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    L’arcipelago della precarietà /3. Le decisioni



    Domenico Sigalini

    (NPG 2005-03-61)


    Ieri, anche se proprio non molto tempo fa, quando avevi 18-19 anni ti sentivi finalmente giunto a una tappa decisiva della vita. Decisiva, voleva dire che avevi ancora tanta strada da fare, ma sapevi in che direzione farla e verso che meta era diretta. Un buon titolo di studio che ti dava un lavoro, una buona scelta di proseguimento degli studi che ti metteva nell’ottica di una professionalità ben determinata, magari anche un buon posto di lavoro cui da un po’ stavi pensando. Veramente alcuni amici già mostravano difficoltà, soprattutto al Sud, nel trovare non solo il lavoro, ma anche alcune direzioni di crescita. Mi rammento in seminario, quando i giovani dopo aver fatto gli esami di maturità trovavano la forza e la determinazione necessaria per decidersi. Prima erano tutte previsioni, ma una volta intascata la maturità era una certezza. Gli studi teologici poi erano una strada se non in discesa, abbastanza regolare e piana. La giovinezza aveva dei tempi e degli spazi ben determinati, liberi, ma orientati, spensierati e spontanei, ma entro una crescita sufficientemente incanalata. Erano lontani i tempi delle famose tre M: moglie/marito, macchina, mestiere, ma non erano ancora così impellenti le precarietà decisionali di oggi. Detto in soldoni e per esprimersi chiaramente: oggi i giovani decidono della loro vita almeno in due tempi: durante la fine dell’adolescenza, come prima, con tante sospensioni, tanti “vediamo”, tanti “per adesso” e soprattutto, dicono le statistiche, a 25 anni. Non occorre essere così categorici, anche se i dati statistici definiscono un termine preciso (cf indagine Iard, Giovani del nuovo secolo). È tutto però molto verosimile. Infatti verso i 24-25 anni terminano i corsi universitari e si delinea una sorta di prospettiva professionale più chiara, soprattutto si ha in mano qualcosa cui da tempo si pensava e si sperimenta se è solo carta o concreta possibilità di definire una rotta per la vita; mentre per chi lavora si delinea all’orizzonte una occupazione che pone termine al massimo di precarietà degli anni precedenti.

    Allora non è finita la precarietà delle decisioni?

    Fosse vero. Invece capita che la sicurezza è ancora tutta da inventare, da cercare, da far crescere. Mi riferisco alla ricerca Iard ancora, ma lo sperimentano tutti i giovani e gli educatori sulla loro pelle. Se per passaggio all’età adulta, cioè a una età in cui è finita la precarietà delle decisioni portanti della vita, si intende avere acquisito almeno questi cinque elementi: fine del percorso formativo, acquisizione di un lavoro, indipendenza economica dai genitori, creazione di una propria famiglia, esperienza della paternità o maternità... nel mondo giovanile di oggi tale acquisizione diventa ancora più lenta. Pensando che il superamento di almeno tre tappe indichi un buon avvio allo status di adulto, le percentuali che seguono dicono quanti non le hanno ancora raggiunte: a 15-17 anni non ci poniamo il problema, a 18-20, il 98% non ha ancora fatto i primi tre passi, a 21-24 il 94%, a 25-29 il 73% e a 30-34 anni c’è ancora un buon 35% che non è riuscito a superare questi primi tre gradini.
    Non è un fenomeno solo di oggi. È da tempo che si parla in Italia di famiglia lunga. Oggi però siamo in grado di chiarire che il fenomeno non è dovuto principalmente a mancanza di lavoro o di alloggio, o ad allungamento di percorsi scolastici, ma a un condensato di motivazioni psicologiche, sociologiche, famigliari, personali, di identità e di immagine di sé, che caratterizzano la nostra società e che influiscono sulla decisione del giovane in termini di modo di pensare, di cultura. Non c’è uno slittamento globale di tutte le tappe, ma una vera dilazione anche tra l’una e l’altra. Per esempio, non è detto che terminati gli studi o trovato il lavoro, l’indipendenza economica e abitativa, si decida di fare la nuova famiglia.

    * La forza per decidersi viene da una formazione più aderente alla vita. Infatti i passaggi sono più lenti tra gli scolarizzati; questo secondo me indica anche che tutto l’impianto formativo è separato dalla vita, dal gusto di vivere, dalla dimensione più umana e coinvolgente dell’esistenza, è astratto, è senza concretezza. Non è l’ignoranza che fa decidere di più di buttarsi nella vita, ma l’astrattezza che fa stare guardinghi e sfiduciati di fronte alle qualità della bellezza dell’esistenza. Infatti chi non studia fa i conti con la realtà dura del lavoro, del progettarsi ogni giorno con concretezza, riesce a vedere il pro e il contro, è in prima linea nei rapporti con il datore di lavoro, con gli amici, con le possibilità economiche, con la voglia di condividere nella concretezza le sue aspirazioni che hanno lati ben circoscritti.

    * L’influsso dei genitori in questo prolungamento non è secondario, anzi è piuttosto complice. Nella famiglia italiana esiste una concezione spesso troppo protezionistica nei confronti dell’avvenire dei figli. Sei sempre la mia bambina! Anche se ha la stazza di un armadio. Quando non sai dove andare, sai che la nostra porta è sempre aperta. Poverini, mi sembrano nati ieri! E via di questo passo. Poi quando è troppo tardi si continua su un altro tono: questo non è un albergo! Troppo comodo farti mantenere dai vecchi! Non troverai nemmeno l’ombra di chi voglia vivere con te, col carattere che hai! Ho fatto male ad abituarvi troppo bene… e si potrebbe continuare. Il senso della propria responsabilità nasce da alcuni rischi che si sanno correre in ogni tappa della vita, da alcune piccole e grandi scelte fatte in autonomia, talvolta senza la rete di protezione sotto.

    * Il sapere di far parte di un progetto più grande di noi può dare coraggio. Non siamo stati buttati su questa terra come birilli a caso, non siamo in una landa di ululati solitari. Per ciascuno di noi Dio ha un progetto che si delinea nella vita con la nostra indispensabile creatività e la sua guida di libertà. Mentre andiamo a tentoni in ricerca di strade e sentieri, sappiamo che c’è una stella che ci guida, basta che ci facciamo aiutare ad alzare lo sguardo, che anche a 25 anni ci convinciamo che abbiamo bisogno di una guida ancor più che a 18, che sappiamo lasciarci invadere dal sogno di Regno di Dio che c’è in ogni vita perché si realizzi un regno di giustizia per tutti. Forse sta venendo meno la carica ideale e si pensa che le decisioni per la vita siano sempre e solo questione di calcolo e di fortuna. Invece sono sempre un dono che ci precede, una verità da accogliere. La guida non ci esime dal rischio, dalla libertà, dalla responsabilità, ma la fa crescere.

    * Un gruppo giovanile di impegno è sempre il miglior antidoto al tirare a campare. Si può stare assieme da amici, senza illudersi che la compagnia sia eterna, perché un’altra difficoltà spesso viene dalla fasciatura della compagnia, della squadra, del gruppo, degli amici del bar o delle scorribande. Uno fa anche una buona esperienza di vita di coppia, ma è ancora troppo da avventura se sono gli amici che devono decidere i comportamenti personali di ciascuno, se questi sono il termine di confronto di ogni scelta. E se gli amici fossero invece una vera compagnia che tira la volata perché si butta per qualche ideale più grande? Ho visto non pochi giovani decidersi nella vita perché con altri danno tempo per il volontariato, perché hanno fatto progetti di aiuto al terzo mondo, perché hanno costituito un gruppo di teatro che vuol lanciare un messaggio, che pagano con la coerenza alcuni ideali controcorrente. Gruppo e guida sono il massimo: che ce ne sia almeno uno.


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