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    Tra eccesso e apatia


     

    Teresa Doni

    (NPG 2005-02-11)


    La nostra è una società degli estremi. Sia nella vita pubblica che in quella privata assistiamo a fenomeni che sarebbero tra loro inconciliabili se l’appiattimento e la massificazione dell’informazione non ci avesse abituato a considerarli come “normali” e perfettamente coesistibili in nome di una libertà senza regole né limiti. La “deregulation” nel campo scientifico, politico ed economico si allarga a comprendere anche la sfera privata della vita individuale e familiare, a cui però non sempre corrisponde una maggiore maturità e autonomia personale. Il risultato è un’accresciuta – quasi illimitata – possibilità di scelte (politiche, religiose, di stili di vita) e una sempre minore capacità di scelta. Se nell’età moderna il disagio nasceva da un eccesso di ordine che portava inevitabilmente a una limitazione della libertà, ai nostri giorni la paura dominante è di non raggiungere la felicità, e l’umana ricerca di piaceri sempre più numerosi e sempre più appaganti rende la vita ansiosa e complicata, infestata spesso da angosce persistenti.

    Uno dei più acuti studiosi della postmodernità, Zygmunt Bauman,[1] definisce la società contemporanea come “la società dell’incertezza”, quella stessa incertezza il cui spettro era stato esorcizzato nell’epoca moderna attraverso una rigida regolamentazione. Ripercorrere insieme alcune suggestive intuizioni di questo autore può aiutarci a collocarci meglio nell’attuale situazione socioculturale e a capire le contraddizioni e le angosce dell’uomo contemporaneo.

    La postmodernità, ovvero la società dell’incertezza

    Se la modernità era costruita in acciaio, la postmodernità è in plastica biodegradabile. Il principale motivo d’ansia dei tempi moderni era la preoccupazione riguardo alla durabilità, oggi è quella di evitare ogni impegno. Nel mondo post-moderno tanto le persone che le cose hanno perso solidità, definitezza e continuità. Il mondo fatto di oggetti duraturi è stato sostituito da beni di consumo dalla rapida obsolescenza. Lo stesso pensiero, la cui forza era stata tanto decantata nell’epoca moderna, diventa sempre più “debole”, non tanto dal punto di vista epistemologico e teoretico – la ricerca scientifica e tecnologica mai come oggi ha avuto nelle sue mani un potere tanto forte e la ricerca filosofica non è mai stata tanto solidale con l’uomo come in questi ultimi tempi – quanto dal punto di vista della quotidiana ricerca e attribuzione di senso. Anche le identità possono essere scartate o adottate a piacere. Il tempo non struttura più lo spazio e ogni differimento, incluso il differimento della gratificazione, perde di significato. Grazie a fibre ottiche e raggi laser che annullano le distanze e ci rendono virtualmente ubiquitari, possiamo stare qui e altrove contemporaneamente: la velocità non è più il tempo classico della percorrenza, bensì la categoria per eccellenza.
    La frammentazione del tempo e dello spazio in una società dell’informazione e di globalizzazione hanno come riflesso rapporti umani frammentari e discontinui, contrari alla costruzione di reti di doveri e obblighi reciproci che siano permanenti.
    Nell’epoca postmoderna la tensione morale assume connotati diversi, viene meno l’adesione incondizionata ad una verità assoluta. Nel mondo dell’ambiguità e dell’incertezza non ci si assume la responsabilità di impegnare la propria vita per una vocazione o in rapporti lunghi e duraturi, si evita di sistemarsi e legarsi alle persone e a un posto. Nell’età del lavoro flessibile o interinale che ha soppiantato il posto fisso, della sessualità plastificata, del piacere sessuale separato dall’unione, dalla riproduzione, dalla parentela, è importante imparare a vivere alla giornata, possibilmente dimenticare il futuro e isolare il presente da entrambi i lati, separandolo dalla storia.
    Anche il concetto di identità diventa più ambiguo, segue percorsi molto frammentari e in continuo divenire, non è dato una volta per sempre ma è in continuo formarsi. La cosa più fastidiosa e pericolosa è oggi avere una identità immutabile, perché c’è il rischio che diventi obsoleta, seguendo il tasso di obsolescenza delle macchine e delle merci. Nel postmoderno cambia anche l’elenco delle paure. Horkheimer e Adorno avevano individuato il nucleo centrale delle angosce moderne nella paura del vuoto. Tutto veniva ordinato, organizzato e costruito in modo da eliminare il vuoto, sperimentato come paura di essere diversi e separati. La madre delle paure postmoderne è, invece, l’inadeguatezza. “La mentalità postmoderna si è allontanata dalle coordinate fornite dall’ideale di una verità universalmente fondata e accettata; la nostra è una mentalità insicura dei propri fondamenti, della propria legittimazione e funzione. Un tipo di mentalità che può solo suggerire comportamenti eccentrici, inconsueti, irregolari, aggiungendosi al già ampio elenco delle incertezze”.[2]

    Turisti o vagabondi?

    Il vagabondo, il turista, il giocatore sono metafore della strategia postmoderna generata dall’orrore di essere vincolati a un impegno.
    C’è differenza tra l’essere turisti piuttosto che vagabondi: i primi vivono la versione postmoderna della libertà, i secondi sperimentano la versione tardomoderna della schiavitù. I vagabondi vanno alla deriva, non si fermano troppo in un luogo, per quanto possa loro piacere, perché non saranno mai bene accolti, trovano che il mondo alla loro portata è inospitale. I turisti, invece, trovano che il mondo alla loro portata è irresistibilmente attraente. Il vagabondo è l’incubo del turista perché gli ricorda che è sempre possibile l’eventualità di scivolare nel vagabondaggio. Diventare vagabondi è il rischio quotidiano dell’uomo postmoderno.
    Il giocatore, a sua volta, si muove in una dimensione in cui niente è completamente prevedibile o controllabile, il cui unico valore è il colpo della sorte, in cui dominano le mosse giuste, i rischi, le intuizioni. Lo scopo del giocatore è vincere e di conseguenza egli non ammette la pietà, la compassione, la collaborazione. La schizofrenia di ogni personalità postmoderna spiega l’irrequietezza delle strategie di vita praticate nell’era della globalizzazione.
    Dietro la sorprendente dinamica della vita moderna si celava la fiducia: nelle proprie capacità, nella condotta degli altri, nelle istituzioni. Oggi sembra che tutti e tre i pilastri della fiducia siano vacillanti e malfermi. La società odierna appare capricciosa, temibile, inconoscibile, imprevedibile, irrefrenabile da parte della natura e della ragione, indifferente al bene e al male. L’io è sempre più disorientato riguardo alla capacità di progettare e controllare il corso della sua vita.
    La postmodernità è l’epoca dello sradicamento, è suddivisa in episodi che non seguono alcun ordine logico coerente. La vita non è una maratona, è piuttosto una giostra, una sequenza di nuovi inizi, spesso in luoghi e ambienti slegati e distanti tra loro. Tenersi in forma per il giro successivo è l’obiettivo principale.
    Nella postmodernità il segreto del successo consiste nel non essere troppo conservatori, nell’essere mobili e sempre a portata di mano, occorre essere flessibili, sempre a disposizione, pronti a ricominciare da capo. Nell’epoca della mobilità planetaria e delle reti mondiali di comunicazione in diretta, conquistare realtà durature appare inutile e assai costoso.
    L’incertezza e l’insicurezza sono il principale veicolo dell’integrazione sociale, se non della coesione sociale. La scena morale postmoderna è piena di minacce e di promesse, di pericoli e di opportunità.
    È sempre più evidente l’ascesa del disimpegno al posto del suo contrario: l’impegno e la promessa.
    La transitorietà ha sostituito la durevolezza sulla scala dei valori: oggi è sempre di più apprezzata la capacità di essere in movimento, di viaggiare leggeri e con poco preavviso, il potere si misura in base alla velocità con cui si fugge dalle responsabilità: chi accelera vince, chi si ferma perde.
    La società postmoderma è società dei consumi. Siamo tutti consumatori e non possiamo farne a meno. Ciò significa essere misurati, valutati, lodati o denigrati in base agli standard della vita consumistica. Chi possiede poche risorse è un consumatore carente, incompleto e difettoso, che non supererà la prova della dignità. Appartiene irrimediabilmente a una sottoclasse. I vincitori e gli sconfitti, gli eroi e gli umiliati della società consumistica vivono in universi morali differenti. I ricchi non sono nemici, bensì esempi, non figure da odiare, bensì idoli da imitare. In questa società fortuna e sfortuna sono entrambe accidentali, inspiegabili e solo lievemente connesse all’azione degli interessati.
    La vita pubblica e l’uomo pubblico sono sistematicamente minacciati e contaminati dai talk show che pubblicizzano il privato, rivelano spudoratamente l’intimità dei sentimenti, delle emozioni, degli affetti. Nella nostra cultura televisiva, una vita felice è una vita percepita come un perpetuarsi di nuovi inizi. Quello che desideriamo è l’esperienza dell’immortalità, ma non l’immortalità reale, oscura, impegnativa; quello che desideriamo è un mondo che diventi il parco dell’infinitezza: l’infinitezza dello spazio, del tempo, e soprattutto delle sensazioni non ancora provate. Provare e sperimentare di continuo è la condizione più fortunata. Il nostro impulso morale si muove a passi incerti. Noi esseri umani siamo creature difettose, esseri finiti che pensano all’infinitezza, esseri mortali dolorosamente tentati dall’immortalità, esseri incompiuti che sognano la completezza, esseri incerti affamati di certezze.

    Il primato delle emozioni

    In uno scenario di questo tipo, contraddistinto dall’incertezza e dalla precarietà, dal desiderio dell’infinitezza e dall’esperienza del limite, il minimo che si possa sperimentare, a livello individuale e collettivo, è un senso di “spaesamento” e di inadeguatezza. Le certezze dell’epoca moderna sono crollate e il loro posto è stato occupato dall’insicurezza e dalla paura di non essere all’altezza delle sfide che ogni giorno ci mettono in gioco sul tavolo verde della vita.
    La mancanza di punti fermi di riferimento disorienta, e si cerca di esorcizzare l’angoscia con il continuo consumo di esperienze e “sensazioni” nel ristretto orizzonte del quotidiano. La crescente propensione al rischio, all’evasione, alla trasgressione presente nella cultura attuale, soprattutto nel mondo giovanile, esprime sempre più l’esigenza di trovare conferma di sé nella soggettiva sfera del “sentire”, l’unica che sembra in grado di dare una giusta percezione della propria identità.
    Le reazioni affettive ed emotive diventano l’unità di misura del valore di un vissuto, di un’esperienza, di un rapporto di coppia. L’individuo cerca nel proprio stato d’animo e nelle emozioni che prova, una conferma empirica della significatività o meno dell’esperienza che sta vivendo. Le sensazioni e le emozioni diventano sempre più il criterio guida emergente, non solo nella sfera privata della sessualità e dell’affettività, ma anche nelle scelte decisive della vita. L’orientamento per un corso di studi, l’impegno per una causa, l’inserimento in un gruppo, il coinvolgimento in una fede sembrano essere sempre più guidati e confermati (o sconfessati) dal modo in cui vengono intimamente vissuti e percepiti.
    Acquista valore quello che “fa stare bene”, crea feeling, produce sensazioni nuove e diverse. Al contrario provoca disagio tutto quanto sa di impegno, di attesa, di procrastinazione. La noia è uno dei mali più diffusi nella società contemporanea, perché è figlia dell’insoddisfazione e nasce ogni volta che il desiderio si scontra con la realtà. Paradossalmente, anche la soddisfazione genera noia, perché produce assuefazione, spinge a cercare sempre di più, in una corsa che sembra non avere mai fine. Nessuno è immune da questo rischio, anche se le giovani generazioni, proprio per la loro collocazione ancora più incerta in questa società disorientata, sono maggiormente esposte alle sue spinte centrifughe e rischiano di trovarsi, quasi senza accorgersene, in situazioni di marginalità se non addirittura di devianza. La cultura dello “sballo”, le corse notturne con macchine o moto truccate, la violenza gratuita verso i più deboli o i “diversi” spesso non sono altro che un sintomo di un malessere più profondo, di un vuoto che, per essere colmato, va alla disperata ricerca di sensazioni sempre più esaltanti.

    La malattia della tristezza

    D’altro lato, oggi più che mai si assiste a un proliferare di malattie psicologiche e relazionali come la depressione, l’anoressia e la bulimia, gli attacchi di panico, e mai il tasso di suicidi è stato così alto, soprattutto tra i giovani e gli adolescenti. Sono sintomi di un disagio psicologico ed emotivo latente che a volte esplode in atti di autolesionismo o di violenza apparentemente inspiegabili, ma che più spesso si manifesta con atteggiamenti di insofferenza e disinteresse, di ansia e aggressività, di incomunicabilità e chiusura in se stessi.
    Il filosofo e psicanalista Galimberti parla, a questo proposito, di una “malattia della tristezza” presente in forma massiccia nella nostra società e soprattutto nelle giovani generazioni. E ne trova la causa principale nel diverso modo in cui oggi si percepisce il futuro. Si è passati, cioè, dal sentire il futuro come promessa al temere il futuro come minaccia. Il sentimento permanente di insicurezza e di precarietà porta alla paura, alla chiusura della psiche, all’inquietudine e alla demotivazione. E tutto questo genera tristezza e “male di vivere”. “L’epoca in cui viviamo – spiega Galimberti – è dominata da quelle che Spinoza chiamava le ‘passioni tristi’, dove il riferimento non era al dolore o al pianto, ma all’impotenza, alla disgregazione e alla mancanza di senso, che fanno della crisi attuale qualcosa di diverso dalle altre a cui l’Occidente ha saputo adattarsi, perché si tratta di una crisi dei fondamenti stessi della nostra civiltà”.[3]
    La perdita di un futuro inteso come speranza porta a una concentrazione sul presente percepito come assoluto e, nel caso degli adolescenti e dei giovani, blocca il naturale sviluppo dalla libido narcisistica, che investe sull’amore di sé, alla libido oggettuale, che è quella capacità di investire sugli altri e sul mondo propria dell’età adulta. Ecco allora che l’apatia, la mancanza di entusiasmo, l’egocentrismo esasperato, l’incapacità di comunicare prendono il sopravvento sulla curiosità, sulla voglia di vivere, sulla capacità di progettare e di compromettersi in un impegno a lunga scadenza.

    Un possibile equilibrio

    Ma il pessimismo non può avere l’ultima parola. Se è vero che l’incertezza è il segno caratteristico della nostra società, è anche vero che le “passioni tristi” sono solo un modo di interpretare la realtà, non la realtà stessa, e che, a volte, risulta piacevole lasciarsi sedurre dal fascino del fatalismo e della disperazione.
    Non si può estirpare l’insicurezza, perché le cause sono strutturali e non dipendono dall’azione del singolo, ma si può reagire riscoprendo la fiducia in se stessi e investendo risorse nella costruzione di legami autentici e capaci di strappare dall’isolamento e dall’individualismo.
    Se è vero che tanta parte hanno le emozioni nel vissuto umano nel condizionare la felicità e l’infelicità, il senso di realizzazione e di frustrazione, è anche vero che le emozioni possono essere conosciute e dominate, possono trasformarsi in sentimenti, in qualche cosa, cioè, di più profondo, di meno compulsivo e meccanico. Dice, a tal proposito, Pasini: “Poiché le emozioni hanno un collegamento con la corteccia cerebrale, sono più elaborate e, in parte, più controllabili delle sensazioni; ma sono meno strutturate dei sentimenti. Questi ultimi sono più vicini al cuore che al cervello e mediano tra la pancia e la testa”.[4] È importante, quindi, che le emozioni (soprattutto quelle negative) siano espresse e verbalizzate, perché solo così possono diventare occasione di incontro e di superamento, e non di scontro e di frustrazione.
    E un modo per conoscere, verbalizzare e armonizzare le emozioni e i sentimenti viene offerto da quella che Goleman chiama “intelligenza emotiva”. Tale termine si riferisce alla “capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri, di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente, quanto nelle relazioni sociali”.[5]
    Si tratta in sostanza di una miscela equilibrata di motivazione, empatia, logica e autocontrollo, che consente, imparando a comprendere i propri sentimenti e quelli degli altri, di sviluppare una grande capacità di adattamento e di convogliare opportunamente le proprie emozioni, in modo da sfruttare i lati positivi di ogni situazione.
    L’intelligenza emotiva sviluppa abilità complementari dell’intelligenza umana, tra le quali rientrano la capacità di motivare se stessi e di continuare a perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni; la capacità di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione; la capacità di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare; la capacità di essere empatici e di sperare.
    L’acquisizione dell’intelligenza emotiva si identifica quindi con un lento ma decisivo percorso verso l’equilibrio della personalità, ed è legata ad una evoluzione culturale, antropologica e storica che permetta all’intelligenza di “passare” anche per il cuore, non per un freddo calcolo di opportunità, ma per un’adeguata e responsabile necessità dell’uomo.
    Forse la società non diventerà meno incerta, né il futuro più promettente, ma se l’uomo si riscopre più forte tutto questo cesserà di essere una minaccia oscura e si trasformerà in una sfida positiva, un banco di prova su cui investire risorse ed energie.
    Liberarsi dalla schiavitù delle proprie sensazioni è certamente il primo e fondamentale passo verso la libertà. Quella libertà che può consentire di vivere nella complessità e nell’incertezza non con la paura del vagabondo o con la superficialità del turista e neanche con la spregiudicatezza del giocatore, ma con la responsabilità del cittadino, consapevole di sé e solidale con gli altri.

    NOTE

    [1] Segnalo alcune delle opere di Z. Bauman tradotte in italiano: Le sfide dell’etica, Feltrinelli 1996; La società dell’incertezza, Feltrinelli 1999; Dentro la globalizzazione, Laterza 2000; La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli 2000; Voglia di comunità, Laterza 2001; Il disagio della postmodernità, Mondadori 2002; Società, etica, politica, Cortina 2002; Modernità liquida, Laterza 2002; La società sotto assedio, Laterza 2003; Intervista sull’identità, Laterza 2003; L’amore liquido, Laterza 2004.

    [2] Bauman, La società dell’incertezza, 140.

    [3] Galimberti U., Noi, malati di tristezza, in Repubblica 01.06.2004.

    [4] Pasini W., L’autostima. Volersi bene per volere bene agli altri, Milano, Mondadori 2001, 4.

    [5] Goleman D., Intelligenza emotiva, Milano, Rizzoli 1991, 9.


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