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    Nella profondità,

    la luce

    Il relativismo religioso, rischio per la fede

    Alessandro Andreini


    Aprire alla cultura moderna

    «I padri conciliari sapevano che aprire alla cultura moderna significava ecumenismo religioso e dialogo con i non credenti. Dopo di allora fu fatto molto poco in quella direzione. Io ho l'umiltà e l'ambizione di volerlo fare». Con queste brevi parole, inserite nell'intervista rilasciata di recente a Eugenio Scalfari, papa Francesco ha sintetizzato lo stato della questione circa uno dei temi forti della riflessione intorno all'esperienza religiosa dei nostri anni. Il punto è chiaro: la sfida del dialogo e del rispetto tra le varie religioni che abitano il nostro pianeta non può essere rimandata o liquidata con superficialità. Noi, anzi, siamo al cuore proprio della questione, e perfino a un crinale quasi inedito e paradossale. Se, infatti, l'esistenza di varie religioni nel mondo può aver rappresentato un motivo di dubbio a livello della fede, attualmente lo scandalo sembra piuttosto provocato dall'intolleranza che molti sistemi religiosi ancora esercitano nei confronti delle altre religioni e dalla grande difficoltà di elaborare una visione del mondo e della propria fede che sia finalmente inclusiva delle esperienze altrui e non esclusiva e violenta com'è accaduto per millenni e continua, purtroppo, ad accadere.
    Come accenna papa Francesco, in effetti, è stato il Concilio ad affrontare in modo finalmente deciso e puntuale tale sfida, collocandosi, fin dall'apertura del documento Nostra Aetate, specificamente dedicato alle «relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane», nel cuore della modernità e delle sue irrinunciabili esigenze: «Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l'interdipendenza tra ivari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane. Nel suo dovere di promuovere l'unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, essa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino. I vari popoli costituiscono infatti una sola comunità» (NA, n. 1). È noto come la breve dichiarazione conciliare – nata specificamente per l'esigenza di esprimere, all'indomani dello sterminio nazista, una parola nei confronti dell'ebraismo, cui di fatto è dedicata nella sua ampia seconda parte – sia stata il frutto maturo di un lungo cammino di rinnovata consapevolezza e di sempre più attenta presa in esame del fenomeno religioso nelle sue varie espressioni. Una conoscenza approfondita che ha fatto crescere, come solitamente accade, il rispetto e la stima per religioni prima note in modo forse troppo approssimativo. E che, soprattutto, ha messo in luce che la ricerca religiosa è una delle caratteristiche più originarie della condizione umana, un elemento che, prima di dividere, unisce e che, invece di rendere nemici, come la storia tristemente insegna, di fatto dovrebbe renderci autenticamente amici e compagni di strada: «Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell'uomo: la natura dell'uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l'origine e lo scopo del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l'ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo» (ivi).

    Il pericolo del relativismo

    In realtà, il Concilio non avrebbe mai potuto aprire una prospettiva di fatto nuovissima anche in ambito cattolico, e ancora da esplicitare in tutte le sue conseguenze di mentalità diffusa e di pratiche di vita, se non avesse compreso di dover prendere il via – sulla scorta del magistero di Giovanni XXIII – da una profonda accoglienza e dedizione nei confronti dell'uomo. Lo avrebbe ben sintetizzato papa Paolo VI nel suo memorabile discorso a conclusione dei lavori conciliari, evocando, come sintesi e grande metafora dell'atteggiamento spirituale del Concilio, la parabola del buon samaritano, il viandante che si piega sull'uomo assalito dai briganti e abbandonato sul ciglio della strada, assistendolo, medicandolo e prendendosi cura di lui. Una profonda cura dell'uomo, chiunque sia, a qualsiasi cultura o religione appartenga, l'uomo in quanto tale, con le sue luci e le sue ombre: «l'uomo tragico dei suoi propri drammi, l'uomo superuomo di ieri e di oggi e perciò sempre fragile e falso, egoista e feroce; poi l'uomo infelice di sé, che ride e che piange; l'uomo versatile pronto a recitare qualsiasi parte, e l'uomo rigido cultore della sola realtà scientifica, e l'uomo com'è, che pensa, che ama, che lavora, che sempre attende qualcosa [...]; l'uomo sacro per l'innocenza della sua infanzia, per il mistero della sua povertà, per la pietà del suo dolore; l'uomo individualista e l'uomo sociale; l'uomo "laudator temporís acti" e l'uomo sognatore dell'avvenire; l'uomo peccatore e l'uomo santo» (Paolo VI, Discorso per l'ultima Sessione del concilio Vaticano II, 7 dicembre 1965). Il riferimento alla parabola, per altro, non aiutava solo a comprendere l'attitudine della Chiesa nei confronti del mondo, ma anche, forse ín modo più velato, le ragioni di tale attitudine e di tale conversione: il buon samaritano, infatti, altri non è che Gesù stesso, e se la Chiesa ha finalmente ritrovato la sua vera identità di popolo a servizio degli altri popoli è perché torna sempre a lasciarsi ispirare proprio dal suo fondatore. È guardando a Cristo e alla sua dedizione per gli uomini che la Chiesa sente il dovere di mettersi a servizio dell'unità e della carità fra tutti i popoli. Come a dire che l'esigenza della comunione nasce non quando si mettono tra parentesi le proprie radici, ma proprio quando le si ascoltano e le si vivono in pienezza.
    Sta qui il gravissimo errore con il quale il relativismo contemporaneo sta contagiando le culture, almeno quelle occidentali: l'illusione che, rispetto alfenomeno religioso, così come per qualsiasi altro fenomeno, possa darsi un punto di vista oggettivo, si possa esprimere, cioè, un giudizio chiaro e definito sulle religioni. Le scienze antropologiche hanno ormai mostrato con chiarezza che l'uomo non può fare a meno delle proprie precomprensioni, non è in grado di pensare niente senza che il suo pensiero interagisca anche e prima di tutto con le proprie convinzioni di fondo, le proprie paure, fissazioni, esperienze: ed è solo se le assumiamo pienamente che possiamo percorrere un cammino di verità (cfr. J.-P. Hernández, Ciò che rende la fede difficile (AdP, Roma 2013, p. 34). Cosicché, il presupposto relativista, fatto passare spesso come tolleranza, non contribuisce affatto a una maggiore conoscenza e rispetto reciproci: esso non produce altro che un'indifferenza e una superficialità sempre più profonde e finisce per mettere "in sonno", appunto, quella ricerca delle risposte ultime della vita che è il vero motore di ogni attività umana. Ha davvero ragione il Concilio quando prende posizione contro ogni imposizione nel campo della ricerca della verità, che «va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale: e cioè con una ricerca condotta liberamente, con l'aiuto dell'insegnamento o dell'educazione, per mezzo dello scambio e del dialogo con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca, gli uni rivelano agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta». E, tuttavia, precisa immediatamente: «una volta conosciuta la verità, occorre aderirvi fermamente con assenso personale» (DH n. 3). Il relativismo religioso, insomma, è una vera e propria malattia mortale che getta un sospetto ingiustificato e colpevole verso ogni esperienza religiosa più profonda, interrompe il cammino della nostra ricerca di Dio e blocca la bellezza della scoperta.

    Verso la profondità

    In un certo senso, siamo qui al cuore delle contraddizioni della modernità. Un tempo storico inauguratosi all'insegna della liberazione della persona umana in tutte le sue potenzialità, e che ha fatto dell'emancipazione e dei diritti dell'uomo due delle sue parole chiave, sembra, in realtà, disseminare veri e propri tabù lungo le vie di accesso ad alcune delle dimensioni più profonde dell'esistenza umana. Vietato stringere legami troppo impegnativi e coinvolgenti con il prossimo, anche con la cosiddetta anima gemella. Vietato esporre il proprio dolore o la propria condizione di malattia. Vietato appassionarsi per la verità, o per la stessa possibilità che ci sia una verità. Vietato gettarsi anima e corpo in un'esperienza religiosa che potrebbe cambiare radicalmente il corso della mia vita. A parte il fatto che simili divieti producono spesso reazioni diametralmente opposte, com'è il fenomeno così diffuso del fanatismo religioso, in realtà, sono alcune delle figure più grandi del nostro tempo ad aver testimoniato che la via di un sempre più profondo coinvolgimento spirituale con la propria tradizione religiosa non separa o divide affatto e non fa di nessuno delle persone rigide e intransigenti. Si pensi al Mahatma Gandhi, a Charles de Foucauld, a Madre Teresa di Calcutta, la cui radicale esperienza spirituale li ha resi non pietre di scandalo o di rottura, ma piuttosto ponti di comunione e di singolare fraternità anche tra le religioni.
    La vera esperienza del divino unisce, non divide. E potrebbe essere anche questo, sulla scorta della famosa espressione di Gesù secondo la quale è dai frutti che si riconosce l'albero, uno dei segnali identificatori di un autentico e libero cammino spirituale. Se esso conduce verso la comunione sempre più ampia e piena con i fratelli, se ci conduce a scoprire – lo diciamo da una prospettiva cristiana, ma immaginando che qualcosa di simile possa essere detto anche da ogni altra identità religiosa – che lo Spirito creatore ha deposto i "semi della verità" in ogni popolo e in ogni tradizione umana e religiosa, e che è possibile contemplare lo splendore del Cristo, come Sapienza eterna del Padre, in ogni religione della famiglia umana (J.-P. Hernàndez, cit., p. 36). Per altro, è proprio in questa direzione che il concilio Vaticano II invita a muoversi nella conclusione della dichiarazione Nostra Aetate, riconoscendo che «non possiamo invocare Dio come Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati a immagine di Dio». E aggíunge: «viene dunque tolto il fondamento a ogni teoria o prassi che introduca tra uomo e uomo, tra popolo e popolo, discriminazioni in ciò che riguarda la dignità umana e i diritti che ne promanano [...]. E quindi il sacro Concilio, seguendo le tracce dei santi apostoli Pietro e Paolo, ardentemente scongiura i cristiani che, "mantenendo tra le genti una condotta impeccabile", se è possibile, per quanto da loro dipende, stiano in pace con tutti gli uomini, affinché siano realmente figli del Padre che è nei cieli» (NA n. 5).

    Il proprio cristiano

    Penetrando sempre più profondamente la propria esperienza di fede, il cristiano non può non scoprire che il Vangelo è ampiamente attraversato da verità e prospettive che appartengono anche a molte altre religioni. Una in particolare, la ricerca della pace che i cristiani condividono con tutte le visioni religiose del mondo, come il profetico incontro di Assisi promosso da papa Giovanni Paolo II il 27 ottobre 1986 si incaricò di dimostrare con grande efficacia. E, tuttavia, il cristiano non può non riconoscere che nel Vangelo è contenuto anche qualcosa di singolare e di specifico, e che la figura storica di Gesù di Nazaret, le sue parole, i suoi gesti, la sua morte in croce per amore dei suoi stessi carnefici ci stanno di fronte come qualcosa di insuperato e che continua a esercitare un fascino che va ben al di là dei confini del cristianesimo e non ha uguale nella storia di tutta l'umanità. C'è un proprio cristiano che, in verità, è al di là anche delle concretizzazioni storiche che del cristianesimo si sono succedute nel corso della storia, quasi un eschaton, un oltre, un'attesa e una provocazione che continuano a chiamare l'umanità verso una visione più profonda e piena di se stessa e di Dio. Il proprio cristiano, infatti, ha il suo fondamento nell'agire riconciliatore di Dio con tutta la creazione in Gesù Cristo, suo Figlio, ed è per questo che anche il dialogo con le altre religioni non è affatto il "fallimento" o, peggio, il "tradimento" di una missione che presumeva di dover convertire tutti. Al contrario, esso è «il contesto nel quale la testimonianza cristiana della rivelazione di Dio in Cristo e dell'agire salvifico di Dio in lui, diventa chiara ed esplicita» (J. Ilunga Muya, Il pluralismo religioso, in Aa.Vv., La primavera della Chiesa. A quarant'anni dal concilio Vaticano II, Ed. Paoline, Milano 2005, p. 82).
    È così che anche papa Francesco immagina il cristianesimo nella storia, per niente preoccupato, come sembra, del fatto che esso sia diventato – ma, in realtà, lo è sempre stato! – una minoranza. In un'altra delle illuminanti risposte date a Scalfari, infatti, ha affermato: «Personalmente penso che essere una minoranza sia addirittura una forza. Dobbiamo essere un lievito di vita e di amore e il lievito è una quantità infinitamente più piccola della massa di frutti, di fiori e di alberi che da quel lievito nascono. Mi pare d'aver già detto prima che il nostro obiettivo non è il proselitismo ma l'ascolto dei bisogni, dei desideri, delle delusioni, della disperazione, della speranza. Dobbiamo ridare speranza ai giovani, aiutare i vecchi, aprire verso il futuro, diffondere l'amore. Poveri tra i poveri. Dobbiamo includere gli esclusi e predicare la pace». Di fatto, la Chiesa di Cristo non ha altro compito che quello di annunciare e di testimoniare con gesti concreti e quotidiani l'amore di Dio per tutti gli uomini e la sua immensa cura nei confronti del creato. Un compito che chiede di essere totalmente disinteressato, realmente e profondamente sganciato da ogni attesa di risultati o di crescita numerica – preoccupazione che sembra essere singolarmente molto sentita, oggi, anche in tutte le altre grandi religioni del mondo, tanto da essersi innescata, giornalisticamente, una vera e propria rincorsa al primato mondiale quanto a numero di membri –, lascia da parte la questione delle appartenenze e mette al centro l'uomo nelle sue necessità e nelle sue povertà, nella sua disperazione e nelle sue malattie, nella sua ignoranza e nella sua solitudine.
    Se davvero c'è un primato nella rivelazione evangelica, allora è di questo che il mondo ha veramente e urgentemente bisogno: che i cristiani siano sempre più cristiani! È questa la via per una crescita sempre più piena della comunione tra tutte le donne e gli uomini del mondo, che Cristo, con le sue parole, i suoi gesti, íl suo amore incondizionato continui a essere presente nel cuore della storia e a chiamare tutti i popoli e tutte le religioni verso quell'oltre che è la pienezza dell'umanità creata a immagine e somiglianza di Dio. Di fatto, l'incarnazione, la morte e risurrezione di Cristo rimangono una provocazione per ogni religione. E da questa prospettiva che occorre leggere la centralità di Gesù di Nazaret: essa è l'invito straordinario e davvero divino ad andare al di là di tutte le religioni, anche del cristianesimo inteso come istituzione, verso il compimento.


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