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    L’arcipelago della precarietà /4. Una fede da comunicare



    Domenico Sigalini

    (NPG 2005-05-73)


    Un album di fotografie non ti dà ragionamenti consequenziali, ma ti aiuta a rendere l’idea della complessità delle situazioni che vedono i giovani a cercare fede e a trovare spesso solo precarietà.

    Fede vo’ cercando...

    Provocato.
    Credo proprio che non dipenda da me. Non ne volevo sapere, e mi sento continuamente provocato. Ma chi è questo Dio che mi viene a stanare anche da una consolle di dj?
    Torni alle esperienze di quand’eri ragazzo, ma trovi tutto più piccolo, forse perché ti si è ristretto l’orizzonte dell’esistenza e tenti di riallargarlo, ma hai bisogno di un salto che non riesci a fare.
    Che cosa c’è al fondo di questa esistenza? Avevo la felicità in tasca e me la sono lasciata portare via da pensieri di fede che credevo di avere già sepolti.
    Ho trovato qualcosa che non sospettavo ci fosse: che faccio? ma che c’entra una chiesa.
    Questo vecchio papa mi fa pensare.
    Da quali brecce si è fatta strada questa domanda dopo che l’avevo sepolta con tutta la razionalità e la convinzione che avevo in corpo?
    Ho giocato a fare l’anticlericale, poi mi sono accorto che il problema sono io.

    Autocentrato.
    Sono credente, ma non troppo; prego, ma non sempre; credo, ma non per sempre. Tento di nascondere, ma non ci riesco almeno con me stesso. Alla fede rispondo io quando voglio e come voglio. È un campo assolutamente personale e privato del quale non devo rendere conto a nessuno. A volte mi sembra di aver toccato il cielo col dito, e l’indomani di rinnegare tutto perché ne perdo l’evidenza più scontata. Ma caschi il cielo se qualcuno ti tende una mano!

    L’ex sistemato.
    Tutto è cominciato quando ho deciso di sposarmi. Mi sta nascendo un figlio e non riesco a capire il mistero della vita. Mi sento come la congestione di mille domande, cui non riesco a dare risposta. È troppo bella la vita per viverla di risulta.

    L’animatore di razza.
    Ho portato avanti per anni una fede da animatore: tutto per i ragazzi, tutto per il gruppo, tutto per il don, tutto per la causa... Spontaneo, vivo, altruista, una crocerossina da Afganistan e mi sono trovato svuotato dall’interno. Non posso dire che non credo, ma c’è qualcosa che non gira.

    L’ex rientrato.
    Le ho provate tutte. Non ci vuole molto sforzo o fantasia a fare il sacco da riempire con tutto quel che si trova. Non ne potevo proprio più. Ho trovato un prete, gli ho parlato, mi ha convinto, ma poi non mi sono più fatto vedere. Sono continuamente sospeso non so dove. Qualche volta mi commuovo, mi si fa tutto chiaro, ma qualcuno mi aiuta a mandare al diavolo tutto. E non ditemi che ho paura di cambiare

    Il convertito.
    Mi è venuto un flash, proprio in discoteca; era un altro tipo di flash cui non ero abituato, mi è bastato potermi guardar dentro per aver vergogna di me, ma ci sarà qualcuno dietro questa luce? Ho trovato dopo aver girato tanto, ma che cristiani mi sono visto tra i piedi. Questa gente crede a qualcosa o fa il mestiere di credere?

    Il messo a riposo.
    Io non so come qualcuno fa a dire di aver fatto una esperienza decisiva, che gli ha cambiato la vita. Io sono sempre stato così. Assomiglio molto di più al fratello che sta a casa, che non ha fantasia sufficiente per fare dei bei peccati, anche se non me ne frega niente di vedere mio padre sciogliersi in romanticherie quando torna il puttaniere pentito. Beato lui che è stato fregato da qualcosa o da qualcuno. Io mi sono ridotto a star bene così. Quattro idee le ho, ma il centro sono io, non mi sbilanciate. Anche se invidio chi è più deciso di me. Felice proprio non sono.

    L’ex rassegnato.
    Per un bel po’ ho fatto a meno di Dio, mi è partita una bella fetta di vita. Qualche mio amico l’ha già conclusa, ma mi spaventava l’idea di continuare senza sentire di niente. Oggi però non è che ho trovato tutto quello che credevo di incontrare.

    Il malato di carriera.
    Il lavoro mi ha preso, la carriera pure, i soldi all’inizio pensavo fossero secondari. Contava l’ideale, poi un po’ alla volta ne ho annusato l’odore e l’ho trasformato in profumo. Per un po’ ho pensato solo a quello, poi mi sono sentito uno straccio. La vita me la devo vivere ancora tutta da solo. I miei amici nicchiano. Ho provato a rientrare in parrocchia, ma danno tutto per scontato. Gesù Cristo non è una bestemmia, ma un intercalare.

    E allora?

    Spesso si è un po’ tutte queste situazioni messe assieme. La fede è sempre stata intrigante; in ogni tempo, in ogni storia personale c’è una originalità, come c’è nell’amore. Forse oggi il contesto è più frastagliato e per questo non ti permette di dare niente per scontato. Non credi perché i tuoi credevano, non vai a messa perché l’ambiente ti ci porta; non scegli di sposarti in chiesa perché lo fanno tutti. Oggi se vuoi credere lo devi scegliere, è un dono che devi accogliere tu in prima persona, e la prima condizione in cui la scelta o l’accoglienza si collocano è ancora precarietà: nello spazio di un qualsiasi week-end cambi sei o sette gruppi di appartenenza, ciascuno con un suo modo di pensare, una sua concezione della vita, dei valori obbligati, nessuno o quasi mette al centro il vangelo o si sporge seriamente verso l’oltre; la fede è messa alla prova nei tuoi studi universitari, è chiamata a dare ragioni nell’ambiente sociale; il mondo interiore esigente non trova la strada di ridirsi nelle nuove situazioni che ti si aprono, anche perché cambiano continuamente. Il tuo gruppo di amici che avevi e che tutto sommato condividevano con te le tue ragioni di vita sono spalmati nel mondo, non li trovi più nemmeno al sabato sera come ti capitava fino a vent’anni.

    * Avere il coraggio di programmare l’addestramento alla solitudine.
    In questo contesto di precarietà, di sospensione, di indecidibilità, di tentazione di stare sempre in superficie, di voglia di chiarezza che resta sempre impalpabile, ti trovi pure immerso a condividere i problemi del vivere con persone che non hanno una visione cristiana della vita; rispetto a tali persone ci si può sentire in alcuni momenti vicini, in altri lontani e anche molto soli.
    Questa solitudine, però, può permettere di guardare più profondamente dentro di sé e di vedere che c’è un tesoro nella vita di ciascuno che non è disponibile né agli attacchi né ai conflitti, ma è appunto dentro e costituisce il segreto dell’esistenza, un tesoro che è presente nella profondità nella nostra vita e che è il mistero della comunione con il Signore.

    * Pensare a una fede da comunicare e non da consumare.
    La fede dei tempi della precarietà è una fede che si pensa sempre in relazione: all’altro, oltre che a Dio. Dunque una fede che fa i conti con le domande; con i bisogni, con i dubbi di tutti quelli che incontri. Se non si fa comunicabile non esiste nemmeno per te.
    Per farsi comunicabile, conosce la fatica della ricerca di pensieri, di categorie culturali, di parole, adatti a creare la relazione; per rendersi comunicabile, si mette in relazione con le domande; e nel rispondere alle domande, si ridefinisce. La fede cresce con chi la interroga; cresce con chi la condivide; si fa più ricca con chi la pensa. Ha il coraggio di proporre una vita nuova, bella, felice, che si sperimenta in prima persona. Per questo occorre guardare dentro le proprie sicurezze di una vita da cristiani, smontarne le certezze non guadagnate nella sincerità di una adesione vera, ridirle per chiunque con il suo linguaggio e rendergliele sperimentabili in relazioni di comunione e solidarietà esistenziale.

    * Non dire che gli altri sono indifferenti, come non vorresti fosse detto di te.
    Quando si dice che una persona è indifferente, si hanno davanti almeno due interlocutori o due situazioni in cerca di comunicazione tra di loro. Si ha indifferenza quando una delle due fa di tutto per farsi capire, ascoltare, accogliere dall’altra e quest’altra non reagisce, non ascolta, non dà segni di un minimo interesse. Nel nostro caso si tratta dei tuoi amici da una parte e la proposta di vita cristiana dall’altra.
    C’è indifferenza quando una comunità vuole offrire la gioia della sua fede in Cristo e i tuoi amici non ne vogliono sapere. La domanda di fondo è questa: siamo sicuri che chi crede, la comunità cristiana, i giovani credenti hanno fatto di tutto per far conoscere, offrire la gioia della loro fede ai tuoi amici? I giovani cristiani, che passano per giovani felici di essere giovani e ancor più felici di essere credenti, hanno fatto di tutto per intercettare le domande dei loro coetanei, per regalare loro la gioia di credere che essi vivono? Il tuo gruppo giovanile che con la chitarra al collo si prepara per andare a messa la domenica e che incrocia al bar a mangiare un cornetto caldo la mattina i tuoi amici che rientrano dalla discoteca, comunica una gioia che fa pensare e invidia, oppure solo rassegnazione che li conferma nelle scelte fatte? Se avete comunicato gioia e i tuoi amici non danno segno di interesse, allora è proprio vero che sono indifferenti, che non interessa loro niente, che stanno bene nel guazzare nella superficialità. Se invece la prima ipotesi non è vera, ti restano due cose da fare: farti carico delle domande espresse o inespresse dei tuoi amici, leggere con passione la sete e offrire fontane ampie, fresche, affascinanti per estinguerla, togliere le palizzate con le quali le abbiamo circondate. Se comunichi la tua fede, anche debole come è, la trovi e vinci la precarietà delle tue scelte.


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