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    Vita che non è mai tardi… per morire!


     

    Segni dei tempi e anno della fede /8

    La rimozione della morte

    Luigi Guglielmoni – Fausto Negri

    (NPG 2014-01-62)


    Nel noto film Blade Runner in cui si racconta la storia di un gruppo di ‘replicanti’, robot simili in tutto agli umani, i quali combattono per raggiungere colui che li ha costruiti. Una volta giunti a lui, gli chiedono perché debbano morire e implorano di essere risparmiati. Non ricevendo alcuna risposta, lo uccidono. La vicenda si compie quando l’ultimo dei replicanti dice al suo avversario: «Io ne ho viste di cose che voi umani non potete immaginare… E tutti quei momenti andranno persi nel vento come lacrime nella pioggia. È tempo di morire». E, piegando la testa, muore.
    Attraverso il film si può intravedere ciò che ogni essere umano consapevole affronta davanti alla propria morte.: lo smarrimento e la perenne lotta per scoprire perché si muoia, per cercare di vincere la morte. Tutto è stato inutile, se la morte vince la partita a scacchi, se l’invocazione a Colui che ci ha fatti resta senza risposta.
    Le prime pagine della Bibbia non sono solamente un passato di cui fare memoria, ma si pongono davanti a noi come progetto da costruire (Gen. 1-2). Il cap. e della Genesi, poi, racconta delle perenni tentazioni dell’umanità: vere, oggi, come non mai!

    Un “principio” che è oggi

    Nelle prime pagine della Bibbia l’uomo e la donna si lasciano sedurre da una forza misteriosa (simboleggiata nel serpente), la quale promette loro:
    - eternità: non morirete
    - onnipotenza: sarete come dèi
    - onniscienza: i vostri occhi si apriranno
    La donna vede allora che il frutto è “buono da mangiare”, “piacevole all’occhio”, “desiderabile per avere saggezza”, cioè il potere assoluto sulla propria vita.
    Questo peccato è l’archetipo di tutti i peccati dell’uomo di ogni tempo, di ciò che l’uomo non ha mai cessato di fare: oggi più che mai!
    La novità assoluta di questo inizio di XXI secolo, infatti, è che ci troviamo a gestire delle problematiche del tutto nuove, derivate dal fatto che l’uomo ha messo le mani sulla produzione della vita e tenta di scalare il cielo dell’immortalità. La più notevole sfida che il mondo della tecnica pone è che la vita si può gestire; o meglio, la vita “si produce” e si costruisce, così che la natura non sembra essere più la suprema padrona dell’umanità.

    Verso orizzonti sconosciuti

    La lunga vita, il benessere economico, la pace, la scienza che ha messo le mani sulla vita, hanno di fatto cambiato la nostra esistenza. Anche la morte è cambiata, soprattutto la morte.
    Appartenenza, identità, genere, origine sono cancellati senza pietà dall’orizzonte dell’uomo libero nel libero mercato. Oggi viene valorizzato il corpo nato da nessuno, che appartiene solo all’immagine che egli stesso si è costruito. L’uomo sarà finalmente libero dalla determinatezza del sangue, della genetica e del sesso. È un giocare sull’apparenza.
    Scrive Hervé Juvin: «Dopo gli dèi, le rivoluzioni e i mercati finanziari, il corpo diventa il criterio di verità. Esso è diventato il centro di tutti i poteri, l’oggetto di tutte le aspettative, e perfino quelle di salvezza» (“Il trionfo del corpo” – Egea 2006, p. XVI).
    È come se, attualmente, il corpo si fosse emancipato dallo Stato, dall’ordine e dalla collettività. Gli effetti di una corretta alimentazione e dell’attività fisica porteranno presto la speranza della vita a cent’anni. Le tecniche capaci di moltiplicare gli organi vitali, di rigenerali o di cambiarli, le possibilità fatte emergere dalla neurobiologia, dalla genetica e dalle nanotecnologie (chip sottocutanei che permetteranno un controllo in tempo reale, la diagnosi e il rilascio automatico di medicinali) ci stanno proiettando verso orizzonti sconosciuti. La vittoria conseguita sull’ambiente viene ora trasferita sulla genetica e la biologia, cioè sul corpo. Animali clonati, concepimento in vitro, banche organi e terapie genetiche, protesi intelligenti: è già iniziata una rivoluzione.
    Un dato incontrovertibile è il seguente: quando la durata della vita media raddoppia o triplica in pochi decenni, non è più la stessa vita, non è più lo stesso uomo. Oggi una persona di settant’anni, senza gravi patologie, deve prepararsi ad altri vent’anni di vita: può scoprire una nuova passione, studiare, lanciarsi in nuovi progetti…
    In un futuro ormai prossimo la famiglia, il matrimonio (eterosessuale, durevole, fedele), l’eredità, il risparmio, la morale stessa non avranno più lo stesso significato.

    Rimozione perché

    Esiste un’opposizione netta tra morte, limite assoluto dell’uomo, e cultura tecnologica, animata da una spinta illimitata del potere umano.
    La cultura tecnologica si propone di esercitare un potere sulla realtà, dominandola, ma la morte sfugge a questo: anzi, è il segno di uno scacco totale.
    La scienza è ottimistica, sicura di farcela a sormontare, prima o poi, tutte le barriere; la morte, invece, è un ostacolo insormontabile.
    Siamo immersi in una cultura dell’onnipotenza, certi che l’impossibile di oggi diventerà fattibile domani, grazie al progredire delle conoscenze scientifiche; ma la morte è il segno più eloquente dell’umana fragilità e davanti ad essa ci sentiamo radicalmente impotenti.
    Contemporaneamente, emerge la filosofia consumistica che diffonde a piene mani un’immagine ad un tempo ottimistica ed edonistica della vita. Occorre vendere e perché la produzione di oggetti e beni non si fermi è indispensabile concentrare l’attenzione sugli aspetti belli e attraenti dell’esistenza, lasciandone accuratamente in ombra gli aspetti oscuri, quali la sofferenza, l’infelicità, il dolore, la disgrazia…
    La rimozione della morte svolge così una funzione essenziale di dissimulazione della volontà di onnipotenza, contribuendo in misura forse decisiva a farla accettare: non una illusione catastrofica ma uno sforzo razionale dell’umanità di mettere a frutto le sue capacità per liberare totalmente se stessa.
    Gli uomini, non avendo potuto vincere la morte, han pensato bene di rimuoverla. In fondo tutti recitano la commedia di una vita che non avrà mai fine.
    Eccoci, così, all’incrocio di alcune strade.

    Il nascondimento e la spettacolarizzazione della morte

    La nostra è la società delle grandi contraddizioni. Mai come oggi la morte viene nascosta e, nello stesso tempo, spettacolarizzata.
    Nell’attuale società c’è tanta paura del limite, della sofferenza, della morte. Gli stessi funerali tendono a diventare sempre più un fatto privato. È in aumento la tendenza di cremare i propri morti, il che semplifica molto e velocemente i funerali.
    Il lutto è stato in qualche modo soppresso. Oggi è vergognoso parlare di morte e dei suoi laceramenti, come un tempo era cosa vergognosa parlare di sesso. Qualcuno ha parlato di “pornografia della morte”: un tempo si sosteneva che si nasceva dai cavoli, oggi si racconta che si muore tra i fiori. Ci si vergogna persino ad usare la parola “morte” e si preferiscono eufemismi: ci ha lasciato, è mancato, è andato in cielo, l’abbiamo perso… Molti arrivano alla maggiore età senza aver mai visto un morto e tantomeno uno che muore. Basti pensare come, in pochi anni, la festa dei santi e dei morti è stata sostituita da Hallowen. Il «dolcetto o scherzetto» ha soppiantato «l’eterno riposo».
    Qualcuno potrebbe obiettare che di morti se ne vedono anche troppi, ogni giorno. Tuttavia la morte diventata spettacolo è resa asettica, ridotta ad aneddoto o fatto statistico. Anche se suscita emozione spesso non c’è tanta differenza tra un dramma realmente accaduto e una messa in scena.
    La morte è poi medicalizzata. Non si muore quasi più nel proprio letto, ma in ospedale. Viene spostata l’attenzione (e la preoccupazione) dalla morte in sé – come evento inevitabile e universale – alle “cause” specifiche di morte, che vanno neutralizzate o contrastate. La morte non è più accettata come termine naturale dell’esistenza; quando una persona muore si va sempre alla ricerca di qualcosa o qualcuno cui dare la colpa.

    La spinta a mascherare ogni negatività e limite

    Tante persone diventano prigioniere della mania di rincorrere quello che li fa sentire sulla cresta dell’onda. Le strade sono tante.
    - Una strategia di vita fondata sull’acquisto, possesso e mantenimento di tutti quei beni divenuti le vere divinità della nostra epoca: ci riempiamo di cose che ci appaiono “eterne” e non abbiamo mai tempo per pensare, per stare con le parti più vere di noi stessi.
    - L’attivismo è un’autodifesa che consente di mantenere lo spirito sempre ben occupato distogliendolo da pensieri sgradevoli e inopportuni come chiedersi dove si stia andando, che cosa valga la pena di vivere…. Le domande fondamentali vengono accantonate.
    - Il culto del successo. L’immagine dell’uomo e della donna che ci viene proposta è quella di un esser onnipotente non toccata da tutto ciò che è limitatezza e negatività. Il piacere è diventato quasi un dovere, un obbligo. Consumare tempo libero e trovare piacere in ogni modo e a ogni costo è ormai un obbligo sociale.
    - Il rigetto della vulnerabilità e di coloro che la richiamano: i vecchi, i malati gravi, i diversi, i falliti…

    La “conquista” della morte come scelta

    Dopo secoli di prospettive limitate, adesso viene il tempo di un orizzonte di vita sconosciuto, in cui i corpi nuovi saranno sempre di più il prodotto dell’industria biologica (parti nuove, sistemi vitali e organi). In teoria, nulla più sembra vietare di superare i limiti biologici generalmente considerati insuperabili.
    La conquista della morte come scelta e come volontà sarà forse l’evento maggiore dei prossimi decenni? Dopo aver privatizzato il corpo e la vita, privatizzeremo forse anche la fine della vita?
    Alcuni segnali indicano proprio questa strada: il controllo del concepimento sino alla inseminazione artificiale, la nascita è già “produzione” di bambini. Il progetto di mappatura del patrimonio genetico umano, esploso nel 2003, racchiude la volontà scientifica di lettura del patrimonio umano e di intervento su di esso. Per la prima volta, riprodursi, soffrire, invecchiare, morire, si sottraggono sempre più alla natura Anche il morire diventerà sempre più una scelta. La morte, sbarazzata dalla sofferenza poi dalla paura e fra un poco dalla coscienza, entrerà sempre più una scelta. Alcuni esempi: la clinica «del suicidio assistito» a Zurigo ha più di 3.000 iscritti nelle sue liste di attesa; la legge che in Olanda e in Belgio autorizza un malato cosciente a poter beneficiare di un’assistenza medica per morire dignitosamente, autorizza pure la commercializzazione un Belgio di un kit farmaceutico per suicidarsi.

    L’aggravarsi dell’angoscia per la perdita irrimediabile di sé

    Accostare con realismo il nostro corpo significa incontrare la nostra debolezza. Così si vivono anni e anni come se fossimo invulnerabili. E quando si prende coscienza della propria fragilità, si cercano le scorciatoie: analgesici e ansiolitici sono i farmaci più venduti in Occidente.
    In una società che esalta la perenne giovinezza (pare un paradosso) sono proprio i giovani che hanno più difficoltà ad adattarsi. In una società di mercato sono proprio loro che devono aspettare più a lungo, trovando più difficilmente un ruolo e un posto che i loro padri sono sempre meno disposti a cedere. Non è per caso che fra i giovani dei paesi europei lo sviluppo delle malattie psichiche e delle dipendenze sta assumendo delle proporzioni preoccupanti: come non è per caso che il tasso di suicidio dei giovani fra i 15 e i 24 anni (il 12% dei decessi a questa età) sia superiore a quello della popolazione globale.

    Concludendo

    Senza la morte non esiste la vita, non si può dare un senso (un significato e una direzione) alla propria esistenza. La morte ci indica che la vita quaggiù è comunque una cosa finita. Però è anche vero che la vita esiste perché c’è la morte. Chi sa che deve morire e fa i conti, ogni giorno, con la propria morte, cerca di vivere intensamente, prende in mano il proprio io.
    Oggi si vive più a lungo ma la morte, pur allontanata continua a sfidarci come nella famosa partita a scacchi del film di Bergman “Ultimo sigillo”. Così sintetizza il Cavaliere di quel film: «Allora la vita non è che un vuoto senza fine!». Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo in un nulla senza speranza». E la Morte risponde: «Molta gente non pensa né alla morte né alla vanità delle cose».
    La rimozione della morte produce ripercussioni negative tutt’altro che irrilevanti sulla propria vita di ogni giorno.
    Forse vivere non è accantonare tutto ciò che ci minaccia, ma passarci attraverso perché resti solo ciò che è vero. Non è emarginare chi soffre e chi muore, ma accogliere con rispetto la verità dell’altro che ci rivela chi siamo. Non è ribellarci al limiti, fingendo che non ci sia, ma imprimere a ciò che viviamo un senso che trascenda ogni limite.
    Il credente – e questa è la forza della fede – pur temendo la sofferenza e la morte, sa come affrontarla. Egli è certo che il suo “io”, purificato e trasformato, continuerà per sempre. Nella luce del mistero di Gesù morto e risorto, la morte umana non è l’ultima parola, ma solo “l’ultimo nemico” che è stato sconfitto, annientato per sempre (1Cor 15,26). Nessun uomo, cioè, è un essere-per-la-morte, ma un essere-per-la-vita. La sua chiamata alla vita è chiamata all’eternità, partecipazione alla vita stessa di Dio. Solo la fede fa percepire la morte non come fine di tutto, ma come una porta intermedia che si apre su una vita per sempre.


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