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    L’arcipelago della precarietà /1. Il lavoro



    Domenico Sigalini

    (NPG 2005-01-34)


    Se c’è una esperienza che a poco a poco sta coinvolgendo tutti i giovani del terzo millennio è precariato, flessibilità, certezza di non avere un posto di lavoro fisso, soprattutto se è il primo, duttilità. Il lavoro non è più una tappa finale irreversibile, ma ha alcune caratteristiche tipiche: eterogeneo, diseguale, parziale, una esperienza intermittente. Diffusione di periodi di lavoro brevi, orario limitato, lavoro occasionale. È pur vero che i giovani in questo modo hanno smesso di stare ad aspettare gli adulti che lottavano per tenersi il posto loro  [1] e hanno trasformato la disoccupazione in precarietà, ma resta il fatto che devi per un bel po’ di anni continuare a cambiare, sperando che i cambiamenti prima o poi ti diano quel che promettono. Si può affermare che al Nord d’Italia l’abolizione delle barriere dell’entrata nel mondo del lavoro, ottenuta con questi lavori atipici e flessibili, ha rappresentato una occasione di stabilizzarsi dopo un periodo iniziale di precariato; restano intrappolati nella instabilità solo il 6.9 %; al Sud invece dove ci sono meno occasioni, è più alta la quota di lavoratori instabili, sono quasi il doppio di quelli del Nord. Chi resta nella trappola della precarietà è il 20%.

    Non tutto il male vien per nuocere

    Ti fai sicuramente una buona esperienza nel creare il curriculum e nel fare colloqui per l’assunzione. Ti metti a smanettare in Internet e ti si apre davanti un mondo di mille possibilità. Solo che tu sei nato qui, hai gli amici qui, ti piace la skyline che ti circonda che non vorresti cambiare per niente al mondo
    È talmente diventata una caratteristica del mondo giovanile, che paradossalmente i giovani che trovano subito un lavoro fisso, garantito, ben definito, con la prospettiva di essere “eterno”, si spaventano, vanno in crisi e prima o poi lo lasciano.
    Precarietà è ricerca, è mettere a prova le proprie qualità e la capacità di adattamento; precarietà è cambiare ambienti e poter fare utili confronti; precarietà è farsi un’esperienza utile di rapporti con varie persone, con il datore di lavoro, con i compagni di lavoro che cambiano continuamente; precarietà è dare corpo a progetti e non pagare eccessivamente se risultano sbagliati o deboli: si può ricominciare di nuovo in altre contesti e con altre condizioni; precarietà è star sospesi nella vita e continuamente rimandare le decisioni che si fanno fatica a prendere.
    Precarietà però è anche sentirsi di nessuno, essere usato con finanziamenti promozionali per una migliore qualificazione e non vederne nemmeno l’ombra. Precarietà è anche non riuscire a mettere radici, è non poter avere uno stipendio fisso e quindi il mutuo per affrontare le spese necessarie se vuoi mettere su casa. Precarietà è essersi preparati e qualificati a fare qualcosa di bello che ti piace e adattarsi per troppo tempo a vivere di rimedi.
    Ti sei impegnato al massimo negli studi per ottenere una identità professionale e quando hai finito quell’identità non è più spendibile sul mercato. Uno, allora, si chiede se valeva la pena fare tanti sacrifici o se forse non sarebbe stato meglio imparare a navigare a vista o avere avuto indicazioni che ti aiutavano a cambiare quando capivi che la strada era sbagliata. Non ti azzardare più a chiedere a un giovane che lavoro fa per farti un’idea della sua personalità, del suo giro di persone, dei suoi interessi, delle sue aspirazioni, perché il suo lavoro non lo identifica e domani, se non stasera stessa, sarà già cambiato.

    E dentro come ci si sente?

    Per molti è crisi nera. È continuare a rimandare le scelte fondamentali della vita o perlomeno avere una copertura ufficiale per camuffare l’incapacità di scegliere la propria strada. Chi ha puntato su una identità da immagine si sente frustrato, perché non sempre le immagini che gli vengono appiccicate gli vanno bene. Se vivi un rapporto di coppia i problemi sono moltiplicati per due e sicuramente non sono risolti contemporaneamente. Siamo un popolo di mammoni, noi non siamo americani che stanno a mille miglia dalla mamma già a diciotto anni e sperano di non tornarci più, dove gli amici non sono quelli della contrada o della confraternita o della piazza, ma del college, presi a prestito oggi e mollati domani come quando si faceva la naia. Io dai miei amici ci voglio tornare ogni sabato notte altrimenti non mi pare di esistere. Non mi interessa se domenica pomeriggio sono già in treno o in aeroporto per tornare al lavoro con la borsa piena di vestiti lavati, stirati e profumati e il dolce fatto in casa per gli amici.
    La prima scelta da fare è di non fingere che i problemi non ci siano, ma sapere che si devono affrontare direttamente. Alcune abitudini di vita vanno cambiate, alcune certezze e autonomie occorre costruirsele da soli. Una interiorità profonda, un radicamento della propria vita nel profondo della propria coscienza va tentato. Sei sempre tu, in tutti i cambiamenti. C’è una fortezza interiore che ti devi conquistare. Devi programmare un addestramento alla interiorità, che ti può permettere di guardare più profondamente dentro di te e di vedere che c’è un tesoro nella vita di ciascuno che non è disponibile né ai cambiamenti, né ai conflitti che da essi sono provocati, ma è appunto dentro e costituisce il segreto dell’esistenza. Saper vivere la propria esperienza di precarietà dentro questa dimensione interiore vuol dire saper attingere a questo tesoro che è presente nella profondità nella nostra vita e che è il mistero della comunione con il Signore. Una personalità interiore è forza indispensabile per misurarsi con la flessibilità. Questo significa che la vita cristiana deve andare più in profondità, che c’è uno spazio da costruire in cui risuonano ogni giorno le esperienze della vita e vi trovano la possibilità di diventare senso compiuto.
    La seconda scelta da fare è costruire una nuova solidarietà. La tentazione di farsi i fatti propri, di sfruttare le occasioni per fare sgambetti agli altri, di insinuarsi nelle debolezze degli altri per costruirsi il proprio piedestallo, perché tanto siamo tutti in corsa e conta chi arriva primo, di fare della professione un continuo arrembaggio, tanto più che il mercato lo crea chiamandolo sana competizione, deve scontrarsi con nuove capacità di condivisione, di aiuto vicendevole, di amicizia che pure costa e si paga. Non sarà la grande solidarietà del mondo operaio di proverbiale memoria, ma non ci si può adattare al cannibalismo, al menefreghismo, al carrierismo. Anche oggi nella precarietà nascono belle amicizie, scambi di conoscenze, sostegni impensati per periodi di particolare necessità. Anche oggi nella società dei rampanti c’è qualcuno che crede di più nell’amore che nel successo e vive una vita serena. Alla lunga la solidarietà paga anche nella competizione, perché è sempre un uomo e una donna che lavorano e non delle macchine, e la solidarietà è la risorsa umana più utile nell’avventura umana della vita
    E ancora occorre allargare l’orizzonte al mondo intero. Siamo cittadini del mondo, non abitanti di un quartiere. Dobbiamo rendere il mondo più abitabile, dovunque, anche là dove ci passiamo solo saltuariamente. Questo esige che diventi un mago delle relazioni. Dove mi porta il mio lavoro, là ci sono tutto, con la mia voglia di vivere, la mia creatività, la mia fede, il mio carattere, la mia giovinezza, la mia capacità di pace e di convivenza. Non ho lasciato in deposito nel mio paesello, tra i miei amici della band, alla mia fidanzata o al mio fidanzato le mie qualità, ma me le sono portate sempre con me, perché sono io che lavora, non pezzi sopportati della mia vita. In questa maniera posso fare il flessibile finché vogliono, ma io sarò sempre intero e darò sempre a tutti il dono della mia vita.

    NOTA

    [1] Interessante al riguardo il libro di un giovane: Giuliano Da Empoli, Un grande futuro dietro di noi, Marsilio 1996.


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