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    Difficoltà della fede:

    la paura

    Bruno Meucci


    Il nemico peggiore

    La paura è il peggior nemico della fede: così dichiara Jean-Paul Hernàndez nel suo recente libretto Ciò che rende la fede difficile (AdP, Roma 2013). Si tratta di una riflessione di poche pagine in cui l'autore spiega, in modo efficace, le maggiori difficoltà che si incontrano nel cammino della fede.
    E davvero non poteva esserci un modo più autentico e sincero di parlare del tema della fede di quello di mettere in luce le difficoltà del credere, aggirando così ogni retorica che faccia della fede cristiana un cammino liscio e trionfale. Impossibile sorvolare sulle difficoltà che l'uomo di oggi e di ogni tempo sperimenta di fronte alla fede cristiana, una fede che richiede di lasciare tutte le proprie certezze per affidarsi a una Persona che non si vede, a un Mistero che trascende le nostre capacità di comprensione.
    Per quanto le parole che spesso ascoltiamo siano rassicuranti – Dio ti ama, Dio ti è vicino, Dio accompagna sempre il tuo cammino –, abbiamo paura di credere, di affidarci alla parola di un Altro, proprio per il timore di essere traditi. Del resto, è già difficile fidarsi di un essere umano che ci vuole bene, senza provare la paura di essere abbandonati; figuriamoci quanto è difficile poter credere in un Dio di cui giungono a noi soltanto testimonianze e parole indirette.
    Fin dai salmi dell'Antico Testamento, la tradizione spirituale del popolo dell'alleanza ripete che solo Dio non abbandona, solo Dio non delude e che è meglio confidare in Dio che negli uomini, per quanto siano forti e potenti. Gli uomini, infatti, deludono e tradiscono, Dio no. Dio è una roccia sicura, un baluardo di difesa, una città fortificata, un amico che non abbandona. Ma se tutto questo è vero, lo si sperimenta soltanto dopo aver fatto la scelta della fede, non prima. E anche quando si cammina nella fede, non sempre avvertiamo la sicurezza della roccia sotto i nostri passi, non sempre ci sentiamo protetti da un baluardo di difesa, non sempre siamo sicuri che Dio sia un amico e non ci possa abbandonare. La fede comporta sempre un margine di insicurezza e di rischio.
    Eppure, se non crediamo, moriamo. Se il nostro cuore non si apre mai alla fiducia, allora rimaniamo prigionieri del sospetto e della paura. Se non abbiamo il coraggio di rischiare, evitiamo il possibile negativo, ma ci priviamo anche del positivo. Avere 'fiducia è una legge fondamentale della vita. Lo ricorda lo stesso Jean-Paul Hernndez: «Ciò che un bambino che impara a camminare deve vincere quando si lancia a fare un passo è la paura. Paura di cadere e di farsi male. Nel fondo: paura di morire» (p. 20). Se il bambino non nutrisse una fiducia spontanea e del tutto naturale nella vita, non azzarderebbe mai a fare il primo passo. E invece vuole vivere, camminare. L'istinto della vita è più forte della paura. Così, per il bambino che impara a camminare è facile vincere la paura, ma la lotta tra il desiderio e la paura lo accompagnerà per tutta la vita. Da un lato, la voglia di sperimentare, di crescere, di amare. Dall'altro, la paura di sbagliare, di fallire e di soffrire. Desiderio e paura sono emozioni necessarie per regolare i nostri rapporti con l'ambiente circostante. Il desiderio spinge a esplorare il mondo, la paura mette in guardia nei confronti dei pericoli. Tuttavia, quando la paura sovrasta il desiderio, allora la vita si blocca. Evitando il pericolo si finisce per morire prima del tempo, soffocati dall'angoscia e dalle preoccupazioni.

    L'illusione della sicurezza

    E' sempre istruttivo, a questo proposito, tornare a leggere il celebre racconto di Franz Kafka La tana (1924) che comincia proprio con queste rassicuranti parole: «Ho assestato la tana e pare riuscita bene». Il protagonista è un animale non meglio specificato, probabilmente una talpa o un roditore, che ha trascorso la vita a scavare un rifugio labirintico sotto terra allo scopo dí mettere al sicuro la propria vita e adesso, contento del lavoro che ha fatto, si sofferma compiaciuto a contemplare l'ottimo risultato. Il monologo dello strano animale comincia con l'elogio del rifugio – di cui esalta la struttura perfetta, i cunicoli per la fuga, le stanze per le provviste, la sensazione di pace e di silenzio che trasmette –, ma cambia gradualmente di tono quando passa a descrivere oggettivamente i suoi trascurabili difetti, i punti non ancora terminati, i rumori che si sentono a distanza, concentrandosi proprio su questi ultimi. La sensazione di trionfo che provava all'inizio svanisce quasi subito: comincia a immaginare pericoli di ogni tipo a cui non aveva pensato e per i quali non si sente preparato. Così, dapprincipio l'operoso animale afferma: «No, no, tutto sommato non devo proprio lamentarmi di essere solo e di non aver nessuno di cui fidarmi. Così certamente non perdo alcun vantaggio e forse mi risparmio qualche danno. Fiducia posso avere soltanto in me e nella tana» (F. Kafka, La tana, in La metamorfosi e altri racconti, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998, p. 200). Ma è già assalito dal dubbio che tutte le misure che ha preso per garantirsi la sicurezza non siano sufficienti, dubbio che è destinato a crescere sotto l'azione della sua fervida immaginazione. Il racconto dimostra come a spingere l'animale a costruire la sua tana sia stata la paura dei possibili pericoli del mondo esterno, eppure la sua ansia non si placa neppure dopo aver impiegato tutte le energie per costruire intorno a sé un rifugio sicuro, a prova di minaccia.
    Questo breve racconto è stato letto come una descrizione metaforica dell'ultima fase della vita dello scrittore, prossimo a lasciare questa vita a causa della tubercolosi. Nel 1923 Kafka si era fidanzato con una giovane ragazza ebrea, Dora Diamant, e aveva preso finalmente il coraggio di staccarsi dalla famiglia per andare a vivere con lei a Berlino, pur non essendo ancora sposati. La società borghese degli anni Venti del Novecento, a cui la famiglia di Kafka apparteneva, non approvava questa scelta. Lo scrittore ne era consapevole, ma era anche deciso a portare fino in fondo la sua scelta, anche a costo di scontrarsi con la disapprovazione sociale e familiare. Del resto, la speranza di Kafka era che la disapprovazione della famiglia si sarebbe convertita presto in approvazione, non appena il fidanzamento con Dora si fosse trasformato in un matrimonio vero e proprio, obiettivo che Kafka non era mai riuscito a raggiungere in tutta la sua vita. La tana sarebbe così l'immagine della nuova dimensione dello scrittore, finalmente approdato al matrimonio, simbolo di quella sicurezza degli adulti che Kafka aveva sempre invidiato perché possiedono una vita solida e indipendente; allo stesso tempo, però, i pericoli che l'animale avverte nella tana starebbero a rappresentare i segnali di minaccia che la malattia continua, nonostante tutto, a inviare allo scrittore, segnali che rendono assai fragile la sicurezza appena conquistata.
    Oltre a questi riferimenti autobiografici, è possibile leggere il racconto su un altro piano. Nella parabola dell'animale che scava la sua tana si può ravvisare la rappresentazione dell'impulso dominante della società borghese dei primi del Novecento a lavorare per costruire un ambiente sicuro e protettivo, allo scopo di garantirsi un'esistenza tranquilla, al riparo da qualsiasi minaccia. Impulso utopistico, come dimostra l'animale di Kafka, perché la vita non potrà mai essere posta al sicuro da tutti i pericoli.
    Dal tempo di Kafka non è cambiato poi molto nella ricerca spasmodica di agi e sicurezze che la società post-borghese mette a disposizione di tutti. Paradossale resta il fatto che, come Kafka aveva ben intuito, la pretesa irragionevole di sicurezze non fa altro che aumentare l'ansia di fronte agli imprevisti e alle situazioni nuove, non controllabili. Chi ha paura – diceva già Sofocle – non fa che sentire rumori. Non sorprende quindi che la tana rassicurante si trasformi per l'animale nel peggiore degli incubi. Le misure che prendiamo per allontanare dalla vita íl confronto con gli imprevisti, con la sofferenza e con la morte non sono sufficienti per tenere il male lontano dalla nostra casa. Al contrario, a forza di innalzare barriere di protezione che alla fine non ci proteggono, la nostra è divenuta una società dell'ansia e della paura, o meglio delle paure (al plurale), visto che il sentimento della paura si manifesta ormai in tutte le forme e le patologie possibili.

    Il più pauroso dei viventi

    «Proprio per la sua autoconsapevolezza, l'uomo è probabilmente il più pauroso fra tutti i viventi». faceva notare quindici anni fa lo psichiatra Vittorino Andreoli in un libro-intervista che recava un titolo già di per sé significativo, E vivremo per sempre liberi dall'ansia (Rizzoli, Milano 1997, p. 14). Proprio per questo, continuava lo psichiatra, le società primitive celebravano riti per dominare la paura, prima di affrontare il pericolo. Nelle società moderne, invece, questi rituali sono scomparsi nell'illusione che la paura si possa dominare con la razionalità scientifica, con la capacità di prevedere i rischi, con l'efficienza tecnologica che mette la natura sotto il dominio dell'uomo. Così, la civiltà attuale continua a illudere i cittadini occidentali che i pericoli siano sotto il controllo dell'amministrazione pubblica, della rete antiterrorismo, del ministero della sanità e della Banca centrale europea: insomma, la nostra vita è messa sotto tutela da istituzioni nazionali e sovranazionali che agiscono come madri protettive tenendoci lontani da qualsiasi pericolo, per lasciarci la serenità di pensare a noi stessi e ai nostri progetti di felicità. La conseguenza di tutto ciò è che la paura ritorna sotto forma di angoscia nei confronti di un mondo così complicato da spaventare chiunque, per affrontare il quale non sono stati approntati rituali terapeutici alternativi.
    D'altra parte, il bisogno ossessivo di sicurezza non crea soltanto una società dell'ansia e della paura, ma anche una società in cui prevale l'incapacità di credere in qualcosa o in qualcuno. A forza di voler mettere la nostra esistenza al sicuro da qualsiasi rischio, non ci fidiamo più di niente e di nessuno. Credere in qualcosa o in qualcuno è sempre rischioso e potrebbe rivelarsi un errore. Ma se non siamo disposti a credere in qualcuno, come è possibile essere disposti a credere in Dio? La crisi di fiducia non coinvolge oggi solo le istituzioni e i partiti politici, ma anche le persone, il futuro e perfino se stessi. Tuttavia, senza fiducia non si dà neppure possibilità di vivere: la fiducia è un sentimento necessario perché un essere umano si apra agli altri, al mondo, alla vita. Senza educazione alla fiducia vengono a mancare anche i presupposti per aprirsi alla fede.

    La fede chiede fiducia

    La fede, infatti, non chiede altro che capacità di fidarsi di un Altro che ci conosce più di quanto noí conosciamo noi stessi e che quindi provvederà a noi più e meglio di quanto potremmo fare da soli. Non è facile compiere questo passo e molti si arrestano sulla soglia. Di fronte alla scelta finale, sono colti dalla paura di dover rinunciare al controllo totale sulla propria esistenza. Non bastano tutti i segni che Dio ha dato, si vorrebbe la certezza assoluta che mette al riparo da ogni rischio. Non basta neppure che Gesù abbia consegnato la sua vita perché crediamo nell'amore di Dio per noi. In realtà, Gesù stesso aveva insegnato questo ai suoi discepoli: «se non diventerete come questi bambini, non entrerete nel regno dei cieli». I bambini hanno fiducia negli adulti, non perché conoscono tutto di loro, ma perché tendono a credere nei gesti di amore e di attenzione e credono a questi gesti di amore e di attenzione perché essenzialmente i bambini vivono nella relazione. Sono gli adulti invece che diffidano anche dei gesti di amore, che non sono mai sicuri fino in fondo, che dubitano e temono e che si fidano solo di se stessi. È chiaro che da adulti si è conosciuto il lato oscuro della vita, si sono ricevuti schiaffi e percosse dagli esseri umani, sí è imparato che la legge della natura e della società è quella di combattere tutti contro tutti e si è meno disposti a credere alla bontà del prossimo di quando eravamo bambini. Tuttavia, Gesù ci esorta a conquistare di nuovo quella fiducia che avevamo da piccoli, non certamente nella forma ingenua e spontanea che appartiene solo all'infanzia, ma nella maniera adulta, consapevole, che si sviluppa nell'individuo maturo. Per fare questo bisogna di nuovo vincere la paura dell'adulto, la paura di aprirsi a una relazione sincera e totale con un Altro. Affidarsi a Dio è una scommessa, come aveva ben capito Pascal, un rischio, ma è comunque una scommessa calcolata. Significa perdere dal lato delle sicurezze umane, della propria autosufficienza, ma anche guadagnare dall'altro lato, quello della relazione con un Tu che può salvare la vita da tutte le sue miserie.
    Del resto, la paura che impedisce di credere è la stessa che ci trattiene dal compiere qualsiasi scelta. Ogni scelta, infatti, comporta una perdita, se non altro perché impedisce che si facciano scelte contrarie. Quando si sceglie qualcosa si rinuncia sempre allo stesso tempo a qualcos'altro. Scegliere pertanto è un atto che pone l'uomo di fronte ai propri confini, è un morire a se stessi, al proprio desiderio di onnipotenza, per scoprirsi creature finite e limitate. Nonostante ciò, scegliere è anche un ritrovare se stessi come creatura definita, caratterizzata dalle scelte che si sono fatte. Evitando la scelta si resta nell'indefinito e non si acquista una personalità precisa, con il rischio, tra l'altro, che siano gli altri a scegliere per noi. Nella scelta della fede è richiesto lo stesso rischio che ogni scelta comporta: non è possibile affidarsi a un Altro senza rinunciare al controllo assoluto sulla propria vita. Scegliere la fede significa, in ultima analisi, accettare che d'ora in avanti la propria volontà, che pure continuerà a sussistere, si scontri con la volontà di un Altro, in una dialettica che non avrà mai fine. La fede ci farà fare passi in avanti sempre ulteriori, sempre più in là di quanto avevamo immaginato, spingendoci costantemente a lasciare la terra solida in cui sfamo posti, per condurci verso un luogo promesso, simile a quello di Abramo, «padre nella fede» di tutti i credenti. Per fare questo occorrerà sempre di nuovo vincere la paura e rischiare il passo in avanti che ci permette di camminare, fidandoci di Dio.
    Proprio perché conosce il sentimento umano della paura che ci impedisce di affidarci a un mistero più grande di noi, Gesù si rivolge ai suoi discepoli con le parole: «Non abbiate paura!». L'ultima grande paura che Gesù chiamerà a vincere sarà quella della morte. D'altra parte, una persona che non è capace di credere e di affidarsi a un altro, non sarà neppure capace di ispirare fiducia e di spingere altre persone ad affidarsi a lui. Anche la fiducia è contagiosa e si trasmette per vasi comunicanti: chi crede può spingere altri a credere, ma chi non crede a niente è come il seme della parabola del Vangelo di Giovanni che muore solo, senza portare frutto. 


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