Pastorale Giovanile

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    (NPG 2002-04-48)

     

    E-MAIL DI COPPIA
    Gioia Quattrini – Salvatore Magri

    da Gioia a Salvatore
    Certo, penserai che la domanda avrei dovuto porla prima a me stessa ed anche a te. In realtà non ne avevo mai sentito il bisogno, come se la questione fosse una questione annosa, di vecchia data, che non c’era necessità di riproporre. Come se la risposta l’avessi già data e sentita mille volte, altrimenti neanche il resto, quello già costruito, avrebbe avuto senso.
    Ora mi domando: perché ci stiamo per sposare? Sarò più chiara. Se non ci stiamo sposando perché prima o poi si deve fare, perché altrimenti a mamma chi glielo dice, perché ho sempre sognato il vestito da barbie, perché tuo fratello sono anni che aspetta di essere il testimone, perché tanto non c’è niente di meglio da fare, perché tanto provare non costa niente, perché tutti se lo aspettano da noi, perché altrimenti saremmo esposti allo sprezzo sociale, perché Lucia si esercita da tempo all’organo per la marcia nuziale, perché i confetti al cioccolato, le bomboniere d’argento, il viaggio di nozze esotico, la cena di gala, il servizio fotografico e il filmino, la lista rossa, la limousine in affitto, la torta con le colombe e il brindisi «bacio bacio»… Se non ci sposiamo per tutto questo, allora perché?…

    da Salvatore a Gioia
    «Perché se non ci sposiamo noi allora non si sposa più nessuno». Lo dice Massimo ed ha ragione, anche se non lo sa. Lui parte proprio dalle cose che hai appena elencato; la gente, chi ci conosce, ci vede già sposati. Ma non si tratta di questo: non è che uno si sposa per far piacere a qualcuno. Ci sposiamo perché abbiamo scelto insieme un campo sul quale confrontarci; su questo campo, abbiamo aperto un cantiere; abbiamo scavato per abbastanza tempo e piantato solide fondamenta; il progetto è approvato: pilastri portanti e percorsi per piantarli; uno di questi è il matrimonio; non per gli altri ma per noi: bisogna certificare l’avanzamento dei lavori…
    Se ognuno di noi aprisse un suo piccolo cantiere personale e decidesse di restaurare quel suo pezzetto di mondo di certo ne uscirebbe un universo finalmente vivibile e a dimensione umana. Un universo davvero dell’uomo.
    Ecco, io questo cammino così difficile vorrei farlo con te, se sei d’accordo.

    da Gioia a Salvatore
    Qualcuno potrebbe ribattere che tutto questo è possibile anche senza sposarci, ma semplicemente restando insieme.
    Allora la nostra cos’è: vocazione al matrimonio?

    da Salvatore a Gioia
    Penso proprio di sì. Una voce, ecco, che, da dentro, chiede la soddisfazione di un bisogno profondo: io che da solo sarei una parte voglio raggiungere la totalità, la completezza. Come se io stessi dormendo e dormendo sognassi una cosa straordinaria, e soltanto risvegliandomi in te la potessi davvero realizzare. È la certezza di sapere ciò che desidero costruire e con chi.
    È rispondere senza paura, assumendosi le proprie responsabilità davanti agli uomini e a Dio, ma soprattutto davanti a te. Non avere paura di seguire l’amore e soprattutto non avere paura di mettere la propria vita e le proprie speranze nelle mani di qualcun altro.
    La nostra famiglia sarà la scuola dove impareremo a sentirci in comunione con gli altri e a vivere accettando ed amando il diverso.

    da Gioia a Salvatore
    Già il diverso. A pensarci, che fatica! Cosa poteva entrarci una logorroica e imbranata, che mette sempre il punto e non lascia cadere mai nulla, con un uomo di poche, pochissime parole, efficiente e disinvolto, che mette sempre il punto e non lascia cadere mai nulla?
    C’entra perché il nostro matrimonio non sarà l’omologazione piatta delle diversità ma l’armonizzazione delle differenze, perché io possa accoglierti nella mia vita e donarti quanto di buono essa possegga. Amarti sarà amare quanto sei diverso da me e cercare di non cadere nella tentazione di chiederti quello che tu non sei disposto a darmi spontaneamente. Soltanto l’amore muta la sostanza delle cose. Nessuna costrizione né obbligo. Soltanto l’amore. Ti amerò quando sbaglierai e quando mi avrai deluso. Ti amerò quando sarai assente e mi farai attendere invano, e quando il tuo silenzio mi ferirà. Il nostro matrimonio sarà una scuola d’amore nella quale impareremo ad amare anche gli altri.
    In questo straordinario cantiere dove il nostro futuro dovrebbe assumere i connotati che noi cerchiamo di dargli, non avrei messo un mattone sopra l’altro senza avere avuto prima la tua opinione, che poi fingo sempre di non ascoltare, ma che rende giusto e misurato quello che sembrava confuso e un po’ goffo.
    Due mondi tanto diversi, noi, che finiscono per incontrarsi in un punto dell’universo dove intendono costruire una famiglia, un cantiere nel cantiere, perché la vita è un dono straordinario e ai nostri figli regaleremo questa bellezza.
    Spero davvero che saremo capaci di fuggire le insidie dell’abitudine e della quotidianità, la stanchezza dei pensieri e i fastidi che si dilatano e i silenzi che diventano sempre più chiassosi? Quelle coppie per la strada, con lo sguardo stanco, il passo lento e la luce spenta.

    da Salvatore a Gioia
    Io penso che senza l’incontro delle diversità, senza di esse, la vita diventi sterile e vuota, solo di un colore, limitata in una forma, nell’aria sempre la stessa nota. Avere due punti di vista, due opinioni, due modi di affrontare le cose ci dà forza e sicurezza, ci dà due possibilità piuttosto che una, due teste per ogni problema. In fondo credo che questa sia una componente fondamentale dell’amore: il tenere conto dell’altro perché conta; diversamente è infatuazione, ebbrezza che nasconde l’egoismo pronto a spuntare non appena i sensi si allentano, è assenza di senso critico, e non ti aiuta a crescere. Probabilmente le cose diventeranno più difficili quando toccherà ascoltare altre opinioni e confrontarsi con altre attitudini rispetto alle nostre, quelle dei nostri figli.
    Allora dovremo rimetterci in discussione e ricominciare, ricercare nuovi equilibri.

    da Gioia a Salvatore
    È il destino straordinario di chi costruisce qualcosa insieme, e ogni volta che aggiunge un nuovo pezzo è necessario che calibri per bene le misure e i pesi.
    Quando i nostri figli arriveranno, come segno indiscutibile dello straordinario amore che portiamo alla vita, non dovremo mai dimenticare che prima di ascoltare essi ci guardano. Dovremo certo riempire di senso le nostre parole, ma saranno i fatti a gridare più forte, ad attirare la loro attenzione.

    da Salvatore a Gioia
    Allora cercheremo di mostrargli quanto sia difficile e al tempo stesso meraviglioso condividere ogni passo della propria esistenza con una persona da amare e rispettare, nei cui occhi specchiarsi per vedere bella o brutta la verità.
    Camminare accanto con uguale dignità, senza che l’ombra dell’uno nasconda il volto dell’altro, senza che l’altro si faccia insidiare dall’idea di cambiare l’uno.
    Soprattutto mi piace pensare che il nostro matrimonio più che stringerci in un vincolo, ci regali un paio di ali, un passo più leggero e un respiro più forte, un turbine. Non sarà un pretesto per isolarci, ma un motivo per aprirci agli altri, per accoglierli nella nostra famiglia con amore. L’amore infatti genera amore, non ho dubbi. Ecco, da quando ti amo mi sembra di poter contenere nel cuore il mondo intero e le sue brutture mi sembrano sanabili, mi sembra che si possano curare, che ci si possa riuscire.

    da Gioia a Salvatore
    A leggere queste parole mi succede di arrossire un po’. In effetti chissà perché un malinteso senso del pudore ci impedisce di far cantare liberamente quello che sentiamo dentro.
    Le brutte parole escono facilmente e feriscono in un momento, ma le belle parole invece si schermiscono e vengono rimandate ad altri tempi, sussurrate così a mezza bocca, distrattamente gettate sul tavolo.
    Forse il coraggio d’amare è anche questo. Forse si comincia da qui.
    Pensavo, Salvatore, che ti amo.
    Sarà bellissimo.

    da Salvatore a Gioia
    Sì, sarà bellissimo.


    * * * * *


    ESSERE PADRE, ESSERE MADRE
    Eugenia Avidano – Pietro Di Giammarino

    È difficile spiegare come si prendono le grandi decisioni, come si fanno le grandi scelte della vita. Probabilmente, anche se apparentemente istintive, rispondono ad un proprio quadro di valori e di significati, a ciò che si crede essere potenzialmente un proprio personale progetto di vita; ma spiegare tutto ciò potrebbe risultare prosaico. Per questo motivo preferiamo raccontare direttamente con le nostre risposte di vita ciò che per noi è essere coppia, famiglia, genitori in attesa.

    Eugenia
    Quando Pietro mi chiese per telefono se volevo sposarlo pensai che era completamente matto. Mi aveva lasciato un anno e mezzo prima dicendosi in dubbio di amarmi e ora, alle 4 di mattina (ci separavano 6 ore di fuso orario) mi proponeva di raggiungerlo in Cile, all’altro capo del mondo per legare la mia vita alla sua. Decisi di partire per Santiago del Cile non sapendo se avrei detto di sì alla sua proposta, ma certa di doverlo rivedere. E poi gli dissi di sì. Alcune risposte non sono solo frutto di logica razionale, ma si sentono e non solo per amore.
    Penso che Dio semina sulla nostra strada tante proposte e noi possiamo ignorarle o accoglierle e farle germogliare. Io sentivo con una certezza interiore inspiegabile razionalmente che una di queste era Pietro.

    Pietro
    Dopo aver realizzato il mio agognato sogno di tornare al mio paese nativo, alla ricerca di ciò che mi mancava, mi sono reso conto che il viaggio era stato un fallimento. La parte di me che mi mancava si trovava dall’altra parte dell’oceano e si chiamava Eugenia. Ho preso il telefono e senza tanto riflettere sull’assurdità della richiesta le ho proposto di venire a trovarmi in Cile. Per me la sua venuta è stata un atto di fede, fede nella capacità degli esseri umani di cambiare, di maturare e di modificare punti di vista e sentimenti.
    Atto di fede è stato poi il mio nell’accettare che lei non volesse cominciare una vita nuova in un paese nuovo, ma in Italia. Non avevo un lavoro e l’Italia attraversava un brutto momento, ma ho trovato il coraggio dell’incoscienza e soprattutto del nostro amore. Le cose si sono risolte per il meglio e dopo alcuni duri mesi cominciammo una vita normale a Roma.

    Eugenia
    Il messaggio che avevamo scelto per il biglietto di nozze era per noi significativo, anche se probabilmente poco capito dalle persone. Preso da una poesia di Neruda «Quiero hacer contigo lo que la primavera hace con los cerezos» (voglio fare di te ciò che la primavera fa ai ciliegi). Per me questo significava essere l’un per l’altro stimolo di crescita, aiutare l’altro a fiorire, a realizzare al meglio le proprie potenzialità, il proprio piano di vita.
    I primi tempi con Pietro non furono facili. Ciascuno era abituato alla propria autonomia ed era terrorizzato dalla possibilità di perderla, di perdere i propri spazi di vita, di perdere un po’ di se stesso legandosi all’altro, ma se avevamo scelto di unirci in matrimonio era perché volevamo costruire un progetto di vita insieme, di coppia e di famiglia. Se l’obiettivo è crescere insieme, ogni sforzo doveva andare nella direzione di trovare il modo di costruire un legame e non di distruggerlo, di superare le difficoltà andando alla radice dei problemi e superarli nella felicità di entrambi.
    So che la vita con Pietro mi ha cambiato e penso in meglio; meno preoccupata di arroccarmi in me stessa e di proteggere le mie zone buie, ho imparato tanto da lui, dal suo modo di essere diverso dal mio, più aperto, giocoso, socievole verso gli altri, dal suo spronarmi ad uscire dal guscio delle mie insicurezze, dal suo sostenermi in ciò che vedeva in me di buono e che io non vedevo.
    Mantenere fede ai propri valori di fondo, ma lasciarsi cambiare dall’altro che arriva a conoscere così bene i nostri punti deboli, se ci si permette il rischio di mostrarli, è un grosso stimolo a crescere.
    Man mano che il nostro rapporto si fortificava, sentivo progressivamente crescere lo spazio affettivo per allargare la famiglia, allargare il nostro amore. Era come se sentissi che se il nostro amore fosse rimasto chiuso tra di noi, sarebbe diventato in qualche modo sterile, vuoto, come una pianta che rinsecchisce invece che dare frutto.
    Purtroppo però il desiderio di figli cresceva, ma questi non arrivavano. Sapevamo già prima di sposarci che ci sarebbero potuti essere dei problemi e quindi, dopo un certo periodo di attesa senza risultati, decidemmo di iniziare a farci seguire da specialisti nella speranza di poterli superare.
    Ciò che per gli altri sembrava un evento alquanto naturale, per me prendeva sempre più la forma di un miracolo. E quanta rabbia sentire, seppur comprendendolo, che alcuni si permettevano pure «il lusso» di aspettare, o di rinunciare perché non era il momento giusto!
    È difficile capire il senso di come possano nascere tanti bambini non voluti, mentre una coppia dove c’è amore anche per un terzo possa rimanere sterile.
    Nonostante desiderassi profondamente avere un figlio da mio marito, un figlio che avesse qualcosa di lui e che fosse anche la continuazione della mia famiglia, che avesse qualcosa delle persone che avevo amato e perso, nonostante desiderassi sentirlo nel mio grembo, compiere i primi movimenti e poter provare quella forma di profonda intimità che viene dall’allattamento, e nonostante quindi continuassi l’iter intrapreso per la fecondazione assistita, da me voluto inizialmente, non riuscivo ad evitare di sentirmi sempre più a disagio, confusa, contrariata. Iniziavo a chiedermi se quello che stavamo facendo fosse giusto. Lo facevamo per amore, è vero, ma era il modo giusto di amare? Non stavamo oltrepassando dei confini inviolabili? I confini della vita.
    Ci stavamo accanendo contro un limite, un nostro limite di coppia che in quel momento era presente. Ci stavamo sostituendo a Dio nel cercare di generare là dove c’era un limite? Ho sempre pensato che migliorare se stessi, non lasciandosi bloccare dai propri limiti caratteriali fosse un nostro compito importante, ma questa era una cosa diversa, significava avere la presunzione di oltrepassare i limiti della sacralità della vita. Perché la vita, tanto più la vita di un figlio, non è solo l’unione di cellule, un corpo che cresce e si muove, ma è anche e soprattutto spirito, anima.
    Quando Pietro mi disse di non riuscire a capirmi totalmente, ma di accettare la mia posizione perché vedeva quanto soffrivo, e sentii che lo disse senza falsità, senza vittimismo, fu per me una grande liberazione e un grande atto d’amore da parte sua nei miei confronti.

    Pietro
    I nostri primi tempi furono spesi a ricostruire la nostra vita insieme, a rigenerare la fiducia l’uno nell’altro e dopo un po’ di anni tutti e due ci sentivamo pronti per allargare la famiglia. Io avevo subito degli interventi chirurgici che avevano comportato una temporanea sterilità. Tanto temporanea però non era, perché dopo cinque anni di attesa, ancora non provavamo la gioia di essere genitori. Eugenia propose di cominciare a fare gli esami per la fecondazione assistita. Abbiamo fatto di tutto per arrivare al punto in cui l’intervento doveva essere fatto. Più di undici mesi e finalmente l’appuntamento per l’atteso evento. Eugenia pochi giorni prima mi cominciò a fare strani discorsi. In definitiva mi disse che si era pentita e che non se la sentiva. Mi spiegò i suoi perché, ma io non li capii, non capivo perché se i motivi di rifiuto erano di indole religiosa non fossero emersi prima, non capivo, non capivo un sacco di cose, ma vedevo che soffriva e che qualcosa la tormentava, qualcosa di grosso. La presi da parte e le feci capire che andava tutto bene, non avremmo fatto niente. Sentii però che lei con la sua decisione mi stava negando la possibilità di essere padre. Passammo momenti di chiarimento e di lunghe conversazioni. Non ho capito e forse neanche condiviso i principali motivi di Eugenia, ma ho capito che un bambino ha bisogno di due genitori e che lei non sentiva di star facendo la cosa giusta. Sentii che la cosa giusta era seguire lei (ora guardo il pancione di mia moglie e sono contento di averla rispettata e contento del regalo di una gravidanza naturale: un concepimento sulle coste della California dove viviamo ora).
    Decidemmo quindi di rinunciare alla fecondazione assistita e di portare avanti il processo di adozione che avevamo già parallelamente iniziato.
    Da sempre mia moglie mi aveva espresso il desiderio di adottare un bambino, anche se fossimo stati in grado di generarne uno proprio. Io suggerivo di cominciare con quello proprio, ma non veniva. Dopo la rinuncia alla fecondazione assistita l’alternativa dell’adozione si faceva sempre più pressante. Mi sono reso conto che il momento di un chiarimento vero con mia moglie su questo punto era solo stato rinviato, perché non ero un entusiasta di questa alternativa. Volevo un bambino che assomigliasse al nonno o alla nonna, che prendesse parte della sapienza contenuta in secoli di sviluppo dei geni umani, volevo sentirlo mio. Pensavo sarebbe stato difficile con l’adozione.
    Un’estate australe (inverno italiano) in cui siamo andati a trovare la mia famiglia in Cile, siamo stati a visitare la colonia estiva per bambini orfani gestita da Padre Alceste a Pichidangue.
    Avevo detto a Eugenia: «Se adottiamo il bambino, deve assomigliarci il più possibile e deve essere molto piccolo».
    Arrivammo con delle caramelle e subito un bambino di razza mapuche di approssimativamente 4 anni mi balzò tra le braccia e io sentii che potevo amare quel bambino come se fosse stato mio.
    La realtà a volte si incarica di seppellire in un attimo castelli di pensieri, credenze basate sulla speculazione intellettuale di cosa sia meglio. Quel bambino fece un salto nel buio, un salto di più di un metro per essere abbracciato da me.
    Se io non lo avessi abbracciato si sarebbe fatto male cadendo a terra. Quel bambino in un salto aveva riposto in me tutta la sua fiducia. Prima del salto eravamo estranei, dopo eravamo già legati. Lui non era bianco, non era piccolo e non era geneticamente mio.
    È stata un’esperienza forte. Rinforzata dalla frase di padre Alceste che ancora ricordo: «I figli non sono vostri, sono figli dell’amore».
    Questa esperienza mi cambiò l’idea sull’adozione e cominciammo decisamente ad accelerare le pratiche legali per avere un bambino adottato.

    Eugenia
    Anche se avevo sempre pensato alla possibilità di adottare, ora significava passare attraverso il lutto di poter generare un figlio geneticamente nostro e di imparare un nuovo modo di essere genitori di un figlio di cui non si conoscono le radici, con cui non ci sono stati nove mesi per costruire un legame prima di poterlo abbracciare, con cui non si sono condivisi i primi anni di vita. Essere genitori forse in modo meno possessivo e più gratuito.
    All’inizio del 2001 per Pietro si presentò una buona opportunità di lavoro in California. Io non ero contenta di lasciare Roma, soprattutto perché avrei dovuto rinunciare al mio lavoro che amavo e che avevo costruito con tanta fatica, ma queste occasioni non si presentano spesso nella vita; sapevo che Pietro ci teneva e mi aveva tanto sostenuto agli inizi della mia carriera professionale che sentivo che ora era il mio turno di sostenere lui. Inoltre stavo imparando ad evitare di cercare di gestire tutti gli eventi, perché ci sono situazioni che non sempre si capiscono al momento, ma che cercare di controllare è una lotta inutile, ed è meglio accettare e trovare in esse spunto di crescita.

    Pietro
    Ora aspettiamo Francesca, nostra figlia. Penso che avrò la possibilità di insegnarle ciò che ho imparato nella vita e che avrò l’opportunità di imparare da lei.
    Mia moglie è rimata incinta il 24 giugno. Lo so bene perché è il giorno in cui è arrivata a San Diego in California dove ora lavoro. Siamo stati tre mesi senza vederci e questo ha messo a dura prova la nostra capacità di stare senza l’altro (molto scarsa la mia). Quel giorno Francesca cominciò ad inondare la pancia di Eugenia, ma noi non lo sapevamo, lo abbiamo saputo ad agosto, e a settembre Eugenia era già tornata in Italia. Altri tre mesi ci separavano. Finalmente a dicembre ho rivisto mia moglie e la sua pancia era evidente. Mi ha fatto una grande impressione perché non l’avevo vista crescere poco per volta, ma mi si presentava così tutta d’un colpo. È come se mi fossi reso conto della mia paternità solo allora. I mesi successivi sono stati un susseguirsi di preparativi per accogliere Francesca e mi rendo conto di quanto la voglio e di quanto l’aspetto. Certo mi fa paura non avere le risposte alle sue domande, capire che si possa sentire smarrita di vedere il babbo confuso, insicuro e non so come dovrò fare. Poi penso a mia madre che di figli ne fece quattro in un periodo in cui a volte non c’era neanche da mangiare e mi tranquillizzo, e penso che tutto andrà bene.

    Eugenia
    Quando ho scoperto di aspettare un figlio mi è sembrato di vivere un evento miracoloso. Chi sa della nostra difficoltà ad avere figli tenta spiegazioni: «Eravate più rilassati». Spesso capita dopo che uno cerca di adottare – ma per me che ho vissuto più e più volte il provare e riprovare, l’attesa e la delusione, rimane un evento speciale, straordinario, al di là di ogni spiegazione plausibile e ovvia.
    Ed è straordinario sentire mia figlia muoversi in grembo e sapere di essere un mezzo tramite il quale si nutre e cresce.
    Di fronte alla paura di non essere una madre sufficientemente buona, mi piace pensare alla poesia di Tagore e immaginarmi come l’arco da cui mia figlia come freccia viva viene scoccata dall’Arciere, e mi dico di imparare a lasciarmi flettere con gioia dalle Sue mani perché mia figlia possa raggiungere il suo bersaglio.


    * * * * *


    PER LA VITA DEI POVERI
    Antonio Raimondi – VIS

    Ancora oggi, guardandomi indietro, scorgo quei piccoli e grandi avvenimenti della mia vita che mi hanno «segnato» in maniera indelebile e mi hanno portato ad essere quello che sono e a svolgere il mio servizio.
    Ad incominciare da quando avevo 9 anni e sono entrato per la prima volta in un oratorio salesiano: ero andato per giocare a pallone con gli amici, ma oltrepassato il grande portone di legno mi venne incontro un salesiano laico (solo più tardi capirò il termine di coadiutore salesiano) e chiedendomi semplicemente come mi chiamassi e come mai ero all’oratorio, mi fece sentire subito accolto e a casa mia.
    La vocazione, la chiamata, il disegno di Dio su ciascuno di noi ha dell’imperscrutabile ed è terribilmente affascinante, per non dire anche un po’ drammatica. Infatti alla «chiamata» si può rispondere di sì, ma anche no, data la nostra infinita libertà: nelle tragedie greche è proprio quello il momento di più alta tragicità, cioè quando l’eroe è posto di fronte ad un bivio, ad una scelta da cui non si può tornare più indietro.
    All’età di 25 anni, terminato il mio servizio di obiettore di coscienza (quando si facevano 8 mesi in più rispetto alla leva), e quindi dopo una esperienza bellissima di animazione «a tempo pieno» di un cortile salesiano, con una laurea in tasca, pensai fosse tempo di «scelte radicali». Mi confrontai con la mia guida spirituale (un salesiano che mi conosceva da una vita) chiedendogli se non fosse giunto per me il momento di entrare in noviziato per diventare religioso. Guardandomi, abbozzò un sorriso furbo e mi disse: «Non scherzare proprio, non sei fatto per la vita religiosa. Tu sei un laico e da laico dovrai servire nella Chiesa. Anzi ti dirò di più, farai molto bene alla Congregazione più da laico che da religioso». Pensai che avevo esagerato un po’ troppo nelle mie confessioni (e quindi nei miei peccati) per meritarmi un giudizio così severo. Avevo addirittura interpretato che era meglio stare fuori dalla «Congregazione» per non nuocere più di tanto; magari avrei potuto «rovinare» qualcun altro.
    Quindi, la mia strada era quella laicale! Per essere laico alla maniera di Don Bosco divenni Cooperatore salesiano nel 1988 (fatidico anno del centenario della sua morte). A quel punto si trattava di «entrare nella società» e cercare di essere «un buon cristiano e un onesto cittadino»: attività in parrocchia o in qualche associazione, una professione rispettabile portata avanti con onestà e lealtà.
    Invece, ancora una volta, la «chiamata» arrivò inaspettata e veemente. Incominciai a frequentare il VIS-Volontariato Internazionale per lo Sviluppo, l’associazione costituita dai Salesiani per occuparsi di cooperazione con i Paesi poveri e di volontariato internazionale. Gli argomenti, i temi mi appassionavano: capii subito di trovarmi in un contesto che mi si addiceva, perché si trattavano problemi veri e non quelli artefatti della bassa pseudo-politica di casa nostra.
    Come si fa a rimanere indifferenti di fronte al fatto che la metà degli esseri umani sul pianeta (tre miliardi di persone) a stento sopravvivono con meno di due dollari al giorno, o che dieci milioni di bambini muoiono di fame ogni anno, o che sono duecentocinquantamilioni i bambini che lavorano e non vanno a scuola?
    Decisi di andare a passare con il VIS un periodo di 40 giorni in una lontanissima missione salesiana nella foresta del Chocò in Colombia. Non avevo, comunque, intenzione di impegnarmi per un periodo più lungo di volontariato all’estero (due anni), né di entrare a far parte dello staff della sede operativa, come mi era stato proposto. Infatti, nel frattempo, avevo fatto dei colloqui all’Alitalia che mi avrebbe assunto nel settore della gestione delle risorse umane, appena si riaprivano (di lì a poco) le assunzioni. L’esperienza forte e arricchente vissuta in quel lontanissimo villaggio della foresta colombiana, certamente dimenticato dagli uomini se non da Dio, fu determinante per la mia «conversione» ad impegnarmi nel campo della cooperazione e del volontariato internazionale: tornando a Roma, inviai subito la mia rinuncia all’Alitalia, e feci il mio «check in» nel VIS dove tutt’ora mi trovo dopo oltre 10 anni di apostolato.
    In questi dieci anni ho visitato quasi 40 Paesi di missione dove sono presenti i Salesiani: dalla Palestina all’Ecuador, dal Brasile alla Cina, dalla Cambogia al Madagscar, dall’Angola al Paraguay, dal Vietnam al Kenya, dall’Albania al Camerun, dalla Colombia al Kossovo, al Libano, alla Thailandia, alla Siria, all’Eritrea, ecc. ecc. Dappertutto, pur in contesti culturali assai diversi tra di loro, ho potuto vedere, sentire, annusare, toccare con mano l’immensa miseria che attanaglia miliardi di esseri umani. Una miseria che è un immenso scandalo per la dignità umana: vedere donne morire di parto, bambini morire di diarrea, giovani che non hanno futuro se non quello di imbracciare un kalashnikov o imbottirsi di tritolo per chissà quale giusta causa. La povertà più grande è proprio questa: la disperazione. Infatti, più che la mancanza di reddito (come ci insegna il grande Amartya Sen), la povertà è la mancanza di opportunità, della possibilità di costruirsi un futuro.
    Girare per il mondo (e non nei villaggi turistici iper-blindati) ti dà la sensazione di vivere in un‘epoca di profonda disperazione; di vivere in un mondo in-fame. In fame nel senso che sono veramente tanti gli «affamati» in senso fisico e materiale, che aspettano di ricevere qualche briciola che cada dalla tavola imbandita dei ricconi del pianeta. Ma anche infame perché ai ricconi non importa proprio nulla di questa massa di affamati e disperati, che è «rimasta indietro» come direbbe qualche economista neoliberista.
    Ma allora che fare? Forse non si può fare proprio nulla? Di fronte a queste legittime domande e dubbi, che a volte possono anche scoraggiare gli operatori di questo settore, riesco a rispondere in maniera propositiva e dinamica. La fede nel Cristo risorto e il carisma di Don Bosco mi aiutano puntualmente a dare il meglio di me stesso: il grande teologo Urs Von Balthasar diceva: «Il credente è colui che, pur vedendo molti tramonti nella sua vita, sa che Gesù, suo Sole, non tramonta mai».
    Allora, l’azione di un laico cristiano che vuole servire il prossimo e la società lo dovrebbe fare in questa ottica e con questa «spinta» iniziale: il sepolcro vuoto è la nostra certezza! Io guardo al mondo e dico: «Non mi sta bene, c’è troppa ingiustizia, c’è troppa povertà, gli uomini sono privati della propria dignità!». Gesù mi ha detto: «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza». La sua vita, il suo Vangelo, mi dice che ha ridato la vista ai ciechi, ha fatto camminare gli storpi, ha moltiplicato i pani e i pesci: la costruzione del Regno di Dio incomincia da qui. Noi siamo chiamati (vocati) a trasformare le cause delle ingiustizie e a partecipare alla continua genesi del mondo (Laborem Exercens), affinché si possano costruire «cieli nuovi e terra nuova».
    Certo, dobbiamo sempre essere consapevoli che il «banchetto eterno» non sarà di questo mondo, ma solo quando saremo faccia a faccia con Dio: «i poveri li avrete sempre con voi».
    Questa dimensione escatologica è molto importante: essa è la sottile linea di confine fra la solidarietà umana, l’amore fraterno e la tentazione violenta della «rivoluzione immanente».
    È così che vivo, giorno dopo giorno, la mia vocazione laicale di cooperatore salesiano che si occupa di solidarietà e volontariato internazionale, ossia con la consapevolezza che la povertà, la fame, la disperazione non sono incidenti della storia, ma che esse si possono almeno lenire (se non sconfiggere del tutto). È Gesù stesso che me lo ha detto, mentre Don Bosco mi ha fatto capire meglio il come fare, quale prassi e metodo seguire, privilegiando in particolare i giovani.
    A volte mi sono chiesto se la mia vocazione laicale non fosse «monca», non avendo costituito un nucleo familiare (moglie e figli, la piccola Chiesa domestica). Ho sempre pensato: «o di qua o di là», se sei laico allora devi metter su famiglia.
    La mia personale esperienza mi ha fatto capire che in realtà l’importante è vivere la vita in pienezza e con la trasparente (nel senso che gli altri la possano notare) gioia del Signore risorto. La mia paternità la esercito ogni volta che vado a visitare un progetto che ho ideato e redatto, in qualche favela dispersa per il mondo, in favore di bambini di strada, o orfani, o bambini lavoratori. Questi bambini, a centinaia, ti circondano e ti sorridono, magari ti invitano a giocare con loro: a volte sono abbastanza sporchi e puzzolenti che non vorresti nemmeno sfiorarli. Il vedere che sono bambini e ragazzi che possono avere un futuro mi rende felice: anch’io, nel mio piccolo, ho contribuito a ciò. A quel punto è importante avere fede e speranza, ma, seguendo san Paolo, è fondamentale essere pervasi da una profonda «carità» che ti rende un uomo vero, fatto di carne e spirito: allora i bambini, anche sporchi e puzzolenti, sono creature da amare e rispettare, e ti donano l’epifania della tua esistenza, il senso pieno di una paternità tutta speciale.
    Ritornando al salesiano mia guida spirituale (che oggi dal cielo continua a guidarmi e a benedirmi), seppi solo più tardi (dopo qualche anno) che fu lui (consultato dai superiori) a dare l’ok sulla mia persona per «guidare» questo organismo laicale. Oggi, a volte, mi ritrovo come Don Bosco davanti all’altare dell’Ausiliatrice nella basilica del Sacro Cuore a Roma: ripensando al percorso della mia vita, al disegno di Dio su di me (il Signore scrive diritto anche sulle righe storte), al salesiano che mi disse che ero fatto per «essere laico», i miei occhi si inumidiscono di fronte alla frase sibillina ma tremendamente profetica di «a suo tempo tutto comprenderai»!

    * * * * *


    UNA SCELTA DI VITA AL SERVIZIO DELLA VITA
    Mara Borsi, suora salesiana


    La carovana

    «Giorno dopo giorno la carovana avanza in un percorso sempre uguale, sempre diverso.
    Una sera durante la sosta abituale, emerge più forte del solito la necessità di fare il punto sull’avventura. Si passa in rassegna tutto il cammino analizzando maggiormente le ultime tappe per i fatti significativi che hanno innovato la vita della piccola comunità: quanti cambiamenti nel gruppo di persone, quanti nelle strutture sia materiali, ma soprattutto tecniche e organizzative.
    E mentre la memoria si ravviva, l’occhio guarda al futuro.
    Si va avanti nella riflessione per lunghe ore: alla fine, pare importante incaricare lo scrivano di inserire nello scarno diario di bordo alcune pagine che riassumono il contenuto dei lunghi discorsi».
    È con questa metafora che inizio questa testimonianza che intende dare voce a tante donne felici di essere religiose. Alla domanda – «la vita consacrata è davvero una scelta che si pone a servizio della vita?» – rispondo: certamente sì!
    Prima di tutto voglio far rilevare che è una scelta che arricchisce l’esistenza della persona che la accoglie come dono, come progetto e nello stesso tempo si manifesta come servizio alla vita di tanti altri con cui il religioso, la religiosa stabilisce legami e relazioni. Personalmente sento di aver intrapreso un viaggio, un cammino ricco di incontri, di relazioni che danno senso giorno dopo giorno all’esistenza, un itinerario insieme con altre persone che nonostante le sue battute d’arresto o limiti mantiene vivo il mio gusto di vivere.
    Il viaggio è una delle metafora della vita umana tra le più utilizzate nella letteratura, nell’arte, nella poesia. È tema universale che evoca molteplici significati che investono l’esistenza. Le autrici di Donne in viaggio, un interessante libro in cui viene messa in evidenza l’esperienza femminile, affermano che questa metafora ci raggiunge per lo più attraverso narrazioni e modelli maschili. «Eppure, le donne non poche volte hanno rotto il cerchio di protezione domestica per intraprendere un cammino che ha consentito loro di affermare il proprio desiderio di ricerca, di cambiamento, di libertà, di Assoluto, a iniziare da quelle che accanto ai discepoli seguono Gesù di Nazaret per le strade della Galilea».
    Anche per me la risposta personale alla chiamata ha comportato un rompere il cerchio, l’inizio di un cammino verso una meta non conosciuta. Un viaggio che, a volte, ha richiesto spostamenti in senso fisico, il cambio da una casa all’altra, da una funzione ad un’altra, o in senso interiore e questi, direi, sono stati i più duri.
    Il cammino intrapreso nella vita religiosa mi ha proposto un itinerario di libertà che purtroppo ancora molte donne non vivono, come mettono in luce i recenti incontri regionali che si sono svolti in diverse parti del mondo a cinque anni dalla conferenza mondiale di Pechino.
    Posso affermare con una certa sicurezza che noi religiose abbiamo opportunità culturali non comuni alle esperienze femminili non solo del passato, ma anche di oggi. In genere ogni Istituto offre la possibilità ad ogni suo membro di prendere coscienza di sé come donna chiamata a rendere ragione della propria fede in Dio e a prendersi cura delle persone che la missione le affida.
    Nell’esperienza di questi anni ho appreso diverse cose sulla mia femminilità, sull’essenziale dell’esistenza e ho percepito che se non si coltiva dentro di sé ogni giorno la capacità di cogliere un qualcosa che faccia vibrare, stupire e meravigliare, la curiosità per la vita stessa, l’interesse per la missione si spegne.

    Fare strada insieme

    La metafora della carovana in viaggio con la descrizione dei suoi momenti di sosta mi offre l’immagine giusta per descrivere la realtà della vita comunitaria, caratteristica fondamentale della vita religiosa.
    Camminare insieme su percorsi segnati dalla stessa missione, dalla solidarietà, dalla comunione tra le persone, dal sapere che hai accanto qualcuno su cui puoi contare, è l’esperienza che ho vissuto in questi vent’anni di vita religiosa nell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (più conosciute nel mondo come Salesiane di don Bosco). Certo in comunità ci sono luci e ombre, non tutto è facile. Riporto in questo senso una testimonianza di un giovane religioso che sembrerebbe sconfessare l’affermazione di partenza di questo articolo.
    «Lo stile che ormai si sta consolidando nella mia comunità è quello di un individualismo accettato. Ciascuno ha il suo lavoro, la sua attività. La vita comunitaria è inesistente, si vive spesso come in un’azienda del sacro, ma non come famiglia in cui esistono relazioni vere, un dialogo sincero, una condivisione affettiva ed effettiva. L’esistenza nella nostra casa è determinata non dalla ricerca di un linguaggio, di uno stile significativo, una serietà nell’impegno di preghiera e comunitario, ma dalle urgenze che occorre sempre più correre a tamponare, dalle richieste più disparate che occorre assolvere».
    Queste sono parole che descrivono comunità reali: ci sono effettivamente situazioni di questo tipo in cui è difficile vivere e reggere non solo spiritualmente, ma anche fisicamente. Se si vuole essere onesti però bisogna anche domandarsi o verificare quale tipo di contributo a livello personale si dà perché la vita in comune possa trasformarsi in comunione e quindi in vero servizio alla vita dell’altro, dell’altra.
    Nelle diverse comunità in cui ho vissuto ho constatato che se la comunità religiosa funziona bene si comunica, si dialoga, si collabora, si prega, si celebra, si risolvono serenamente le tensioni, le persone rimangono vive e hanno voglia di interrogarsi.
    La ricerca comune di una migliore significatività permette alla comunità religiosa di non chiudersi dietro le quinte delle proprie abitudini. Ho sperimentato l’importanza di chiedersi a livello comunitario se la vita spirituale che la comunità conduce, nelle sue modalità e nelle sue forme, intercetta in qualche modo l’esperienza di altri che hanno scelto modalità diverse per condurre l’esistenza.
    Una comunità attenta a ciò che la circonda combatte concretamente la tentazione di fermarsi sul già acquisito.
    La struttura, l’organizzazione, le attività non sono valide per decenni. Tutto ciò che è vivo è chiamato continuamente ad essere nuovamente organizzato, configurato; questo è, del resto, l’atteggiamento giusto per servire la vita nel suo continuo dinamismo. Ogni volta che riusciamo ad essere concrete in comunità sul principio «la tua vita è la mia vita», sperimento che vita e relazione sono indissolubilmente legate.
    Se personalmente rivado con la memoria ai momenti più belli che mi siano mai capitati, trovo costantemente al centro l’essere con e per gli altri, la relazione vissuta su una base di reciprocità.
    Amare ed essere riamati: questa è l’esperienza di felicità più grande. A qualunque livello si sia realizzata: dall’amicizia alla solidarietà, dalla comunanza di idee al lavoro insieme per raggiungere un unico scopo. Momenti questi di indubbia ricarica, di straordinaria riproduzione di vita. Situazioni in cui l’essere persona attivamente aperta all’incontro con altre e l’agire per il bene comune si sono fusi in un tutt’uno.

    I giovani… che passione!

    Lo stare insieme per… è un’icona dai colori decisi, che parla un linguaggio impegnativo per chi smette di guardarla e decide di viverla. Essa conduce altrove. Apre nuovi orizzonti, fa divenire protagonisti del mistero che narra. Tra singolo e gruppo vi è un reciproco influsso; una comunità di persone mature stimola continuamente il singolo ad affrontare i compiti quotidiani, gli incontri, i conflitti e attraverso di essi a maturare come persona che vive un’esperienza di fede e di spiritualità. Allo stesso modo il grado di maturità individuale contribuisce ad arricchire l’ambiente in cui si vive.
    Qualche mese fa ho ricevuto una lettera di una comunità della Tanzania che tra mille difficoltà mantiene viva la passione educativa nonostante le inevitabili fatiche. La riporto per sottolineare che al centro del servizio alla vita di ogni sorella della mia famiglia religiosa ci sono i giovani.
    «In questi anni abbiamo cercato di dire, in uno scenario di morte, una parola di vita, di far battere il cuore oratoriano alla Città della speranza don Bosco! Scuola, tempo libero, preparazione professionale, studio, gioco, sport, cultura, musica, teatro, formazione umana e cristiana, servizio, gruppi d’impegno, le squadre sportive, l’impegno socio-politico, lo stare in cortile, il sentirsi a casa e di casa; l’amore che i giovani hanno verso l’oratorio è grande, profondo, ricco di gratitudine. E anche il Signore vuole veramente bene al nostro oratorio e non ci ha mai lasciato sole e senza forze. Le sfide sono tante e ne sono sorte di nuove ogni giorno in questi anni… Il Signore ha continuato ad inviarci e a farci incontrare giovani che vivono situazioni sempre più problematiche… Non ci ha lasciato tranquille e noi abbiamo cercato di non tirarci indietro».
    Avendo la possibilità di accostare la realtà giovanile di diversi continenti rimango sempre sconcertata dal fatto che riviste, settimanali, quotidiani in ogni contesto culturale si preoccupano di descrivere le caratteristiche dei giovani europei, africani, nord americani, asiatici, latinoamericani.
    Si moltiplicano le inchieste che dipingono un universo giovanile dai mille volti, non solo per le diverse appartenenze culturali, ma anche per le sottoculture da loro stessi prodotte.
    I compilatori dei sondaggi sanno però che la freccia non colpirà il bersaglio, perché quest’ultimo non ha un centro. Ne ha «uno, nessuno e centomila» tanto per usare una nota frase ad effetto.
    Il Signore mi ha fatto il grande dono della vocazione salesiana che ha come centro palpitante l’annuncio del vangelo ai giovani e posso dire che non si finisce mai di imparare a stare con loro; in questi anni ho conquistato una certezza: i giovani non si lasciano ingabbiare in definizioni e categorie predisposte da persone che spesso parlano di loro, ma raramente parlano con loro.
    L’errore che frequentemente ci capita di commettere come religiose-religiosi, come comunità ecclesiali, è di parlare delle nuove generazioni, e quindi del futuro, più che come un dato sconosciuto, da attendere e da conoscere man mano nel suo dispiegarsi, come la proiezione dei nostri desideri di adulti, di come vorremmo che le cose si svolgessero.
    Così molte religiose o responsabili della pastorale giovanile hanno un’idea personale dell’universo giovanile che spesso si trasforma in ostacolo al dialogo, in divergenza di opinioni, di sensibilità spirituali, di comportamenti e di stili di vita.
    Le sentinelle del mattino, come li ha definiti Giovanni Paolo II, sono molto diversi da come li sogniamo.

    La prospettiva: essere forti nella debolezza

    Il termine missione nella debolezza è nato nella chiesa d’Algeria, che negli ultimi anni ha avuto 19 martiri (di cui sei religiose). Privati gradualmente di tutto (scuole, ospedali, chiese), religiosi e religiose di diverse congregazioni hanno scoperto il nucleo essenziale della missione e hanno puntato tutto sulle relazioni: apertura all’altro, superamento dei pregiudizi, collaborazione per alleviare le sofferenze, amicizia, dialogo fraterno.
    Non è facile vivere così con le mani vuote, perché in questi casi la presenza della vita religiosa non si spiega più con il fare, ma con l’essere.
    Molti religiosi e religiose oggi si domandano quali strade percorrere per continuare a servire e promuovere la vita attraverso la vocazione religiosa. Le "indicazioni di direzione", pur rispettando diversità di situazioni e sensibilità culturali, potrebbero essere queste:
    • la qualità della vita fraterna in comunità;
    • l’effettivo incontro con i poveri e con la gente fra cui si vive;
    • la ricerca della collaborazione con altri che condividono il sogno di vedere ogni persona rispettata e trattata con dignità.
    C’è una gamma molto estesa di forme di presenza, a seconda delle situazioni e dei cammini delle differenti famiglie religiose, ma la scelta dei poveri e tra di essi i giovani interpellerà, a mio parere, la vita consacrata in modo sempre più acuto.
    Nell’epoca della globalizzazione che esclude ed emargina, il posto dei religiosi, delle religiose, se si vuole veramente continuare ad essere a servizio della vita, sarà con i più deboli, con chi per un motivo o per un altro rimane escluso dalle opportunità, con i giovani che cercano il loro posto in una società che tende ad emarginarli. Questo è futuro. Questa è speranza certa!


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    UNA VITA SPRECATA PER AMORE
    Sr. Diana Papa – Clarisse Soleto (LE)

    La chiamata alla vita monastica claustrale pone sempre degli interrogativi che vanno oltre la reale comprensione.
    Perché fuggire dal mondo? la domanda più comune che si pongono anche coloro che sono vicini agli ambienti ecclesiali.
    Ed ancora: qual è la valenza ecclesiale di questa scelta? Come può essere ancora segno efficace nella chiesa e per il mondo, che spesso non la capisce e che considera inutile?
    Quale messaggio evangelico può offrire ancora ad una umanità così presa dallo svolgersi cibernetico della vita che si chiude, per mania di onnipotenza, nelle manipolazioni genetiche o nelle relazioni virtuali, sconfinando spesso nel non senso profondo dell’esistenza?
    Per cogliere tutto lo spessore di una vita donata a Dio nella gratuità, che si snoda secondo la logica dell’amore, perché fondata sulla relazione privilegiata con Lui, è necessario liberarsi dalle incrostazioni materialistiche e accostarsi al mondo femminile claustrale senza precomprensioni.
    Chi abbraccia la vita monastica non è un’eroina, ma una persona comune, che come tutti gli altri ha vissuto la sua giovinezza con gli amici, andando in pizzeria, in discoteca e frequentando, nello stesso tempo, associazioni o movimenti ecclesiali.
    Il cammino associativo ti permette di essere interpellata dalla Parola di Dio, di chiedere nella preghiera: «Signore, che cosa vuoi che io faccia?», di imparare ad affidarti nell’accompagnamento spirituale a chi ha già detto di sì al Signore in una qualsiasi forma di vita.
    Avere tutto nella quotidianità, spinge a cercare una modalità che nella Chiesa assuma la fisionomia della radicalità evangelica.

    Il significato di un rapporto

    Alla base di una scelta di vita monastica vi è l’incontro con Gesù Cristo, grazie al quale si sperimenta che «Dio ci ha amati per primo» (1 Gv 4, 19). Una giovane segue radicalmente il suo Signore perché fa esperienza di un amore gratuito (Dt 7, 7-8), totale, fedele, preveniente, attento, concreto, profondo, tenero (Dt 7, 7-9), geloso (Dt 6, 15).
    Una vita si definisce piena di significato grazie alla vitalità di un rapporto costante con il Signore. Un Dio mai raggiunto per sempre, che fa gustare lo scorrere del tempo in una continua ricerca di Lui e che fa sperimentare la sua vicinanza e la sua lontananza, il senso del mistero e la sua soglia, il limite dell’uomo e, nello stesso tempo, l’infinito che è alla radice dell’esistenza umana.
    Il «fissare lo sguardo nello specchio», l’«essere dimora e soggiorno di Dio», come dice S.ta Chiara, è scegliere di vivere per il Signore, in disparte, per attendere a Lui solo, verso il quale tutte le energie della persona si orientano.
    La contemplativa si offre, così, al Padre come Cristo, perché «il mondo creda» (Gv 17, 21) al suo amore.
    Lo «stare con il Signore» (VC 59) è legato al suo bisogno profondo di intimità, essendo chiamata, come ogni battezzato, a condividere l’esperienza dell’amore trinitario.
    In questa palestra d’amore la contemplativa impara ad amare nel quotidiano con il cuore di carne, «si offre con Gesù Cristo al Padre e collabora all’opera della redenzione» (Vs 3) con l’atteggiamento di chi considera ogni fratello, che vive nel mondo, altrettanto terreno fertile dove si manifesta l’opera di Dio.
    La contemplativa, da innamorata, sente il desiderio di stare con «il suo amato» (Ct 3, 1), non perché c’è una struttura che la costringe, d’altra parte l’amore non può essere circoscritto, ma unicamente perché avverte il bisogno di appartarsi, per essere sempre vigilante per il suo Signore.
    In questo scambio d’amore la contemplativa parla al suo Signore delle persone che Egli ama, gliele affida, chiede per loro benedizioni. Offre a Lui i suoi pensieri, i suoi affetti, le sue scelte... tutta la sua umanità orientata e liberata quotidianamente.
    Diviene, come Maria, capienza, grembo che accoglie la Parola e la incarna, pur nella fatica di ogni giorno; discepola di Gesù in un modo radicale, sfida il mondo, provocando l’umanità a volte assonnata a porsi le domande fondamentali.

    Testimoni dell’Assoluto

    Le contemplative annunciano con la loro vita che hanno veramente incontrato il Signore, «che hanno trovato e conosciuto Colui che il Padre ha mandato nel mondo e che sono in grado di dare testimonianza della realtà dell’esistenza con la propria persona, con la vita e con una più profonda consapevolezza» (T. Merton).
    Non si entra in monastero per fuggire dal mondo, perché è corrotto, peccaminoso... anche le contemplative continuano a far parte di questa umanità redenta, ma unicamente per aver sfiorato la profondità dell’esistenza, dentro cui esse continuano a scavare, cercare, trovare...
    E in questo fluire dell’esistenza offrono a Dio un’affettività riccamente adulta.
    All’interno dei monasteri non abitano, dunque, persone dalla psiche fragile, con problemi di adattamento, che si manifestano molte volte con fughe nello spiritualismo esaltato; donne disincarnate, lontane dall’esperienza di una profonda interiorità.

    Nel cuore della chiesa

    Far parte di una fraternità monastica non significa non appartenere più ad una società, o meglio ancora, al popolo di Dio, anzi, è situarsi nel cuore della chiesa, perché altri siano spinti a cercare Dio.
    Una comunità monastica, proprio perché è chiamata a proteggere la solitudine e il silenzio per lasciarsi assorbire da Dio, è per l’uomo d’oggi oasi di pace.
    «La solitudine monastica è paragonabile ad una zona verde, posta ai confini del mondo, alla frontiera tra la città abitata e le zone non abitate, ma che resta a servizio di questo mondo, orientata verso di lui, in grado di invitarlo e di accoglierlo e intenta a rivolgergli un certo messaggio» (A. Louf).
    Il mondo non crederà nell’esistenza di Dio per aver visto pregare bene, ma perché ha incontrato testimoni dell’Assoluto, in continua ricerca.
    Le monache, vivendo insieme nell’amore, annunciano ad altri che è possibile intravedere Dio: «Oggi pare che niente e nessuno aiuti a pensare a Dio [...]. Ci vogliono esistenze che gridano silenziosamente il primato di Dio. Ci vogliono uomini che trattano il Signore da Signore, che si spendono nella sua adorazione, che affondano nel suo mistero, sotto il segno della gratuità e senza umano compenso, per attestare che Egli è l’Assoluto» (CEI, Messaggio per il XV centenario della nascita di S. Benedetto).
    Non si può pensare ai monasteri come a zone protette, ma soltanto a luoghi abitati da Dio, oasi di accoglienza per chi cerca il Signore.
    Ancora oggi ogni «S. Damiano diviene il luogo della rivelazione della comunità dell’amore rivelato tramite il Cristo crocifisso, la rivelazione della nostra partecipazione a quell’amore per la Parola che abita nei nostri cuori» (R. J. Armstrong).
    Le contemplative, con la loro vita donata totalmente al Signore, annunciano al mondo che Dio ama ogni uomo.


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    È BELLO SAPERE CHE QUALCUNO HA PRECEDUTO I TUOI PASSI
    Giacomo Ruggeri, prete diocesano

    Per cinque anni consecutivi le mie sveglie hanno avuto lo stesso tono: alzarsi di buon ora per poter prendere il treno locale che mi portava a scuola (Istituto Tecnico Agrario), fare colazione, leggere il vangelo del giorno e un salmo delle lodi del mattino.
    Per cinque anni mio padre si è sempre svegliato prima di me, scaldandomi il latte, iniziando la preghiere del mattino, lasciandomi il segno con un santino, come invito a continuare la preghiera. Il ricordo è intenso in special modo nelle giornate d’inverno, quando il sole si prendeva tutto il tempo prima di illuminare il pianeta!
    Oggi, dopo sette anni di sacerdozio posso affermare, con emozione e gratitudine, che i primi segni di Dio mi sono arrivati da quelle mattine assonnate, davanti alla colazione pronta e il libro del Vangelo, già aperto e meditato da mio padre.

    Un disegno in filigrana

    Raccontare la propria vocazione di prete è come per un pittore stare davanti ad una tela bianca: il disegno lo ha già dentro di sé; l’arte sta nel saper armonizzare i colori che si hanno a disposizione nella tavolozza. Le vicende che si alternano nel mio cuore sono tante quando penso al sacerdozio che ora vivo. Da quelle mattine studentesche ad oggi, sono passati un soffio di ministero (sette anni!), eppure sembrano tanti, forse perché vissuti intensamente e con passione.
    All’inizio scrivevo la bellezza di sapere che c’è qualcuno che ti ha preceduto, ovvero che è venuto prima di me e di te. Nelle storie di vocazioni (soprattutto di santi), si legge che sin da piccoli era chiara la strada che avrebbero percorso e la meta da raggiungere: prete e/o suora. Per me non è stato così. Mi sono iscritto al tecnico agrario con poco coinvolgimento. Se avessi ascoltato il mio istinto mi sarei fermato alla terza media. Mia madre, con decisione e caparbietà, mi invitò a scegliere un indirizzo scolastico, qualunque esso sia stato, purché avessi continuato.
    A distanza di tempo vedo con una certa chiarezza che l’agire di Dio è tipicamente umano, ovvero intriso di umanità: quando decidi di abbandonare il sentiero che stai percorrendo perché non vedi la meta, e la motivazione è nel versante calante, ecco che dinnanzi a te si apre uno scenario di sorpresa e stupore che ti fa dire: avanti, proseguiamo il cammino.
    Dio, nella mia esistenza di adolescente, ha tracciato le pennellate più belle e chiare: amicizie nel mondo dello scoutismo (proseguito in futuro come capo reparto nel paese e ora come assistente al Clan); esperienza di servizio musicale in chiesa con l’organo; un amore grande per la natura e il campo all’aperto, da un lato influenzato dalla scuola che frequentavo, dall’altro per la presenza dei miei nonni, vissuti da sempre in campagna e ora uno in cielo.
    Nel periodo dell’adolescenza, quando si pensa a tutto e a niente, quando si fanno sogni per i prossimi cinquanta anni, quando i sentimenti ti elevano due metri da terra, senza chiederti il permesso nel lasciarti cadere… ciò che è stato sempre costante è stata l’attrazione per il Vangelo e ciò che raccontava. Ho chiesto di entrare in seminario senza esplicitare il voler diventare sacerdote, ma solamente attratto dallo studio per la scrittura e la figura di Gesù di Nazareth.

    Sei figlio di una storia

    Sei anni di formazione umana e spirituale in seminario dove Dio ti parla attraverso volti, storie, esperienze, lacrime, scelte, paure, gioie, perplessità. Nel fluire del tempo, il linguaggio di quel Dio-calamita, che attrae a sé, continua a raffinarsi sempre più. Si è entusiasti di una gioia che non parte dal tuo cuore: non sarebbe arrivata lontano! Ti chiedono se sei felice della scelta che stai per compiere: dici di sì ed avverti che c’è della sana incoscienza in quella risposta. Perché incoscienza?
    Perché se non fosse Dio a guidare e sostenere i passi quotidiani della vita da prete, non so quale direzione essi prenderebbero.
    Domanda: ma come si fa a capire che è Dio che guida i passi e ti è vicino!?
    Risposta: l’incontro con Dio non è una reazione chimica, dove nell’unione delle sostanze si ottiene, al momento, un nuovo prodotto. Quando ti poni a riflettere sul vissuto di ciò che è stato, quando arrivi in alto alla vetta dopo aver camminato per il sentiero in salita e guardi l’orizzonte, quando approdi allo scoglio serale di ogni giornata dopo aver remato tra gioie e fatiche, ecco l’incontro con Dio. Un padre che ti precede in ciò che fai e sei, che ti invita a non inventare il tuo ministero di prete, ma a leggerlo in ciò che è stato, è e sarà.
    Ti chiede di esprimere la gioia dell’incontro con il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Così facendo sperimenti che sei figlio di una storia e non una monade vagante nel caos dell’esistenza. Una delle prime sintesi sta nel fatto che i progetti pastorali devono essere preceduti dalla vita, da ciò che rende viva la tua esistenza.
    Quando mi chiedono il perché della scelta del sacerdozio, prendo come esempio il matrimonio (anche se ultimamente, a volte, sono sempre più perplesso di come viene vissuto!) affermando: ci si sposa per amore, ci si fa preti per amore. Non vedo altro. Le perplessità sul matrimonio nascono dall’esito che lo stesso sortisce dopo alcuni anni dal giorno della celebrazione. Una volta uno studente a scuola mi disse: «si sta bene a fare il prete, è un bel mestiere?». Con la vita di ogni giorno cerco di rispondere a quella Parola che sin dall’adolescenza mi ha intrigato e preso il cuore. Una Parola che, dinnanzi a me, si è fatta volto in molte persone che hanno scelto, si sono decise per qualcosa di grande, hanno investito tutto di loro senza calcolare tornaconti e spese varie.

    Gli incontri? Occhio (e orecchio) a capirli!

    La mia vita da prete è stata sempre segnata da figure forti e significative, viventi o solo nella memoria. Ne cito uno per tutti: l’incontro con la comunità di don Benzi, l’impegno di molti giovani nel condividere le sofferenze delle persone, dalla droga alla prostituzione, dall’affido al mondo dell’handicap. Ritengo fondamentale aiutare i giovani a leggere la propria storia alla luce non solo di ciò che essi vivono, ma soprattutto di chi incontrano o meno. Incontri che determinano la traiettoria del tuo procedere. Guardando la vita, come delle diapositive proiettate nello schermo del passato, sono grato a Dio per delle persone ben precise e di spessore che hanno segnato la mia esistenza e il mio essere oggi prete. Sono certo nel dire che se non le avessi incontrate, oggi non sarei sacerdote. Così dicasi per le esperienze vissute, i viaggi intrapresi, le scelte che mi si sono poste dinnanzi. Eppure se dovessi dire la coordinata che ho incontrato in questi testimoni, ne direi una sola: la loro forza di pregare e credere nella preghiera. Ho capito che se un prete non prega, non cammina. Se non sta in ginocchio davanti al crocefisso, non sta in piedi (come ama dire don Benzi). La preghiera è portare Dio agli uomini e gli uomini a Dio. Nella preghiera ricapitoli il tuo essere prete e cristiano, è la cartina tornasole del ministero che vivi, è la prova del nove della pastorale che progetti. Nella preghiera Gesù non è un nome, ma una storia tutta da scoprire.
    Come il pittore per dare bellezza e risalto al dipinto che sta creando accosta i colori con armonia e gusto, così Dio ha mescolato le esperienze, gli incontri, le scelte decisive sulla tavolozza della mia vita. Il bello di questa tela così particolare è che non ha una cornice; ogni giorno si continua il disegno, allargandosi sempre più. Non può mancare in questo scenario la dimensione della comunità parrocchiale dove Dio Padre ti invia come figlio.
    La parrocchia. Un nome, mille volti. Beh, per essere sincero la prima esperienza di parrocchia di parroco è di una comunità di cinquecento persone. I miei primi sei anni di ministero li ho vissuti come vice parroco in una realtà più grande e dallo stile diverso. Man mano che cammini con la gente, essa diviene sempre più la tua famiglia: gioie e sofferenze si alternano come in una qualsiasi casa. La parrocchia è una scuola di umanità. Avverti in pieno che lo stile di Gesù con i suoi discepoli e la gente del suo tempo è chiamato ad essere sempre più tuo. Uno stile fatto di tante attenzioni e scelte. Prete che accoglie, che testimonia, che sa stare con tutti, che non sceglie il potente e il ricco, che non si contenta delle chiesa più o meno piena, ma intuisce che vi è anche l’altare della strada, dei posti di lavoro, delle sofferenze in casa che non fanno eco, delle famiglie separate o sull’orlo di esserlo.

    Una parrocchia sempre più laboratorio vivo

    Condividere. Ecco la password per entrare nel mondo parrocchia. Condividere la sofferenza, la solitudine, la delusione. Il prete, da parte sua, non si può limitare a dare affetto: se non dà Cristo e la sua Parola, nulla si risana, niente torna a vivere e sperare. La gente ha sete di Cristo; a volte non sa a quale pozzo attingere, quale strada percorre per arrivare alla sorgente. I sacramenti sono l’acqua che disseta per eccellenza; da essi si parte, ad essi si arriva. Ho incontrato persone che, grazie alla confessione, hanno scoperto il Cristo e altre che dall’eucaristia hanno preso forza per scelte difficili.
    Ed ecco, allora, lo stupore del ministero che Dio ti ha messo nelle mani: nulla a caso, niente per volere del destino, ma se guardiamo l’accadere con i suoi occhi, senti nel profondo il coraggio e la responsabilità che Lui stesso ha riposto in te. Sento vive le parole di Marta e Maria che dicono a Gesù, per la morte del loro fratello Lazzaro: «Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto». Gesù la vita e le molteplici morti di ogni giorno.
    Dio ti chiede di essere vita per quella mamma caduta nel dolore per il tumore del figlio; ti chiede di essere padre nella fede per quella bambina appena nata e che i genitori portano all’altare per il battesimo; ti chiede di essere maestro di vita più che professore dietro la cattedra per gli studenti di scuola; ti chiede di vivere da confratello e compagno di vocazione con i sacerdoti che incontri. Ti chiede di metterti in ascolto della gente, più che fare l’oratore!
    Quest’ultimo aspetto l’ho scoperto vivendo a contatto con i ragazzi e i giovani. Ogni luogo e momento è l’occasione per parlare; hanno un mondo che si portano dentro e metterlo in ordine (ovvero dargli un senso) non è semplice.
    Sto imparando che con i ragazzi ci devi mangiare «una coppa di sale», nel senso che devi fare strada con loro, accogliendo le gioie e le amarezze del cammino. Solo così prendi coscienza che il vangelo di Gesù di Nazareth inizia a parlare e prendere corpo. La vita che arriva alla fede, la fede che aiuta a leggere il proprio vissuto.
    Essere prete nel terzo millennio per me significa continuare ad essere tela bianca nello stupore della ferialità della vita, affinché Dio possa continuare a dipingere il quadro del suo Regno con i colori dell’umanità.


    * * * * *


    UNA VITA CHE NON SERVE: HANDICAP E VOCAZIONE
    Giuseppe Morante

    «Il roveto»: una comunità di vita consacrata

    Ecco un fatto, per molti aspetti, oggi del tutto nuovo e molto significativo. Un gruppo di donne paraplegiche, ispirate dalla spiritualità di Don Luigi Monza, si uniscono nella preghiera e nel lavoro in una «comunità» di vita consacrata. Si tratta di una speciale chiamata di quattro donne disabili che intendono vivere insieme per far fiorire il «Roveto».
    Che cosa è per loro «Roveto»? Un progetto di vita, per ora unico almeno in Italia. Una scelta impegnativa progressivamente e sapientemente maturata: quella di realizzare il desiderio di vivere in comunità una vita di preghiera, di consacrazione al Signore, di lavoro e testimonianza. Con i loro limiti fisici (sono paraplegiche) mettono la loro esistenza al servizio di un impegno apostolico, in una tipica spiritualità, perché hanno scoperto che anche la loro vita «vale», perché è un dono di Dio.
    «Vivere in una comunità…», da desiderio personale per ognuna di esse è diventato progetto comune. La comunità è sorta a Nerviano di Sant’Ilario, a una ventina di chilometri da Milano. Le quattro «padrone di casa», dai 26 ai 50 anni, da tempo chiedevano di realizzare la chiamata alla vita religiosa consacrata, dopo aver superato profonde crisi legate chiaramente alla loro condizione di disabilità. Ma alla fine la luce della fede ha permesso loro di vivere i limiti fisici non come peso, ma come percorso diverso. Un padre spirituale dell’associazione «La Nostra Famiglia» le segue da 15 anni, in questa ricerca vocazionale. «Da tempo – dice – eravamo alla ricerca di un ambiente idoneo. Ci siamo rivolti a diversi istituti religiosi per approdare a Sant’Ilario in un’ala di Palazzo Clerici». La struttura ha al piano terra la zona giorno e una accogliente cappellina; al piano superiore le stanze. Le quattro donne, che non sono autosufficienti, sono assistite da operatrici dell’Asl di Legnano e da un gruppo di volontarie. La giornata è impegnata da due occupazioni fondamentali: la preghiera e il lavoro al computer.
    Due di loro hanno già pubblicato libri di poesie: spesso esprimono «la bellezza e la gioia di una consacrazione al Signore, pur avendo un corpo che non corrisponde ai canoni della perfezione». Mostrano «il coraggio del sorriso pur nella lotta quotidiana» per affrontare la vita; manifestano «sogni che ora per loro sono diventati finalmente realtà».
    Nella giornata, oltre alla preghiera e al lavoro, c’è spazio per incontri con la sofferenza altrui: soprattutto disabili come loro, e rispettive famiglie, per rafforzare il senso della vita. La gestione di questa comunità di consacrate (il nome «roveto» è stato scelto in riferimento al monte Sinai, a Mosè e alla testimonianza del fondatore di La Nostra famiglia) è affidata ad una associazione, gli «Amici del Roveto», e si avvale dell’adesione di parrocchie, volontari e intere famiglie.
    La realizzazione della speciale vocazione alla consacrazione di queste quattro paraplegiche, attraverso la preghiera, l’ascolto, l’accoglienza e il lavoro possibile nelle loro particolari condizioni di vita, dimostra la testimonianza del valore della persona portatrice di problemi motori, capace – al di là delle limitazioni fisiche – di realizzare in pienezza la propria vita interiore e di pervenire anche a scelte coraggiose, profetiche.
    Questa presenza profetica nella Chiesa di un «polmone spirituale» è un frutto dell’ispirazione del Signore e della collaborazione dei fedeli e risponde al bisogno di proclamare il primato della spiritualità rispetto all’efficientismo, attraverso il «segno» della capacità di offerta della propria vita da parte di persone comunemente ed erroneamente ritenute incapaci di dare e incomplete sul piano fisico della persona.
    La comunità si autogestisce anche economicamente. Le sue componenti fanno lavori di grafica a computer e attività manuali. Prezioso è l’apporto di volontariato e la collaborazione per far integrare il loro progetto dentro la realtà ecclesiale locale. Come «consacrate», nella preghiera, nell’ascolto e nell’accoglienza, testimoniano la realtà e la gioia della resurrezione.
    Una persona disabile, prima di scoprirsi «chiamata» a qualsiasi vocazione, ma più ancora alla consacrazione, deve aver superato tappe di maturazione nella fede, nel cammino di accettazione della propria condizione esistenziale, di liberazione dal proprio limite fisico. Chiamata del Signore e limitazione fisica possono diventare, con l’aiuto divino, delle realtà complementari a condizione che venga fatto un cammino – spesso lungo e arduo – di penetrazione e approfondimento del valore della vita e del suo significato profondo.
    È infatti con la luce della fede che si perviene ad attribuire ai propri limiti fisici, non tanto la valenza di ostacolo all’espressione della propria pienezza di vita, quanto quella di «segno» a scoprire 1’autenticità, la ricchezza e la gioia dell’esistenza, pur in condizione di disabilità e la possibilità di orientarla totalmente al Signore attraverso la consacrazione. Questa può realizzarsi a pieno titolo, nonostante o proprio attraverso l’handicap, che non ne sminuisce in alcun modo l’intrinseco valore. Proprio l’accoglienza serena, realistica, libera da preconcetti dei propri limiti e delle proprie potenzialità diventa presupposto di scelta responsabile nella risposta alla chiamata del Signore.
    Le consacrate della comunità de «Il Roveto» ritengono prioritaria per la loro consacrazione la preghiera comunitaria e la partecipazione alla vita di preghiera della parrocchia, accanto a un impegno di accoglienza e ascolto, lavoro, studio e ricerca, in uno stile di vita comunitaria con chi si affiancherà a loro nell’esperienza quotidiana.
    L’attenzione della comunità è rivolta prioritariamente a chi vive in prima persona situazioni di sofferenza e alle rispettive famiglie. E il suo impegno apostolico prende slancio e alimento dalla spiritualità del Servo di Dio Don Luigi Monza, da cui è germogliata e maturata la loro specifica vocazione alla consacrazione.
    Hanno detto: «Noi che abbiamo ricevuto il dono dallo Spirito Santo di accettare i nostri limiti fisici alla luce della Resurrezione del Signore, vivendoli come testimonianza positiva e redentiva, sentiamo il vivo dovere di farci carico nella preghiera, nell’ascolto, nell’accoglienza e nell’offerta della nostra vita, di tutti coloro che, per qualsiasi motivo, si trovino a sperimentare la sofferenza, il dolore, la prova. Il nostro impegno è quello di portarli al Signore perché siano illuminati con la luce della fede e possano sperimentare, nel mistero del dolore, la bontà amorosa del Padre, che mai viene meno alle promesse di bene per le sue creature e che tutto conduce secondo disegni di Provvidente Amore per ciascuna di esse».

    Vocazione religiosa. Per disabili è possibile!

    È possibile la realizzazione di una vocazione specifica di tipo consacrato anche per credenti disabili? L’esperienza sopra descritta dimostra che la risposta è affermativa; e non va elusa in nessun modo se si vuole rispettare l’uomo nella sua totalità e nella sua realtà esistenziale.
    Anche come disabili, religiosi e religiose possono diventare avanguardie dell’amore. Così dimostrano che la parola di Gesù non inganna, ma edifica quasi di nascosto la gioia di chi crede. Agli apostoli, chiamati da Gesù, sembrava che per vivere fosse indispensabile possedere, e invece trovarono la vita là dove nessuno possiede nulla; sembrava che gli altri fossero da temere come concorrenti, o da servire ma a distanza, come estranei; e invece fu possibile chiamarsi «fratelli», «sorelle» anche tra sconosciuti. Il capriccio sembrava la prova della libertà; per loro, invece, si aprì il cuore all’obbedienza, per essere veramente liberi.
    A chi domanda il segreto di questo amore, viene mostrato il cuore di ogni comunità: siamo di Gesù. Egli abita con noi e rende possibile l’impensato. Per questo i religiosi arrivano per primi là dove più urgente c’è il bisogno d’amore. Prima dei giovani generosi, prima delle organizzazioni internazionali, prima dello Stato, i religiosi e le religiose già inventano per i bambini, per i vecchi, per i malati, per gli handicappati, per tutti i deboli e gli infelici della terra, le mille premure che cercano la guarigione, la formazione e illuminano di fede e di speranza la sofferenza. E quando l’assistenza sarà ridotta ad una semplice gestione ufficiale organizzata – come una manutenzione ordinaria – le suore e i religiosi continueranno ad operare per amore. Perché questo è il vero amore cristiano: fedele e concreto.
    «Il mondo ci pesa quando il dolore si è impadronito di noi; allora l’anima nostra si sente portata verso regioni più alte, più pure, più calme... Chi la solleverà da terra? Chi la trasporterà al di là degli astri verso quell’altro mondo più perfetto, più luminoso?... La preghiera umile e fiduciosa la preghiera del Figlio verso il Padre» (D. Luigi Monza).
    Tutti coloro che hanno conosciuto Don Luigi Monza e hanno testimoniato di lui, sottolineano la «predilezione esclusiva» di cui sono stati oggetto coloro che erano affetti da varie disabilità, quasi da meravigliarsi che altri abbiano potuto sentirsi personalmente accolti nel suo cuore, come loro...
    Questo «amore di predilezione» è frutto di profonda e continua comunione con Dio che predilige le sue creature, nella verità profonda del loro essere, al di là e al di sopra di tutto ciò che appare.
    Questa modalità di relazione interpersonale, espressione di «stile di vita interiore», è quella che «La Nostra Famiglia» ha assunto come caratteristica propria nel realizzare il servizio a favore delle persone portatrici di disabilità, alle quali si è premurata di offrire, insieme a qualificati segni di intervento di promozione e recupero, accoglienza, valorizzazione, rispetto e aiuto a scoprire e realizzare la pienezza di vita che è in esse e che potrebbe essere offuscata da limitazioni o difficoltà esterne.
    Molti sono i «miracoli di amore» che questo stile di intervento ha registrato, coinvolgendo in questa affascinante scoperta di tesori nascosti operatori, genitori, giovani, volontari, gli stessi fruitori dei servizi.
    È con vera gioia e interiore «sorpresa» che, all’inizio di questo nuovo Millennio, si constata lo sbocciare, sul grande albero nato dal cuore del carisma di Don Luigi, del nuovo germoglio: la chiamata alla consacrazione di giovani disabili motorie.
    Consapevoli della ricchezza del dono della propria esistenza, accolta nella sua caratteristica di limitazione, ma insieme nella sua capacità di aprirsi alla pienezza del dono di Dio e ai tesori della Grazia, esse non esitano a rispondere alla personale chiamata del Signore a offrire le proprie capacità di dono, di comunione, di accoglienza, di consolazione, di benevolenza a chi è nel bisogno. Intendono proclamare, con la testimonianza di una vita di consacrazione, il primato dei valori interiori della persona, quelli della solidarietà e della comunione rispetto a quelli dell’efficienza e del benessere egoistico. Intendono attestare, col gesto coraggioso della loro risposta, il valore intrinseco della vita, «manifestazione delle opere di Dio» (cf Gv 9,3), in qualsiasi forma essa si presenti e il primato dei valori spirituali della persona rispetto alla prestanza fisica e all’efficienza.
    Questa nuova «opera di Dio», nata all’ombra di quella istituzione che il fondatore ha voluto denominare «La Nostra Famiglia», resa possibile attraverso collaborazioni varie, viene accolta come dono del Signore, segno della vitalità del carisma e insieme stimolo a viverlo e a diffonderlo sempre più nel nostro mondo assetato di valori autentici e di segni di «amore di predilezione».
    Il Roveto è una comunità di giovani disabili motorie chiamate alla speciale consacrazione nella loro condizione esistenziale, consapevoli che la propria disabilità motoria, pur condizionando il loro stile di vita, non impedisce la piena espressione della loro interiorità e capacità di dono di sé per il bene dei fratelli.
    Ma come ciò può diventare possibile?

    Una catechesi a dimensione vocazionale

    Si sa che la vita cristiana – per tutti – è vocazione, perché ogni vita è vocazione. La catechesi contempla nella sua proposta anche la dimensione vocazionale per tutti i battezzati, anche se la riflessione comporta applicazioni specifiche nella esperienza ecclesiale ed umana.
    II tema vocazionale corre perciò lungo alcuni sentieri catechistici ben delimitati:
    – la vita di ciascuno è accompagnata da tanti doni e da tanti aiuti; è una ricchezza che lo Spirito elargisce alla Chiesa e a ciascun uomo, nessuno escluso, anche a quelli che possono apparire umanamente insignificanti o limitati. Tale acquisizione, si constata purtroppo qualche volta, non è del tutto scontata nella visione di pastori e catechisti;
    – il più importante di questi doni è l’amore. Imparare ad amare – come insegna Gesù – è la prima vocazione del cristiano. Questa esigenza nasce nel battesimo e continua a crescere nella cresima. Alla crescita di questa vocazione è finalizzata tutta l’educazione cristiana. I disabili sono i soggetti attivi di questa visione di fede, perché per loro metodologicamente vale proprio e di più la «teologia affettiva»;
    – le vocazioni nella Chiesa sono modi diversi, suggeriti dallo Spirito a ciascuno, di vivere l’unica vocazione all’amore cristiano. E tutti, compresi i disabili, nel rispetto delle specifiche esigenze esistenziali, possono essere soggetti che interpretano tali vocazioni;
    – costruire il proprio domani e imparare ad amare è un impegno (una vocazione) che urge nel credente fin da piccolo, a mano a mano che ascolta la parola del Signore e segue gli esempi di Gesù. II domani non è da «attendere» ma da «costruire», perché domani sarà come ci si impegna ad essere oggi. Molti esempi di disabili si collocano in questa visione progettuale della vita di fede.
    Si tratta, come si vede, di una linea di contenuti che potrà costituire l’ossatura portante della catechesi vocazionale e che i catechismi propongono nelle varie età evolutive con modalità diverse. La proposta deve essere pensata come situabile all’interno dell’itinerario sistematico del cammino di fede verso la maturità cristiana. Nulla vieta però che questa visione globale possa essere motivo di riflessione anche in momenti particolari vissuti intensamente, come settimane estive, campo-scuola, occasioni specifiche...
    La proposta suppone l’offerta di uno spazio nel quale ciascuno può essere aiutato a condurre avanti la riflessione personale, secondo le proprie capacità e nel confronto con modelli significativi. E può essere favorita da vari sussidi che la catechesi offre. Potrà diventare uno strumento prezioso per la conoscenza dei soggetti e potrà anche costituire la base per quel dialogo finale tra catechisti e catechizzandi che viene suggerito come impegno di vita.
    La catechesi quindi cerca di incontrare la realtà umana vocazionale dei battezzati, anche nei battezzati disabili, sia con la semplicità delle riflessioni, che con la vivacità dei segni (linguaggi vari, grafici, testimoniali) accompagnandone il cammino nei momenti di riflessione, di preghiera e di impegno.
    La genialità e la ricchezza spirituale e vocazionale del catechista sapranno considerare con più attenzione la realtà e la composizione del gruppo di catechesi; adattare alle esigenze dei propri catechizzandi il contenuto della proposta; completare, con altri spunti originali, la stessa proposta catechistica.
    Con queste attenzioni, può essere più facilmente raggiungibile un duplice obiettivo nella pastorale vocazionale, ma che si inserisce nelle finalità della pastorale ordinaria:
    – evidenziare meglio che il dono della vocazione è la modalità con cui il «progetto» che Dio da sempre ha pensato, diventa realtà nella storia personale di ogni uomo/donna;
    – rendere l’itinerario di catechesi un cammino fortemente «personalizzato», aiutando a porsi domande che saranno determinanti per il proprio futuro, ma soprattutto a rispondere alle stesse con la luce che viene dalla fede e dalla certezza che la vocazione sarà il vero tesoro da scoprire.


    T e r z a
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