatori occidentali degli scavi nell’oasi del Fajum, in Egitto. Il bello devo ancora scriverlo e il bello è l’ammontare della paga giornaliera di questi lavoratori: due euro e mezzo al giorno, con il rischio di essere licenziati senza preavviso visto che di garanzie sindacali neanche a parlarne, esattamente come al tempo delle prime dinastie egizie.
    I famosi ed egregi archeologi ripetono continuamente ai loro rais prezzolati: «Gli operai sono solo il vostro braccio meccanico: devono solo eseguire gli ordini».
    Eccezionale davvero, nel nuovo millennio, quando la schiavitù è stata abolita, i diritti umani sanciti, la dignità dei lavoratori conclamata.
    Eccezionale davvero nell’ambito di uno scavo archeologico dove la cultura dovrebbe essere di casa e la sensibilità umana uscirne raffinata; dove gente preparata e di stile dovrebbe aggirarsi emozionata e completamente catturata dall’idea di riportare alla luce e alla gioia degli occhi le creature straordinarie di popoli che a guardar bene non erano poi così lontani da noi nelle loro inciviltà e dalle eccezionali creazioni dei quali noi siamo invece tristemente lontanissimi.


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