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    Una PG in prospettiva interculturale



    Intervista a Francis-Vincent Anthony

    Direttore dell’Istituto di Teologia Pastorale, UPS Roma

    A cura di Giancarlo De Nicolò

    (NPG 2010-04-20)


    DOMANDA. Come vede Lei lo stato della questione? In altre parole, perché è necessario oggi pensare la PG (anche nel nostro territorio) non più solamente in prospettiva italocentrica o eurocentrica, bensì in termini più allargati?

    RISPOSTA. Il motivo fondamentale è che viviamo in un mondo globalizzato munito di immense reti e tecnologie di comunicazione, per cui la vita dei giovani non è più rinchiusa entro i confini nazionali o continentali. La globalizzazione fa riferimento prima di tutto a questa de-territorializzazione che raggiunge e interessa tutti gli ambiti della vita: quello economico, politico, sociale, culturale e religioso. In altri termini, lo stretto legame tra la terra nativa e la vita concreta degli autoctoni viene in un certo senso sciolto o ridimensionato. Siamo di fronte ad un intreccio d’interdipendenza a scala mondiale in tutti i settori della vita, che sfugge all’ordinamento e al controllo locale. Senza muoversi dalla propria patria, i popoli percepiscono che la loro vita è determinata e condizionata dalle scelte fatte da altri. Già questo fatto ci costringe a pensare la PG non più solamente in prospettiva italocentrica o eurocentrica. Una preoccupazione pastorale unicamente legata al contesto locale smentisce un’esperienza reale della gente del posto, soprattutto dei giovani.
    Il secondo motivo per allargare la visione deriva dal fatto che oggi la de-territorializzazione riguarda le stesse persone, cioè il loro muoversi facilmente oltre il confine dei propri paesi per motivi economici, politici, culturali e religiosi. È l’immenso fenomeno della migrazione. L’immigrazione dei popoli confronta i nativi, per esempio gli italiani, ponendo loro di fronte al fatto che il loro territorio non è ormai più legato solamente alla loro tradizione linguistica, culturale, religiosa... La presenza degli «stranieri» (cioè di persone di altre etnie, lingue, culture, religioni …) crea, per i nativi, un mondo estraneo nel proprio paese. L’attuale riflessione pastorale non può ignorare le sfide che il crescente pluralismo culturale e religioso lancia all’identità cristiana ed ecclesiale degli stessi italiani. La presenza di immigrati cristiani crea una analoga situazione intra-ecclesiale.
    Il terzo motivo per allargare la visione è dovuto al fatto che le altre religioni sono mondiali, motivo per cui costituiscono uno dei più antichi e più diffusi aspetti della de-territorializzazione. Già prima della tradizione giudaico-cristiana, altre tradizioni religiose come l’induismo e il buddismo hanno varcato il territorio della loro origine, cioè l’India. Certo, la tradizione cristiana, nata nel continente asiatico (Medio Oriente), ha avuto la sua maggiore fioritura in Europa, diventando quasi una religione europea. Ciononostante, una riflessione teologico-pastorale non può ignorare che la fede cristiana di origine semitica viene oggi celebrata e vissuta maggiormente nell’emisfero sud, cioè nel continente latinoamericano, africano e asiatico. Per comprendere la fede cristiana vivente, occorrerà quindi fare riferimento alle chiese locali sparse nel mondo. D’altronde, il mistero di Cristo è inesauribile, e ogni nuova cultura che la Chiesa incontra nel suo peregrinare nel tempo e nello spazio diventa una chiave in più per spingersi verso la piena conoscenza della Verità. In questo cammino, la Chiesa di Roma, e insieme la Chiesa italiana, non può rinunciare al ruolo collaudato dalla sua tradizione millenaria di essere il centro di unità, cioè il luogo di interscambi religio-culturali nella fede e in vista dell’unità della fede. Tutto ciò comporta che la riflessione teologico-pastorale nell’ambito della PG in Italia e in altri parti del mondo non può che essere congiuntamente locale e universale, contestuale e interculturale.

    Giovani italiani, giovani asiatici

    D. La condizione umana e culturale del giovane occidentale (italiano) e quella dell’asiatico (indiano) rispetto alla componente religiosa, e in particolare cristiana, sono confrontabili? Quale è l’impatto del contesto sulla loro identità religiosa, cristiana?

    R. Ovviamente la vita religiosa dei giovani ha qualcosa di comune in ogni parte del mondo, giacché i giovani si trovano in una iniziale tappa di progressivo sviluppo delle proprie potenzialità umane e religiose. Ma tale loro sviluppo umano e religioso è radicalmente condizionato dalla cultura che respirano. È vero che, alla pari dei loro coetanei italiani ed europei, i giovani asiatici/indiani sono condizionati nella loro vita religiosa da una cultura scientifica e tecnologica, moderna/postmoderna. È altrettanto vero però che la grande maggioranza (il 74% in India) dei giovani vive in zone rurali e tribali, con tutte le limitazioni che questo comporta a livello economico ed educativo. L’impatto secolarizzante della modernità su questo tipo di giovani è palesemente differente. In ogni caso, l’impatto della modernità nel contesto asiatico è molto diverso da quello che sperimentano i giovani europei. In Asia, anziché indebolire la dimensione religiosa delle persone, l’impatto della modernità tende a rafforzarne l’identità religiosa, in quanto attiva un meccanismo di difesa, che a volte si spinge fino a dar vita a varie forme di fanatismo religioso. I giovani asiatici possono essere facile preda del fondamentalismo religioso, meno per motivi strettamente religiosi e più per mancanza di pari opportunità di sviluppo economico e di status sociale. Per i giovani europei, al contrario, il rischio è dovuto al sottile fascino di un dominante fondamentalismo ideologico laicista.
    Diversamente dal contesto secolarizzato dei loro coetanei europei, i giovani asiatici si trovano in un contesto socio-culturale profondamente segnato dalla religione e dalla spiritualità. Da una parte, negli ambienti di estrema povertà, le religioni asiatiche rischiano di diventare l’oppio del popolo; dall’altra, in forza della loro intensa preoccupazione per la verità, le tradizioni religiose asiatiche coinvolgono le persone, anche i giovani, in un cammino basato sulla loro esperienza personale, segnata da visioni filosofiche e da tradizionali scelte pratiche, nell’affrontare la complessità della vita odierna. Non avendo una gerarchia (come nel Cattolicesimo) che regola e assume responsabilità per la propria tradizione religiosa, la gente, le famiglie, gli individui (anche i giovani) si sentono interpellati dalle vicende della loro vita e congiuntamente sollecitati a vivere e tramandare la propria tradizione in modo spontaneo e organizzato. Ecco un altro tratto che distingue gli appartenenti alle tradizioni religiose asiatiche dai cristiani, sia asiatici sia occidentali.
    Indipendentemente dall’impatto della modernità, vivere in un contesto multireligioso di lunga data e appartenere a una comunità religiosa di minoranza segna un’accentuata differenza tra i giovani cristiani asiatici e quelli occidentali. In Asia, incluse le Filippine, dove i cristiani sono circa 90% della popolazione, i Cristiani presi complessivamente sono circa 3% della popolazione. In India per esempio, i cristiani (cattolici e di altre confessioni) rappresentano solo 2,7% della popolazione. Già vivere in un contesto multireligioso sollecita la persona a prendere coscienza della propria identità religiosa. E vivere come una piccola minoranza in un contesto multireligioso costringe in genere i giovani asiatici ad essere ancor più consapevoli della propria identità cristiana. Per i cristiani, la loro fede diventa fattore fondamentale per distinguere la propria identità personale e sociale. Ciò costituisce un vantaggio per i giovani cristiani in Asia. D’altra parte, il fatto che la fede cristiana non è molto integrata con la cultura locale crea non di rado una identità cristiana estranea al contesto locale. Il ristretto numero dei cristiani evidenzia paradossalmente che il cristianesimo non ha messo profonde radici proprio in un continente segnato da intensa sensibilità religiosa. A lungo andare, questa situazione, co­me è rilevabile già tra i giovani nelle città asiatiche, può favorire l’indifferenza oppure la superficialità nella vita cristiana. Un rischio analogo è sperimentato dai giovani italiani/europei: la fede cristiana nelle sue espressioni tradizionali sembra molto lontana dalla loro esperienza di vita.

    I guadagni della pedagogia ­interculturale

    D. I grandi passi fatti dalla pedagogia interculturale in cosa possono sollecitare la PG?

    R. Il multiculturalismo inteso come rispetto e tolleranza della diversità culturale ha in sé qualcosa di positivo, come del resto l’acculturazione dovuta all’effetto prodotto dal contatto con altre culture. Mentre rispetto e tolleranza, nel caso di multiculturalismo, rischiano di trasformasi in indifferenza e isolamento rispetto alle altre culture, l’acculturazione può ridursi a subire in modo inconscio l’effetto anche indesiderato delle altre culture. La pedagogia interculturale segna un passo in avanti nel senso che la diversità culturale diventa una opportunità e una condizione per un’interazione consapevole e critica di maturazione e di crescita personale e sociale.
    Siccome le culture esprimono visioni e progetti di vita di un popolo, l’interazione con un’altra cultura favorisce una maggiore presa di coscienza circa la propria visione della vita o il proprio progetto di vita, che sovente uno ritiene pacifico e scontato mancando del confronto con la diversità. Dal punto vista pedagogico, ciò è già un risultato positivo dell’intercultura: produce infatti l’appropriarsi in maniera consapevole della propria visione della vita, ereditata dalla propria tradizione socio-culturale e religiosa. Nell’ambito della PG questa dinamica può essere di stimolo a prendere atto in modo riflesso del proprio progetto di vita, prima ancora di confrontarlo con quello degli altri. Se non assicura una certa consapevolezza circa la visione e direzione della propria vita, la PG difficilmente può essere in grado di sostenere la maturazione umana e cristiana dei giovani.
    Favorendo la consapevolezza circa alcuni aspetti della propria visione della vita, la pedagogia interculturale sollecita i giovani a confrontarla con quella degli altri. Un confronto onesto e critico fa scoprire anzitutto i limiti, i pregiudizi, le ideologie distorte… di fronte ai quali uno è in genere cieco, appunto perché sono condivisi acriticamente da tutti gli appartenenti alla propria cultura e società. La presenza di un estraneo portatore di una sua cultura alternativa attiva automaticamente una critica nei confronti della cultura della gente del posto, ne rivela la limitatezza e ne fa prendere coscienza.
    Dal punto di vista della PG, riconoscere i limiti e gli aspetti decadenti della propria cultura (anche della cultura moderna/postmoderna) è un imprescindibile requisito per promuovere l’autenticità umana e cristiana nella vita personale e sociale dei giovani.
    Il riconoscimento dei limiti della propria cultura porta anche alla scoperta degli aspetti pregevoli delle altre culture. Alcuni di questi aspetti possono essere facilmente integrati nella propria visione di vita, altri più difficilmente o meno. La crescita umana e cristiana dei giovani avviene integrando la propria visione di vita con la recezione critica (perché non ogni differenza è un valore) dei sistemi di significati e di valori degli altri. Le varie culture esprimono variamente in sistemi di significati e di valori la diversa comprensione di una realtà che è comune a tutte le persone. La scoperta delle diverse interpretazioni della stessa realtà diventa una sfida per la propria visione di vita e per la propria maturazione umana e cristiana.
    Tutto ciò dimostra che l’intercultura è un fattore rilevante per una PG impegnata a raffinare il senso critico e a rafforzare l’apertura mentale in un continuo processo di ricerca sempre più approfondita della verità, cioè di piena comprensione della realtà e del suo scopo ultimo. La PG interculturale in questo modo non solo contribuisce alla crescita e maturazione del credente, ma anche all’edificazione di una chiesa cattolica (in senso intensivo) e una umanità integrata e nuova (in senso estensivo).

    CULTURA E SPIRITUALITÀ D’ORIENTE

    D. Cosa della (cultura e) spiritualità d’Oriente può essere assunto o diventare terreno comune di confronto e dialogo a proposito dell’esperienza religiosa e di Dio?

    R. Qui mi limito a segnalare alcuni aspetti essenziali che caratterizzano la cultura e spiritualità orientale, e che possono essere significativi per l’Occidente come terreno comune di confronto e dialogo in un discorso religioso.
    Nel processo di conoscenza, l’Occidente tende a interessarsi della realtà oggettiva (l’oggettività della conoscenza), l’Oriente invece tende a occuparsi di più della realtà soggettiva (la conoscenza del conoscitore senza ridurlo a un oggetto). Le culture cinesi e africane, a loro volta, mettono rilievo il rapporto che corre tra la realtà oggettiva e quella soggettiva (la relazionalità nella conoscenza). Ovviamente tutte e tre le dimensioni (oggettività, soggettività e relazionalità) fanno parte di ogni processo di conoscenza, ma la tendenza a dare priorità a una di essa ne segna la diversità sostanziale. L’intercultura, come interazione diretta tra persone di diverse culture, può aiutarle a superare i limiti che derivano dall’una o dall’altra priorità data dalla propria cultura.
    Con la sua preoccupazione per la verità oggettiva, l’Occidente tende a ridurre la religione a un sistema di dottrina coerente; l’Oriente invece ravvisa nell’esperienza consapevole il metro della conoscenza religiosa. Siccome la persona non può conoscere il fondamento del suo essere riducendolo a oggetto di conoscenza, la via più appropriata alla conoscenza dell’essere è la coscienza esistenziale, l’esperienza consapevole. Senza addentrarsi in una comprensione raffinata del concetto di «coscienza» o «consapevolezza» esistenziale, si può far notare che la mancanza di questa dimensione mette a repentaglio la validità del messaggio cristiano e delle celebrazioni liturgiche, l’uno e le altre compresi come esperienza di fede, esperienza religiosa, esperienza mistica. L’educazione quindi alla coscienza o consapevolezza esistenziale può essere un campo di dialogo e di confronto, perché senza di essa non c’è una vera vita spirituale e religiosa.
    Collegato al discorso della coscienza o consapevolezza esistenziale, c’è un modo di ragionare che nell’Oriente si qualifica come «non duale». Una conoscenza oggettiva mira ad esprimersi in una razionalità analitica, in cui la distinzione è la via che conduce alla chiarezza e alla comprensione. A lungo andare, una razionalità analitica che procede in una prospettiva duale di «sì» o «no» porta a una conoscenza così specializzata e frammentata che fa perdere di vista la globalità della realtà. Per dirla con una metafora, l’albero fa perdere di vista il bosco.
    L’Oriente invece si caratterizza per un ragionamento più sintetico non duale, nel senso che tiene i poli divergenti del pensiero in una tensione sintetica, con il rischio a volte di ignorare le differenze.
    Un approccio non duale alla realtà resiste alla tentazione di tracciare una divisione semplicistica in termini di bianco e nero, vero e falso. Per esempio, per alcuni, siccome i cristiani hanno la verità, le altre religioni sono false. In una visione sintetica e non duale, invece, affermare la propria convinzione circa la verità non esclude automaticamente le altre convinzioni in fatto di verità. Anzi, l’esistenza di questa ultime diventa uno stimolo per una ricerca ulteriore della Verità, che in ultima analisi non può essere totalmente esaurita da nessuna tradizione culturale o religiosa. Un approccio non duale alla propria identità non si rapporta all’altro in modo conflittuale. Riconoscere l’identità dell’altro partendo dalla sua prospettiva crea una reale condizione di dialogo e di ricerca della verità. L’approccio non duale non fa perdere il legame sottostante le realtà, perché rispetta la dovuta loro distinzione. Per esempio, nei discorsi su Dio, sull’uomo e sul cosmo, per comprendere il significato di ciascuna di esse in ogni suo dettaglio, non si può perdere di vista l’intimo e necessario legame tra le tre realtà.
    Nella visuale orientale, la religione è fondamentalmente una ricerca della verità in cui la persona deve essere coinvolta in modo personale ed esperienziale. L’ultima prova della verità non può essere espressa pienamente in parole e concetti, ma diviene accessibile alla coscienza esistenziale o alla consapevolezza esperienziale. Il protagonismo del soggetto umano in questa ricerca è indispensabile, senza peraltro negare la libertà del soggetto divino. L’esperienza fondante delle scritture e degli altri discepoli lungo i secoli ha lo scopo ultimo di rendere possibile l’esperienza religiosa del soggetto vivente. Il valore della esperienza esistenziale di ogni persona umana è una caratteristica che interpella la responsabilità della singola persona e ne sollecita l’apertura incondizionata alle altre persone. In ambito religioso questa visione dell’esperienza del divino si muove nella direzione di «il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato». In una visuale occidentale la vita cristiana è spesso percepita nella direzione opposta: «l’uomo è per il sabato».
    La priorità data alla conoscenza del conoscitore nella sua coscienza o consapevolezza esistenziale costituisce la base del protagonismo del soggetto nella ricerca della verità. Da qui derivano la centralità dei seguenti valori: tolleranza, non violenza, armonia, rinuncia, servizio disinteressato, equanimità… Questi e altri valori tipici possono essere una sollecitazione per l’Occidente cristiano e non.

    LA «VERITÀ» DELLE RELIGIONI

    D. In tale contesto, quali sono gli elementi fondamentali di una teologia che si apre al dialogo con le religioni? E, detto in termini non polemici, come ci si può collocare senza finzioni quando si parte con l’invincibile certezza della «verità» del cristianesimo?

    R. Senz’altro noi cristiani non possiamo negare oppure sottacere la Verità che abbiamo conosciuto in Gesù Cristo, salvatore unico e universale. Con questa certezza però non possiamo considerare le altre religioni come semplicemente false oppure in errore. Le religioni in un certo senso sono un compendio delle esperienze religiose dei loro seguaci. Già il concetto di «semina verbi» che il Concilio Vaticano II ha ripreso dai Padri della chiesa, suggerisce che i semi del Verbo sono sparsi nelle culture e religioni nel mondo. Noi che conosciamo il Verbo fatto carne sentiamo il dovere di percepire questa presenza nascosta di Cristo e portarla alla piena realizzazione con un dialogo rispettoso. Dal punto di vista della nostra fede un tale approccio inclusivo ovvero di compimento è legittimo e auspicabile. Ciò significa che un approccio esclusivo o di sostituzione non è tanto in sintonia con la Verità del Vangelo e della tradizione patristica. Sarebbe una illusione infondata pensare che prima o poi la fede cristiana così come la professiamo oggi sostituirà tutte le altre religioni. D’altronde non possiamo nascondere che sia nell’approccio esclusivo o di sostituzione sia in quello inclusivo o di compimento attestiamo la verità solo di una religione, la nostra. Questa prospettiva monistica (verità solo della propria religione) del resto è presente anche nelle altre religioni mondiali. Tutte le religioni mondiali, proprio per la loro pretesa di verità universale, si sentano obbligate a spiegare in una prospettiva inclusiva gli aspetti positivi che si trovano oltre il loro confine.
    Se guardiamo le religioni a partire dal punto di vista dei loro seguaci e con un atteggiamento di rispetto della loro convinzione e dignità, allora siamo costretti a praticare un approccio pluralista di comunanza oppure un approccio pluralista differenziale. L’approccio pluralista di comunanza tende a evidenziare gli aspetti comuni tra le religioni, considerandoli come espressioni diverse della stessa realtà comune, per esempio dell’essere trascendente. Nonostante il valore che ha questo approccio nel facilitare l’incontro e gli impegni comuni delle religioni, esso può cadere nel relativismo, in quanto ignora le vere differenze.
    Un approccio pluralista differenziale riconosce gli aspetti caratterizzanti delle altre religioni, anche se non li condivide. Per esempio, nell’incontro con i seguaci di altre religioni non possiamo occultare l’aspetto più caratterizzante della nostra fede: Gesù Cristo, salvatore unico e universale. Allo stesso modo, dovremo riconoscere gli aspetti caratterizzanti delle altre tradizioni religiose, anche se non li possiamo condividere pienamente: per esempio, l’assoluta unità di Dio affermata dall’Islam. Riconoscere le differenze tra le religioni in modo rispettoso assicura la nostra identità, mentre diventa anche una sfida e opportunità per esplorare gli aspetti trascurati della nostra fede e anche per tentare nuovi sviluppi nella sua comprensione. In questa prospettiva, come nel caso della biodiversità, anche la diversità delle religioni, del sacro (ierodiversità), pare una necessità e un’opportunità anziché un problema o un ostacolo.
    Senza trascurare la verità cristiana, possiamo intraprendere un dialogo intra-religioso (cioè nell’ambito della teologia cristiana e per la comunità cristiana) con le altre religioni nella prospettiva inclusiva o di compimento. È una prospettiva legittima per comprendere gli altri a partire dalla nostra fede. Tuttavia, un dialogo che rispetta anche il punto di vista degli altri, cioè un dialogo inter-religioso, richiede un approccio pluralista differenziale in cui possiamo riconoscere gli aspetti caratterizzanti degli altri, senza rinunciare ai nostri e con un’apertura al piano di Dio su tutta l’umanità. È senz’altro discutibile l’approccio esclusivo di sostituzione e quello pluralista di comunanza; il primo per il suo implicito atteggiamento negativo verso le altre religioni; il secondo per la tendenza relativista cui è esposto.
    Collocandosi in un’ottica inclusiva di compimento, la teologia cristiana delle religioni concentra il dialogo attorno a quattro nuclei irrinunciabili: il dialogo ecclesiocentrico (il ruolo della Chiesa nella salvezza), il dialogo cristocentrico (il ruolo di Cristo nella salvezza), il dialogo teocentrico (il ruolo di Dio nella salvezza), e il dialogo antropocentrico (il ruolo dell’uomo nella salvezza).
    Il dialogo intra-religioso praticato nella prospettiva inclusiva di compimento come pure in quella pluralista differenziale (e anche in quella pluralista di comunanza quando non implica relativismo) è ormai imprescindibile per conservare e annunciare in maniera autentica la nostra fede in un mondo multireligioso e globalizzato.

    PASTORALI GIOVANILI A CONFRONTO

    D. Che cosa può offrire una PG asiatica (indiana) ad una PG occidentale (italiana)? E viceversa?

    R. Anzitutto devo chiarire che la PG asiatica, come del resto la teologia asiatica, è già segnata dagli sviluppi e contributi della teologia e della PG occidentale. Paradossalmente il dialogo intra-ecclesiale, per una lunga tradizione missionaria, è rimasto unidirezionale: mentre la teologia e la pastorale nei vari contesti continentali sono segnati dalle acquisizioni della tradizione ecclesiale europea, quest’ultima riflette poco o niente delle acquisizioni degli altri. Perciò mi limito a rispondere alla prima parte della domanda: che cosa può donare una PG asiatica (indiana) ad una PG occidentale?
    Le acquisizioni della PG asiatica sono ovviamente legate, da una parte, al pluralismo religioso, culturale, linguistico ed etnico e, dall’altra, alla situazione socio-economica segnata anche da estrema povertà e da oppressione ingiusta. In altre parole, gli aspetti caratterizzanti la PG asiatica sono la sua qualità dialogica e il suo orientamento liberante. Qui concentriamo la nostra attenzione sulla sua dimensione dialogica.
    La maggioranza dei giovani che incontriamo nei nostri centri educativi, sportivi, di assistenza sociale… appartengono ad altre tradizioni religiose. In India, per esempio, oltre l’80% dei giovani che frequentano istituzioni educative cristiane sono induisti e musulmani. Di conseguenza la PG indiana si riferisce spontaneamente a un situazione di interazione tra giovani che appartengono a varie religioni, lingue ed etnie. In altre parole, l’ambiente istituzionale della PG è segnato dal pluralismo, pur seguendo un esplicito orientamento cristiano. La specifica cura pastorale dei giovani cristiani non può sottovalutare il pluralismo vissuto nei centri giovanili, evidente riflesso di quello esistente nella società. Né può escludere la maggioranza dei giovani appartenenti alle altre religioni dalla nostra preoccupazione educativa. Il dialogo di vita vissuto in modo spontaneo e organizzato nelle istituzioni formative di vario genere ne costituisce un fattore caratterizzante. Nel contesto indiano di maggioranza indù, alcuni aspetti della cultura indù vengono assimilati in modo occasionale e spontaneo nei vari settori della PG, soprattutto in quelli educativi.
    Ci sono anche tentativi di riflessione sistematica sulla PG indiana. Segnaliamo qui alcuni elementi essenziali della PG contestualizzata e da contestualizzare in India, che possono avere un valore anche per il contesto italiano in una prospettiva interculturale.
    * In primo luogo, data l’importanza accordata alla dimensione soggettiva nel processo conoscitivo, nel comunicare delle verità religiose, ciò che riveste un valore educativo non è tanto la chiarezza della definizione, quanto piuttosto la capacità di attivare una riflessione e consapevolezza esperienziale. Per l’Oriente, gli aspetti più profondi della vita devono essere percepiti dal soggetto, e l’educatore o l’agente pastorale hanno il compito di stimolare gli allievi a percepirli e non quello di imporli loro dall’esterno. I valori più profondi della vita come l’amore, la comunione, l’esperienza di Dio… vengono espressi e comunicati meno con il ricorso a concetti chiari e distinti, e molto più valendosi di metafore polivalenti, di parabole e di simboli che sollecitano il giovane a scoprirne il significato in modo attivo. Per dirla con una metafora, il gusto della mela sta nel masticarla per conto proprio.
    * In secondo luogo, nella prospettiva indiana, per suscitare e accompagnare l’esperienza religiosa tra i giovani – uno degli obiettivi centrali della PG – è decisiva l’esperienza religiosa degli stessi operatori/trici pastorali, cioè il loro grado di coscienza o consapevolezza esistenziale. Se la trasmissione di fede è una comunicazione di esperienza religiosa, questo presuppone la consapevolezza esistenziale degli stessi agenti, cristiani e cristiane. Non è il conoscere la dottrina, ma il possederla con coscienza esistenziale, come esperienza consapevole, ciò che fa la differenza. In altre parole, per annunciare Cristo, occorre che l’operatore/trice pastorale viva un’esperienza personale del mistero di Cristo. Il fascino dei maestri (guru) nelle religioni orientali è dovuto all’affidabilità della loro esperienza religiosa personale e alla loro capacità di attivare un’esperienza analoga nei discepoli.
    * In terzo luogo, la PG intesa come orientamento a un progetto di vita pienamente umana e cristiana può essere arricchita dai seguenti quattro scopi della vita (purusartha), ritenuti tali nel contesto della cultura indiana. Lo scopo ultimo, «summum bonum» della vita è la «liberazione» (moksa), la realizzazione della gioia eterna. Questo scopo ultimo è intimamente legato alla comprensione di Dio come Saccidananda, cioè sat esistenza pura, cit coscienza perfetta, ananda gioia piena. Siccome l’essere umano è composto di anima e corpo, il raggiungimento della gioia ordinariamente richiede la cura di entrambi le dimensioni.
    In questa prospettiva si situano gli altri tre scopi della vita: procurare i mezzi materiali necessari per la vita (artha) e trarre dalla vita i godimenti psico-fisici (kama), senza però trascurare le norme morali (dharma). Integrare questi scopi della vita comporta imprimere un orientamento etico-cristiano all’acquisizione sia dei beni materiali sia dei piaceri della vita. In un contesto europeo segnato dal materialismo, dall’edonismo e sensualismo, la PG potrebbe ottenerne un sicuro beneficio, valorizzando questi scopi della vita umana dentro una visione cristiana.
    * In quarto luogo, un altro aspetto integrabile nella PG indiana e che può essere rilevante anche per la PG in Italia è la comprensione degli stadi di vita, offerta dalla cultura indù. Per raggiungere gli scopi della vita (purusartha), essa propone quattro tappe graduali e progressive. La prima tappa riguarda i giovani (brahmacarya) e comprende gli studi sacri, cioè l’apprendimento delle dottrine religiose e della disciplina personale sotto la competente guida di un maestro (guru). La seconda tappa riguarda la vita adulta familiare (garhasthya), in cui la persona sposata è chiamata a compiere i vari doveri religiosi e sociali maturando la propria esperienza di vita con il retto uso (dharma) dei beni materiali (artha) e dei godimenti psico-fisici (kama). La terza tappa riguarda la vecchiaia, una vita ritirata ed eremitica (vanaprasthya). L’esperienza di una vita di attivo coinvolgimento familiare e sociale (nella seconda tappa), e non soltanto gli insegnamenti teorici appresi (nella prima tappa), porta la persona a riconoscere la natura fragile e transitoria dei beni e dei piaceri di questo mondo e a dedicarsi alla vita penitenziale e solitaria nella ricerca dei beni eterni. Il percorso di maturazione culmina nella quarta tappa caratterizzata dalla rinuncia completa (sannyasa), segnata da una povertà assoluta e fatta di silenzio e solitudine, di amore universale (ahimsa, non violenza) ed equanimità, di preghiera e contemplazione. Mahatma Gandhi può essere citato qui come un esempio illustre di questo processo progressivo di maturazione. La gradualità di questo percorso però consente anche ai giovani e gli adulti, inseriti rispettivamente nel primo e nel secondo stadio, di passare direttamente a quest’ultimo stadio di perfetta rinuncia.
    Integrare una prospettiva di questo genere può situare in modo appropriato la PG dentro l’intero arco della vita, conferendo un più rilevante significato alla vecchiaia e alla vita religiosa di perfetta rinuncia. In questo modo la PG imprimerebbe una direzione al progetto di vita dei credenti, accogliendo anche le risorse intergenerazionali degli adulti e degli anziani. Secondo me, nel contesto sia indiano sia italiano, la PG acquisterebbe maggiore rilevanza se prospettasse con chiarezza gli scopi della vita e le tappe graduali per raggiungerli, integrando i contributi della catechesi familiare e parrocchiale, l’insegnamento della religione e l’educazione scolastica e universitaria, la formazione professionale (formale e non formale), culturale e politica dei giovani in un progetto globale. In un’ottica interculturale, a mio modo di vedere, la PG può definire meglio gli obiettivi e i metodi di animazione, mettendo meglio in risalto gli scopi della vita e gli stadi di maturazione umana, religiosa ed ecclesiale.
    In conclusione, mentre la catechesi come parte integrante della PG esprime anzitutto la preoccupazione della comunità cristiana diretta a suscitare e accompagnare i giovani nella loro esperienza di incontro con Cristo nella Chiesa, la PG contestuale e interculturale dovrebbe farsi carico del progetto di vita dei giovani rendendo la fede cristiana, l’incontro con Cristo, come il sale che dà sapore ad ogni tipo di cibo, come la luce che illumina ogni cosa. In altri termini, occorre che la PG miri a rendere i giovani capaci di illuminare e di rendere saporito ogni aspetto della loro vita in un contesto multiculturale e multireligioso, partendo dalla prospettiva della fede cristiana e al fine di realizzare gradualmente gli scopi ultimi della vita, seguendo le tappe successive di un progetto di vita.

    PRASSI CONCRETE

    D. Tutte queste indicazioni avranno una base empirica, cioè esperienze realizzate su cui si è riflettuto. Un discorso piuttosto teorico nell’ambito pastorale deve chiaramente riferirsi alla prassi concreta di PG. Può dare qualche esempio di PG interculturale nel contesto indiano?

    R. Tra i numerosi esempi che si possono raccontare, accenno solo ad alcuni molto comuni nelle nostre strutture educative (scolastiche, professionali, universitarie…) e in centri giovanili (oratori) e sociali (per ragazzi di strada, orfani…). Come ho già segnalato, la grande maggioranza dei giovani che frequentano le istituzioni cristiane è induista, e gli appartenenti di altre religioni costituiscono delle piccole minoranze. Questa situazione impone delle esigenze pratiche sulla PG indiana.
    Nelle scuole cattoliche oppure in altri centri occorre, per esempio, consentire un momento di preghiera cui possano partecipare i giovani di altre tradizioni religiose. Pertanto si scelgono testi di preghiera come il «Padre nostro», i salmi, oppure poesie religiose di altre tradizioni (per esempio di Tagore) che si riferiscono a Dio ma non con un nome specifico come quello di Gesù Cristo, di Shiva oppure di Allah. Spesso nelle assemblee scolastiche all’inizio della giornata vengono proposti per la riflessione brevi brani tratti dalla Bibbia oppure dalle Scritture e letterature religiose delle altre tradizioni che possono avere un significato religioso e morale per tutti, a prescindere dalle loro religioni specifiche. Anche gli insegnanti seguaci di altre religioni sono coinvolti nel commentare testi edificanti delle loro tradizioni religiose. Del resto, già nel curricolo dedicato all’apprendimento della letteratura classica delle lingue locali, tutti gli studenti sono obbligati a confrontarsi con i testi più rilevanti della tradizione indù, cristiana, musulmana…
    Nelle scuole cattoliche e nei centri giovanili c’è anche la tradizione piuttosto consolidata di celebrare alcune feste significative di altre tradizioni come la Dipavali (la festa indù delle luci) arricchendola anche di qualche significato cristiano. Analogamente, gli studenti non cristiani sono invitati a celebrare le feste cristiane come il Natale. In questo modo, la cura educativo-pastorale dei cristiani diventa un annuncio per gli altri, e la cura educativo-religiosa degli appartenenti ad altre religioni favorisce un dialogo con loro e, allo stesso tempo, sollecita i cristiani a riappropriarsi di rilevanti aspetti caratterizzanti la propria eredità culturale e religiosa locale. In altre parole, ai giovani appartenenti ad altre religioni viene offerto un naturale e genuino ambiente di dialogo e di rapporti interculturali. Una PG dialogica e interculturale non può che essere attenta ai cristiani e ai giovani di altre tradizioni religiose in un unico slancio educativo-religioso. Tale preoccupazione formativa che l’agente pastorale manifesta per tutti i giovani a prescindere dalla loro appartenenza religiosa è una caratteristica della PG indiana. Il contatto quotidiano di vario genere con l’agente pastorale e l’educatore cristiano fa percepire e vivere molti valori cristiani anche dagli altri. D’altra parte anche educatori o animatori di altre religioni collaborano in modo formale e non formale con i nostri progetti di formazione in vari centri educativi e sociali. In questo senso, la prassi educativo-pastorale nell’ambiente multireligioso indiano si qualifica come un continuum di prassi ecclesiale-cristiana-religiosa.
    Certo, per i cristiani sono inoltre previsti momenti specifici di catechesi (nei centri giovanili e nelle parrocchie) e di insegnamento della religione cattolica (nelle scuole cattoliche); mentre per i giovani di altre religioni che frequentano tali strutture cattoliche è prevista la formazione etica e morale. Non è raro però trovare anche i giovani di altre tradizioni religiose che desiderano liberamente partecipare agli incontri di formazione e di celebrazione liturgica rivolti ai cristiani.
    Ricordo che nell’oratorio salesiano che frequentavo da adolescente (a Chennai), sono rimasto colpito dagli scout di aderenti ad altra religione che solennizzavano insieme ai loro amici cristiani le celebrazioni eucaristiche delle grandi feste, sventolando le bandiere e suonando la tromba con grande entusiasmo. Il capo scout (all’epoca un giovane indù) col passare degli anni si è fatto cristiano. Nella scuola superiore e in quella professionale dove ho lavorato come insegnante in due periodi differenti, osservavo molti studenti indù che liberamente partecipavano alle celebrazioni liturgiche organizzate per i cristiani. Per gli indù è un modo naturale di convivenza e di condivisione senza rinunciare alla loro identità nella continua ricerca della verità.
    Alcune ricorrenze civili (per esempio, la festa dell’indipendenza) e socio-culturali (per esempio, la festa della mietitura) in cui tutti partecipano senza distinzione di religione, etnie e lingue, creano un senso di profonda unità pur nella notevole diversità. D’altra parte, alcuni mali sociali come il sistema delle caste, la corruzione e la violenza sono comuni a tutti e sollecitano tutti ad affrontarli sulla base di valori etici condivisi dalle varie tradizioni religiose e culturali. Tutto ciò dimostra che gli educatori e gli agenti pastorali sono spontaneamente portati a fare propria una visuale interculturale e interreligiosa nel comune impegno diretto a promuovere l’integrazione e il bene comune.
    Ci sono poi i circoli e le manifestazioni culturali di vario genere (musica, teatro, danza, arte…) nei quali vengono proposti in modo naturale e pacifico temi e racconti di varie tradizioni religiose, data la loro importanza e qualità culturale. È del tutto normale trovare ragazzi indù che ballano al ritmo di un canto di ispirazione cristiana oppure recitano un pezzo teatrale cristiano, e viceversa.
    Infine, per tutti i giovani, accanto ai vari sport diretti a favorire la salute psico-fisica, ci sono anche tradizionali esercizi formativi che possono rivestire una valenza umana e spirituale, come lo yoga. In questo modo l’ambiente indiano multiculturale e multireligioso crea quotidiane opportunità di relazioni interculturali e di dialogo interreligioso arricchenti sia la vita cristiana sia la cultura locale.

    I rischi del relativismo e del sincretismo

    D. Mi domando se in questo modo di attuare la PG non ci può essere il rischio di relativismo e di sincretismo, di cui si è accennato prima. Quale la sua riflessione al riguardo?

    R. Indubbiamente l’incontro interculturale e interreligioso in ambito educativo-pastorale non può essere lasciato al caso, perché ci sono veri rischi di relativismo e di sincretismo.
    Ricerche empiriche e teoriche si dimostrano indispensabili per comprendere criticamente il fenomeno e per offrire un orientamento appropriato.
    Già vent’anni fa, convinto di ciò, ho intrapreso una ricerca su «fede e cultura nella scuola cattolica». Nell’inchiesta (realizzata nel 1990, pubblicata nel 1997 e 1999), ha partecipato un campione di 990 studenti cattolici e 390 insegnanti cattolici di 14 scuole cattoliche superiori dello stato di Tamil Nadu. I risultati fanno emergere come l’integrazione tra la fede cristiana e la cultura locale Tamil dipende dall’approccio che uno assume verso la religione indù. Un atteggiamento, più precisamente, che sembra essere guidato da due concetti chiave: possibilità o meno sia di autentica «esperienza religiosa» sia di «salvezza» nelle altre tradizioni religiose.
    Un’altra ricerca venne condotta nel 2003 tra 1920 studenti induisti, musulmani e cristiani iscritti a 17 centri universitari sempre nello stato di Tamil Nadu. I risultati (man mano pubblicati dal 2005) rilevano per esempio l’approccio che i giovani induisti, musulmani e cristiani assumono verso le altre religioni. Si constata che i giovani induisti tendono più verso un approccio pluralista di comunanza, mentre i giovani musulmani e quelli cristiani tendono più verso a un approccio monista (che comprende i due gradi di esclusione e di inclusione). Inoltre gli induisti si differenziano significativamente dai musulmani nella loro tendenza pluralista differenziale.
    La ricerca si interessa anche di altre questioni: come influisce il religiocentrismo nel caso di ciascun gruppo nella loro percezione dei seguaci di altre religioni? Come è legata la pratica religiosa (istituzionale e personale) di questi giovani alla loro socializzazione religiosa? Quale tipo di esperienza mistica è vissuto dai tre gruppi? L’analisi di queste e di altre caratteristiche personali (socio-culturali, socio-economiche e socio-religiose) mette in luce i fattori che possono generare il conflitto oppure l’integrazione tra i tre gruppi religiosi.
    Questi tipi di ricerche sono indispensabili non solo per comprendere l’incontro interculturale e interreligioso, ma anche per costruire su un solido fondamento la PG in un contesto multireligioso e multiculturale.


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