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    Star system e identità nomadiche


    Fabio Pasqualetti

    (NPG 2002-05-48)

     

    Ci eravamo lasciati lo scorso numero con le seguenti domande. Quanto c’è di artistico e di originale nel mercato della musica? Che spazio rimane alle scelte musicali dei giovani quando il mercato discografico viene controllato da forti poteri di tipo economico? Perché le pop-rock stars hanno sempre un forte impatto sul mondo giovanile?

    La creazione del mito della giovinezza

    Anche se può sembrare esagerato, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo e collocarci agli inizi del Novecento, in quell’America che, abbracciando il capitalismo, promuoveva il consumismo a livello nazionale. Gli ideologi del consumismo di quel tempo, come ad esempio Stuart Ewen, sostenevano che le persone non dovevano più perdere il loro tempo in piaceri estranei al circuito delle merci; in altre parole, il consumatore doveva essere fabbricato contemporaneamente al prodotto. E quale categoria sociale poteva diventare il miglior bersaglio se non i giovani, visto che il clima culturale degli adulti era ancora troppo intriso di puritanesimo? [1]Nasce così il ruolo simbolico dei giovani, come sinonimo di rinnovamento e cambiamento rispetto alla tradizione: ai genitori era chiesto di andare incontro alle esigenze dei giovani perché erano loro gli artefici della nuova epoca; ed anche allora – come oggi – veniva messa in ridicolo l’incompetenza dell’adulto nei confronti delle nuove tecnologie emergenti. La casa cinematografica Paramount, nel 1922, sosteneva l’importanza di seguire i giovani e dichiarava che «fanno ai loro genitori tanto bene quanto questi ne fanno a loro… Senza i giovani, qualcuno di voi non saprebbe neanche quali enormi progressi la Paramount ha fatto fare al cinema». La pubblicitaria Helen Woodward dichiarò: «Ricordatevi che quello che vendiamo non è la bellezza ma la gioventù… Venderemo tutte le cose artificiali che esistono… e soprattutto le cose che rendono giovani, giovani, giovani!». [2]
    In questo modo si andava creando l’immagine dei giovani simbolo di rinnovamento, al di là delle classi sociali e in conflitto con il mondo adulto. La speranza che la gioventù potesse andare oltre la lotta di classe corrispondeva all’idea un po’ ingenua che il consumo di massa avrebbe sconfitto le distinzioni sociali.
    Il consumo ha sempre avuto una doppia faccia. La prima faccia, la più eccitante, iconizza il consumo come libertà di cambiamento. Helen Woodward vi vedeva il miglior modo per sublimare pericolosi impulsi di cambiamento a livello sociale ed affermava: «Alle persone che non possono cambiare vita o professione anche un vestito nuovo dà un senso di sollievo». [3]A suo parere molta gente non aveva né il coraggio né l’intelligenza necessari per operare cambiamenti profondi. La pubblicità diventava l’elemento caratterizzante la società libera proprio perché capace di proporre, di volta in volta, l’immagine appropriata. La seconda faccia del consumo, la meno percepibile ma la più subdola, contrabbandava come necessario il conformismo. Edward Bernays, precursore delle moderne tecniche di public relation, sosteneva che «la manipolazione cosciente e intelligente delle abitudini e delle opinioni delle masse costituisce un elemento fondamentale in una società democratica». Mentre l’economista Paul Nystron vedeva la produzione di massa come il canale di trasferimento dei valori della classe dominante alla classe operaia in quanto resa partecipe del fenomeno delle mode, e stigmatizzava colui che non si adeguava alle mode del consumo con queste parole: «Ci saranno sguardi perplessi, valutazioni critiche. Verrà giudicato privo di intelligenza e, qualche volta, persino indesiderabile. Se continuasse (a contravvenire alle norme di consumo), perderà il lavoro. Se commerciante, perderà i suoi clienti; se uomo politico, i voti… Perderà tutti i suoi amici». [4]
    Un altro aspetto da tenere presente è che il consumo avveniva nel tempo libero e pertanto si dissociava da quelle norme che regolano il mondo del lavoro o delle istituzioni, assumendo connotazioni più libere, trasgressive.
    In questo processo di liberalizzazione – tra gli anni ’30 e ’60 – anche le figure dei cantati e degli attori contribuirono a plasmare la nuova figura di consumatore, soprattutto con l’abbinamento della star al prodotto. «Nel suo studio sulle biografie nelle riviste popolari tra il 1901 e 1941, Léo Lowenthal ha constatato come ci sia stato in quel periodo un passaggio dagli ‘idoli di produzione’ (persone riuscite nel mondo degli affari, inventori, banchieri, ecc.) agli ‘idoli di consumo’. La loro vita privata è una vita di consumo. Secondo Lowenthal le star costituiscono dei modelli di consumo per tutti. Spendono di più ma, in piccolo, è possibile imitarli». [5]

    La costruzione della star musicale

    Non verrà mai sottolineato abbastanza la stretta connessione tra l’adozione di nuove tecnologie e la ri-definizione dei linguaggi umani. Un esempio particolarmente significativo, anche se spesso ignorato, è quello del microfono: prima dell’adozione di questo strumento esisteva un preciso rapporto tra qualità della voce, la sua potenza e il cantante; con l’avvento del microfono questi tre aspetti vengono completamente ridefiniti. Riportiamo un esempio illuminante riportato da Buxton nel suo libro Il Rock. Star-system e società dei consumi.
    Johnny Ray (1952) non aveva alcun talento, secondo il criterio di valutazione tradizionale, ed era lui stesso ad ammetterlo: «Non ho nessun talento, il mio modo di cantare è piatto come un tavolo». (…) Tony Palmer nel suo commento su Ray aggiunge: «… la tensione sulla scena sembrava travolgerlo oltre i limiti emozionali, ogni volta che compariva sul palco finiva in lacrime, esitava, soffocava, si mangiava le parole e si batteva il petto, si buttava in ginocchio, cercava disperatamente di strangolarsi e piangeva finché il suo pubblico non era soddisfatto… Il pubblico voleva esattamente ciò che Ray faceva». [6] Ray inglobava la tradizione nera dove musica, canto e corpo costituiscono un tutt’uno. Nella cultura musicale afroamericana l’emozione si esprimeva attraverso un canto che alle orecchie dell’uomo occidentale era percepito come rozzo, stonato, strozzato; ma, tessuto su di una sofisticata ritmica, esercitava un fascino esotico su molti giovani bianchi.
    La messa appunto dello star system avverrà con Elvis Presley. In Elvis si inizia ad enfatizzare carisma ed immagine piuttosto che talento. Sam Phillips fondatore della Sun Records e «creatore» di Elvis disse: «Se trovassi un uomo bianco con il sound e il tocco di un afroamericano, guadagnerei un milione di dollari». [7] In Elvis motivazioni artistiche e commerciali non sono separabili.
    Un altro aspetto tecnologico che determinò l’enfatizzazione dell’immagine fu la diffusione massiccia del disco. Il disco diveniva l’originale e il concerto una copia del disco. Il fatto che il pubblico avesse già assimilato ogni nota e parole delle canzoni gli permetteva di ascoltare mentalmente e concentrarsi sull’azione del cantante o gruppo preferito. Le tecniche della sala di registrazione mettevano però in serio pericolo i musicisti che dal vivo non potevano godere di tutti gli arrangiamenti e correzioni dello studio. In questo senso era necessario un nuovo tipo di spettacolo, d’immagine e di performance. La combinazione di questi tre elementi avrebbe compensato in alcuni casi la carenza di talento.
    Si apriva così la strada alla manipolazione e costruzione dell’immagine del cantante. La vera personalità e il talento dell’artista diventava persino secondaria rispetto all’immaginazione e alla creatività del produttore. In un certo senso si integrava il mondo della musica con quello del design e della moda, e il cambio di stile era intenzionale al fine di cambiare le tendenze della moda. In particolare la star musicale inizia a inglobare significati simbolici che vanno al di là della sua stessa persona. Pensate a Marilyn Monroe che incarna il mito della bellezza o ai Beatles simboli della sana, spensierata, esuberante gioventù inglese.
    Negli anni ’50 nasce in Gran Bretagna la cultura pop, in contrapposizione alla cultura alta o superiore. Nella nozione di pop veniva esaltato tutto ciò che era popolare, commerciale e di massa; gli oggetti che appartengono alla quotidianità acquistano nuovo rilievo e per questo li si evidenzia ponendoli in contesti diversi. Interessante ciò che l’artista/saggista John McHale dice circa lo spirito della cultura pop: «I criteri tradizionali di giudizio artistico tendono a valorizzare la permanenza, il carattere unico e il valore universale degli oggetti fabbricati. Questi criteri estetici corrispondono ad un mondo di beni artigianali destinati a piccole élite. Non ci permettono però in nessun modo di riallacciarci in maniera adeguata alla situazione attuale, in cui il numero astronomico di oggetti sono prodotti in serie, diffusi e consumati. Possono essere identici o diversi soltanto in modo marginale. A livelli differenti, sono sostituibili e sono del tutto privi di qualsiasi valore ‘unico’ e di qualsiasi ‘verità’ intrinseca… Le trasformazioni accelerate della condizione umana richiedono una serie di immagini simboliche dell’uomo che corrispondono alle esigenze di cambiamento costante, d’impressione effimera e di un alto tasso di obsolescenza. Noi abbiamo bisogno di una serie di icone sostituibili…». [8]
    Andy Warhol è l’artista che più di ogni altro intendeva l’arte come portatrice di un messaggio, veicolo per la celebrità e per la moda. «Il teatro di Andy Warhol è l’America – afferma Achille Bonito Oliva – dove la merce è la grande madre che accudisce il sonno, i sogni e gli incubi dell’uomo americano; che lo assiste in tutti i suoi bisogni, fino al punto di incentivare e creare altri nuovi consumi. La città è lo spazio, l’alveo naturale dell’American dream, inteso come sogno continuo di opulenza e di stordimento organizzato dalla merce. L’arte diventa il momento di esibizione splendente ed esemplare di tale sogno, la pratica alta che mette sulla scena definitiva del linguaggio lo stile basso delle immagini, prodotte dai mezzi di comunicazione di massa, dalla pubblicità e dagli altri strumenti di persuasione occulta ed esplicita dell’industria americana. In tale contesto l’accettazione estrema dei modi di vita della società contemporanea pone al primo posto della scala di valori il consumo, e di conseguenza all’interno di questa logica anche la pittura e l’arte in generale hanno senso in quanto rientrano nel circuito del consumo». [9] Lo stesso Warhol affermava che... un buon affare è la migliore opera d’arte.
    Secondo la logica di Warhol la celebrità e l’influenza viene esercitata da chi riesce a dominare con la propria immagine un medium. Tuttavia, le star sono allo stesso tempo il prodotto di un dinamismo che le fa emergere e, in rapida successione, le rende obsolete.
    Il concetto di star è progressivamente mutato passando attraverso periodi storici che di volta in volta ne hanno esaltato o diminuito l’importanza; una cosa però è rimasta costante, anzi è cresciuta enormemente, la cura dell’immagine. Si può dire che anche i movimenti più estremi come il punk o l’heavy metal hanno imparato a curare la loro immagine. Diminuendo progressivamente la possibilità di essere originali a livello musicale e aumentando sproporzionatamente la concorrenza, oggi il mondo della musica si trasforma in un terreno di guerra a colpi di immagine.

    Musica e stile di vita

    Gli anni ‘60 diedero alla musica rock un’impronta politica considerevole. La situazione economica americana degli anni ‘50 permise per la prima volta ad un’economia di sussistenza di trasformarsi, come abbiamo visto, in un’economia di consumo. Furono proprio i figli della borghesia che individuarono in questo clima di euforia economica i meccanismi di controllo sociale e culturale, e scelsero proprio il terreno culturale per sferrare la loro battaglia contro la cosiddetta way of life americana. L’accusa era puntata su un modo di vivere standardizzato e all’insegna del consumo.
    Secondo Charles Reich la musica rock è il mezzo principale d’espressione e comunicazione della nuova generazione. In un’intervista rilasciata alla rivista Rolling Stone, Reich dichiarava: «(il rock) è incredibilmente importante, in quanto è il linguaggio e il mezzo di comunicazione chiave per gli uomini della nuova coscienza, e particolarmente per i giovani. I kid hanno sviluppato un nuovo strumento di comunicazione, in qualche modo simile alla percezione extrasensoriale… Sono convinto che il rock attualmente sia un mezzo in grado di comunicare la quasi totalità di ciò che possiamo sentire o provare. La maggior parte degli artisti oggi sono musicisti rock. Sono certo che per molti di loro (Bob Dylan, Jefferson Airplane, Greateful Dead, Beatles, Rolling Stones) il rock oltrepassa il livello della coscienza generale della società». [10]
    La musica rock viene vista come un’esperienza totalizzate. I giovani la vivono con tutti i loro sensi. I concerti sono le loro liturgie. Il critico Ralph Gleason richiamandosi alle ideologie del consumo degli anni ’20 descrisse così le rock star: «Io credo che siano dei personaggi religiosi. Esse rappresentano l’anima della gioventù, di tutti i giovani senza distinzione di razza o di colore ed hanno svolto un ruolo molto importante nello sviluppo della visione che i giovani hanno di se stessi nel mondo. La radio e la musica rock appartengono ai giovani. La televisione ai loro genitori… gradualmente… la sovrastruttura della società si lascia trasformare dai giovani». [11]
    Le cose non andarono proprio così e la grande rivoluzione dei giovani si consumò presto; tuttavia dobbiamo riconoscere l’esattezza di queste intuizioni a riguardo della musica rock come linguaggio di identificazione e trasgressione, come esperienza totalizzante e a connotazione mistico-religiosa. Queste caratteristiche continuano tutt’oggi a far parte del fascino esercitato dalla musica rock sui giovani. La forza del rock risiede proprio nell’essere un medium a carattere orale e come tale – è McLuhan che lo sostiene parlando dei media elettronici – adatto alla formazione di comunità tribali. Basterebbe ricordare Woodstock, passata alla storia come mito di una comunità di giovani basata sui valori del rock. Non si può dimenticare l’uso della droga che caratterizzò soprattutto il rock dagli anni ’60 in poi. La stessa musica battezzata psichedelica raccoglieva l’idea naïf che l’uso delle droghe fosse necessario per esplorare nuovi spazi artistici.
    Le star diventavano un tutt’uno con lo spettacolo fatto di suoni, luci, voci e oblio. Proprio in questo periodo però prendeva forma una rivolta «romantica» di segno opposto, contro tutto ciò che era commerciale: i musicisti impegnati cercavano in ogni modo di distinguersi dall’atteggiamento borghese.
    Nel 1967 esplose l’ideologia «dell’amore» raccolta soprattutto dalle comunità hippy di S. Francisco. I musicisti svolsero un ruolo fondamentale nella diffusione di questa ideologia. I Beatles registrarono All you need is love che, ritrasmesso via satellite, giunse a più di 700 milioni di persone. Ma poi, delusi dalla rivoluzione hippy, molti artisti del calibro di John McLaughlin, Santana, Pete Townshend e gli stessi Beatles si rivolsero alle religioni orientali diventandone allo stesso tempo promotori. Contemporaneamente gruppi come i Doors e i Velvet Underground esploravano i temi della trasgressione del disordine.

    Il fatto nuovo dunque, emergente già sulla scena degli anni ’60, è questo: le rock star erano diventate propositrici di stili di vita. All’interno di una realtà complessa e nonostante le loro contraddizioni, esse rappresentavano per i giovani, e in parte ancora oggi rappresentano, i punti di riferimento di tipo estetico-ideologico e comportamentale. Non si deve dimenticare infatti che la musica rock portava con sé anche la riscoperta della corporeità, tema caro ai giovani che sperimentano sulla loro pelle le mutazioni tipiche della loro età.
    L’industria discografica americana ha sempre tenuto d’occhio queste relazioni tra idoli musicali e giovani. Non è per caso infatti che già negli anni ’60 – con il rock che incarnava valori alternativi alla cultura del consumo – i giovani abbiano raggiunto livelli di consumo mai visti (il volume d’affari delle case discografiche triplica passando da 800 milioni di dollari nel 1965 a 2360 nel 1975).
    Questa realtà complessa e contraddittoria ci fa intravedere come sia impossibile separare in modo netto le strategie di marketing dell’industria dai fermenti e dalle strategie alternative a livello musicale.
    Gli anni ’70 per vari aspetti furono considerati come un lento ma continuo declino del rock. Il sussulto punk del ’77 si riallacciava ai fermenti di controcultura che avevano caratterizzato gli anni ’60. La critica punk come altre controculture giovanili si ridusse sostanzialmente ad una contestazione stilistica. Come conseguenza «l’anti-stile» punk fu ben presto riassorbito nel circuito dell’industria e riproposto come «stile punk». Ad un anno dalla rivolta si poteva già trovare lo «stile punk» nelle boutique.
    «Gli stili culturali giovanili – osserva Dick Hebdige – possono cominciare col dar vita a sfide simboliche, ma devono inevitabilmente finire con la costituzioni di un nuovo apparato di convenzioni; con la creazione di nuovi oggetti di consumo, di nuove aziende oppure con la rivitalizzazione di alcune di quelle vecchie (pensate alla spinta che il punk deve aver dato alle mercerie!). Ciò accade indipendentemente dall’orientamento politico della subcultura: i ristoranti macrobiotici, i negozi di artigianato e i ‘mercati dell’usato’ dell’epoca hippy sono stati tranquillamente cambiati in boutique punk e in negozi di dischi. Accade anche indipendentemente dal contenuto sensazionale dello stile». [12]
    Tuttavia il punk ha rinnovato il contatto tra artista e pubblico. Puntando più sull’esperienza che sulla tecnica, ha riportato la voglia d’improvvisazione e sperimentazione durante il concerto. In opposizione ad un rock raffinato ma stanco, il punk si proponeva come energia allo stato puro.
    Robert Fripp chitarrista e leader dei King Crimson spiega così le ragioni dello scioglimento di questo super gruppo: «Il mondo sta cambiando. Noi viviamo in un periodo di transizione tra il vecchio mondo e il nuovo. Il vecchio era caratterizzato da quello che un filosofo contemporaneo ha definito ‘la civiltà dei dinosauri’. Unità enormi, massicce, non molto intelligenti, proprio come i dinosauri. Un esempio nel campo della politica, può essere una superpotenza come gli Stati Uniti. Oppure, nell’ambito musicale, un supergruppo rock, con decine di tecnici, tonnellate di materiale, milioni di dollari d’investimenti. Tali unità, all’origine, sono nate per rispondere ad un bisogno reale. Poi si sono messe a fabbricare bisogni artificiali per prolungare la loro esistenza. In altri termini sono divenute dei vampiri. Il nuovo mondo appartiene alle piccole unità mobili, indipendenti e intelligenti. Al posto delle città, comunità che si organizzano da sole, una versione moderna dei villaggi. Al posto di un grande gruppo come i King Crimson, una piccola unità mobile, indipendente, intelligente». [13]
    Questo testamento divenne il credo di vari musicisti punk. Ma anche in questo caso l’utopia non durò molto e gli anni ’80 videro il ritorno dello star system con personaggi come Madonna e Michael Jackson a dominare la scena della cultura giovanile. Fu anche il ritorno del «rock genuino» con figure come Bruce Springsteen, i R.E.M., gli U2.
    Negli anni ’80 il mondo della musica e dei giovani esplode in una miriade di gusti, generi e stili, a tal punto che diventa pressoché impossibili classificarli e ricondurli sotto il nome di rock music.

    Nuovi immaginari mediatici: la MTV

    Gli anni ’80, sono anche gli anni della videomusic rappresentata nel bene e nel male dalla comparsa nel mercato mediale di MTV.
    «Con MTV cambiava il concetto stesso di star del mondo musicale. La televisione privilegiava naturalmente quello che la radio o i dischi non potevano offrire, la persona fisica del cantante o del musicista. Il videoclip era un cortometraggio con la colonna sonora del gruppo in questione: poteva raccontare una storia o essere semplicemente un piccolo documentario sulla band, con inquadrature sensuali, primi piani da cartolina o riprese sulle acconciature e gli effetti speciali. Inoltre i videoclip permettevano interventi e manipolazioni di ogni genere sull’immagine dei nuovi divi che spesso venivano rappresentati come celebrità prima ancora di diventarlo, solo per attirare l’attenzione dei fan o dei media stessi. (…) trionfava la messa in scena: attraverso il culto dell’apparenza lo spettacolo pop rivendicava il suo carattere di gioco. Erano i primi anni’80, l’epoca dell’effimero, della superficialità e del cosiddetto vuoto culturale in cui ciò che più contava era avere un’immagine, e grazie a questa raggiungere la fama». [14]
    Accusare MTV di aver ulteriormente anestetizzato la forza rivoluzionaria del rock riducendolo a pop e soggiogandolo alle leggi ferree delle case discografiche è una visione ristretta e riduttiva.
    Come abbiamo visto da questo percorso, la connivenza della musica rock con il mercato è presente fin dalle origini. Gli stessi giovani sono stati oggetto di particolare attenzione e vezzeggiati dall’industria discografica. MTV catalizza in se molte variabili: la crisi del mercato discografico, il moltiplicarsi delle modalità di ascolto della musica da parte dei giovani, il cambiamento sociale e politico sulla scena mondiale, la crisi ormai cronica delle istituzioni come la famiglia e la scuola, la diffusione di Internet, ecc.
    I giovani, come dicono Walker Smith e Clurman, «fanno scelte attingendo da molte forme. Hanno visto tutto e hanno accesso a tutto. E utilizzano tutto. È una generazione con ben più ampia varietà di influssi che appartengono e provengono da ogni gruppo etnico, da tutte le generazioni, da entrambi i sessi, da ogni cultura. La corrente principale è una corrente promiscua». [15]
    Il linguaggio di MTV rappresenta quindi lo stile del clima culturale in cui i giovani vivono. Stile descrivibile con parole come «versatilità», «flessibilità», «riadattamento», «ricomposizione», «campionamento», «bricolage», «sovrapposizione», ecc… Gli stessi stili musicali – dagli anni ’80 in poi fino ad oggi – si sviluppano all’insegna della contaminazione stilistica.
    Potremmo sintetizzare tutto quello che abbiamo detto con una citazione che si commenta da sé, tratta da «Tribe Generation», una delle tante riviste musicali che i giovani usano per conoscere e approfondire i loro gusti musicali. All’interno del servizio Primo Piano sulla cantante Shakira Nicolò Rosti Rossini commenta così: «Con oltre 8 milioni di copie vendute è la cantante latina del momento.
    È Shakira, è colombiana e con i suoi primi due dischi ha conquistato il Sudamerica. Adesso vuole diventare una star anche in Europa e in America. Laundry Service è il suo primo album in inglese. Qualcuno la definisce un mix tra Spears e la Aguilera, ma il mercato a cui punta è quello di Jennifer Lopez…». [16]

    Alcune riflessioni per gli educatori

    Anche se il tema meriterebbe un maggiore approfondimento, penso che si possano già proporre alcune riflessioni importanti.
    È emerso con evidenza che esiste un complesso intreccio tra musica, star e consumo.
    All’interno di questo intreccio, nonostante le contraddizioni, è però rimasto uno spazio dove hanno trovato espressione le istanze, le speranze e le critiche dei giovani (anche se spesso solamente a livello estetico).
    Pertanto possiamo continuare a pensare che la musica giovanile – anche se fortemente vincolata alle leggi di mercato – resta un linguaggio attraverso il quale i giovani si rappresentano e si esprimono.
    In questo complesso intreccio lo spazio per l’originalità, le scelte alternative, la creatività è condizionato anche da altri fattori e più generalmente dal clima culturale generale. La storia del rock è anche storia che registra i cambiamenti culturali, così se gli anni ’50 sono caratterizzati da un clima generale di euforia e divertimento, gli anni ’60 sono invece caratterizzati dalle utopie di pace e di amore.
    Man mano che ci allontaniamo dagli anni ’60 si assiste ad una progressiva frantumazione del paesaggio giovanile, ad una crescente mescolanza culturale, ed una continua contaminazione musicale dovuta anche alla concomitante globalizzazione dei mercati. A questo si aggiunga che la necessità di mantenere in vita un mercato sempre più esigente ha posto ritmi di produzione e consumo che rendono obsoleto qualsiasi prodotto nel giro di poco tempo.
    Da una parte si vede come i giovani vivano con la musica un rapporto comunque imperniato sulla ricerca e relazione con nuovi idoli e nuove star. Nell’attuale clima di esasperazione delle immagini gli artisti puntano ad estremizzare stili e comportamenti: per esempio Eminem e Marilyn Manson. Contemporaneamente i giovani d’oggi sembrano capaci di relativizzare le proprie star e di stare al gioco, consapevoli che anch’esse che tra poco tramonteranno come ogni altro prodotto che consumano.
    Per noi educatori rimane quindi importante monitorare questi processi di identificazione, dis-identificazione e re-identificazione che i giovani attuano velocemente passando da un’esperienza all’altra. Nel momento in cui avvengono questi processi il giovane comunque vive e crede a ciò fa e dice. Allo stesso tempo, come ho ripetuto più volte nei precedenti articoli, è importante che l’educatore continui a rimanere aperto al dialogo e alla ricerca. Del resto l’educatore vive lo stesso clima culturale apparentemente caotico e fluido dei giovani e non è immune alla difficoltà di trovare anch’egli punti solidi di riferimento. L’attitudine nomadica sviluppata nei giovani è spesso dettata da questa ricerca di identità che sentono irrinunciabile, ma che non è facilmente attuabile all’interno di una cultura di consumo dove tutto è effimero e passeggero.
    Allo stesso tempo è necessario che gli educatori sappiano agire a livello di proposte esperienziali che facciamo maturare i giovani sviluppando in essi la capacità critica nei confronti di se stessi e di tutto ciò che gli viene proposto. Questo non vale solo per la musica, ma per la cultura, la politica. La sfida oggi è l’educazione ad una vita cristiana che aiuti a vivere nel contesto attuale le proprie scelte, a viso aperto, senza demonizzare ma anche senza appiattirsi ciecamente su quanto il mercato e lo star system pretendono di imporre.

    Nel prossimo numero ci addentreremo nelle dinamiche rituali del concerto. Analizzeremo una delle «liturgie» più amate dai giovani appassionati di musica, dove trovano spazio per partecipare, celebrare la «comunità» e rinsaldare il loro credo.
    Hasta luego!

     
    NOTE

    [1] Cf Buxton D., Il Rock. Star-system e società dei consumi, Roma, Edizioni Lakota, 1987, p. 37.

    [2] Ewen E. – S. Ewen, Americanization and Consumption, in «Telos» 37, Fall 1978, p.45, citato in Buxton, Il rock, p. 39.

    [3] Ewen E. – S. Ewen, p. 93, citato in Buxton, Il rock., p. 41.

    [4] Ewen E. – S. Ewen, p. 93, citato in Buxton, Il rock, p. 40.

    [5] Buxton, Il rock, p. 47.

    [6] Buxton, Il rock, p. 50.

    [7] Middleton R., Studiare la popular music, Milano, Feltrinelli, p. 39-40.

    [8] John McHale citato da Buxton, Il Rock., p. 71.

    [10] Buxton, Il Rock, p. 88.

    [11] Buxton , Il Rock, p. 89.

    [12] Hebdige D., Sottocultura, Genova, Costa & Nolan, 1983, p. 105.

    [13] Le monde de la musique, 23 marzo 1980, p. 56-57.

    [14] Denti F. – F. Saulini, Teen idols, Roma, Castelvecchi, 1999, p. 145.

    [15] Walker Smith J.-A. Clurman, Dal cavallo a dondolo al computer. Il marketing generazionale, Milano, Baldini & Castoldi, 1998, p.119.

    [16] Rossini N.R., Primo Piano: Shakira, in Tribe generation, Milano, W.W.S. Publishing n.41 p. 28.


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