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    «Mangiare la Cena del Signore»: per un’Eucaristia autentica e feconda


    Luis A.Gallo

    (NPG 2002-08-39)


    L’Eucaristia continua ad essere uno dei momenti forti della vita di fede dei cristiani. Lo è stata per quasi due millenni, e lo è ancora oggi. Un filo rosso unisce le celebrazioni, vivaci e piene di freschezza, delle prime comunità credenti in Gesù morto e risorto, e quelle dei giorni nostri. Eppure, non si possono nascondere le difficoltà in cui essa s’imbatte attualmente, in buona parte dovute al profondo cambiamento culturale avvenuto negli ultimi decenni.
    Occorre ripensarla per rivivificarla. Occorre certamente tornare alle origini, in cui la fede trova la parola normativa per sempre. Non però per fare dell’archeologia, ma per calare quella parola nell’oggi della storia. Intendiamo con queste pagine dare un contributo a tale ripensamento.

    Un negativo di fotografia

    Nel Nuovo Testamento si accenna diverse volte a quella realtà che noi oggi usiamo chiamare “Eucaristia” o, in forma più popolare e diffusa, “la santa messa”.
    Gli studiosi di solito ritengono che le narrazioni dell’ultima cena di Gesù con i Dodici tramandate dai vangeli sinottici (Mt 26,20-29; Mc 14, 17-25; Lc 22,20) siano racconti di istituzione dell’Eucaristia, che abbiano un senso eucaristico il lungo discorso del capitolo sesto del vangelo di Giovanni (Gv 6,26-58) e le cinque narrazioni della moltiplicazione dei pani dei quattro vangeli (Mt 15-20; Mc 6,35-43; 8,1-9; Lc 9,12-17; Gv 6,5-13), i testi di At 2,42.46; 20,7.11, come anche quelli della Prima Lettera ai Corinzi (1 Cor 10,10-17; 11,17-34).
    Di questi testi i più antichi sono i due della Prima Lettera ai Corinzi (scritta da Paolo attorno all’anno 57, prima che fossero scritti i Vangeli e gli Atti degli Apostoli), e tra i due il secondo (1 Cor 11,17-34) è chiaramente il più lungo e anche il più articolato. Esso merita un’attenzione particolare in quanto testimone privilegiato del senso più originario dell’Eucaristia.
    Si potrebbe dire che tale testo è come un negativo della fotografia delle celebrazioni eucaristiche compiute dalle prime comunità cristiane. Negativo, nel senso che mette crudamente davanti agli occhi ciò che non deve essere un’Eucaristia. Occorrerà perciò poi svilupparla in positivo per poter farsi un’idea di ciò che veramente è, e quindi di come deve essere vissuta l’Eucaristia.
    Si tratta di un serio richiamo che Paolo fa alla comunità di Corinto, da lui stesso fondata, la quale pretende di “mangiare la Cena del Signore”, ma in realtà, come egli stesso sentenzia crudamente, fa un’azione che “non è più mangiare la cena del Signore” (v.20) e, per di più, “non è per il meglio, ma per il peggio” (v.17).
    È conosciuto il modo in cui le prime comunità credenti celebravano l’Eucaristia o Cena del Signore. Negli Atti degli Apostoli si dice semplicemente che “erano assidui alla frazione del pane” (At 2,42), e che essi “spezzavano il pane nella casa” (At 2,46). Dalla lettera di Paolo a cui ci stiamo riferendo si deduce che le comunità effettuavano un vero convito nel quale, come ricorda ancora l’Apostolo un po’ più avanti nella stessa lettera, intendevano far memoria del momento vissuto da Gesù nell’ultima cena fatta con i suoi apostoli prima di congedarsi (vv.23-25). Da ciò che egli dice nel cap.14 si capisce che dovevano essere delle riunioni molto dinamiche, quasi effervescenti. Egli infatti sente il bisogno di chiedere che vi sia un po’ di ordine e di sensatezza, affinché tutto contribuisca alla crescita della comunità.
    Nel testo in questione Paolo pronunzia in maniera tassativa un giudizio doppiamente negativo sull’Eucaristia vissuta dalla comunità di Corinto: negativo per quel che riguarda la sua autenticità, e negativo per quel che riguarda la sua efficacia.
    Anzitutto, per quel che riguarda l’autenticità: “Il vostro non è più un mangiare la cena del Signore” (v.20). Come a dire: voi pretendete di fare ciò che fece Gesù nella sua cena di congedo, ma in realtà non lo fate; la vostra è una pretesa vana, la messa in scena di una bugia. Poi, per quel che riguarda l’efficacia: “Le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio” (v.17). Come a dire: ciò che fate vi fa più male che bene, ha un’efficacia negativa.
    Senza forzare, si può facilmente vedere lo stretto collegamento esistente tra le due cose: proprio perché il loro celebrare la cena del Signore è falso produce degli effetti negativi. Paolo dirà perfino, alla fine dello stesso capitolo, che “è per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti” (v.30). Un modo di far toccare con mano l’efficacia negativa che ha una cena eucaristica inautentica.
    È molto importante rilevare le motivazioni sulle quali l’Apostolo fonda questo suo giudizio. Dice, infatti: “Quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi” (v.18), e poi: “Ciascuno infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto, e così uno ha fame e l’altro è ubriaco” (v.21).
    La prima riguarda i rapporti tra le persone: sono improntati alla divisione tra le persone; quindi, alla mancanza di unione tra di esse. Con ogni probabilità Paolo si riferiva concretamente a ciò che dice all’inizio della lettera: “Mi è stato segnalato a vostro riguardo, fratelli, […] che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: ‘Io sono di Paolo’, ‘Io invece sono di Apollo’, ‘E io di Cefa’, ‘E io di Cristo!’ (1 Cor 1, 11-12). Probabilmente l’aver aderito ai diversi predicatori del vangelo, con le loro caratteristiche peculiari, fino ad averli convertiti nei loro punti esclusivi di riferimento, creava contrapposizioni tra i gruppi e tra le persone in seno alla comunità, causando quella mancanza di “perfetta unione di pensiero e d’intenti” che egli proponeva come ideale immediatamente prima (v.10).
    Se si pensa all’ideale di comunità credente in Cristo che tratteggerà qualche anno più tardi Luca in At 2,32, si coglie facilmente quanto la comunità a cui si rivolge Paolo ne sia distante. Là, infatti, si dice che “la moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola”, esplicitando così uno dei quattro pilastri sui quali poggiava l’edificio intero della comunità, la comunione fraterna (At 2,42); qui, invece, si afferma che essi sono divisi tra di loro, che non sono, quindi, in comunione, ma i loro cuori e le loro anime sono separati e contrapposti. Si radica anzitutto qui, pertanto, il giudizio di Paolo sull’inautenticità dell’Eucaristia e sulla sua conseguente efficacia negativa.
    La seconda motivazione che egli allega si riferisce al rapporto delle persone con le cose o, se si vuole, al rapporto tra le persone tramite il loro rapporto con le cose: è improntato non alla condivisione, ma all’accaparramento e alla conseguente esclusione. Dice ancora, con grande schiettezza: “Ciascuno infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, e l’altro è ubriaco” (1 Cor 11,21).
    Anche da questo punto di vista la comunità dei Corinzi è agli antipodi dell’ideale prospettato da At 4,32-35 dove, completando ancora l’esplicazione della comunione, si dirà che “nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune […]. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno”. Nella comunità dei Corinzi, invece, c’è chi considera esclusivamente suo ciò che porta alla cena, non lo mette in comune ma lo tiene avidamente per sé, lasciando di conseguenza altri in condizione di bisogno: mentre uno ha mangiato e bevuto sino alla sazietà, accanto a lui un altro ha fame.
    Anche questo modo di fare rende inautentica la celebrazione dei Corinzi, e fa sì che essa produca degli effetti negativi. Essi pretendono di celebrare la cena del Signore, ma in realtà celebrano nel vuoto. Il loro gesto, pur nella loro materialità rituale probabilmente ineccepibile, è mancante di contenuto. Come dirà S. Tommaso d’Aquino tredici secoli più tardi riferendosi ai cristiani che celebrano l’Eucaristia senza avere nel loro cuore l’amore fraterno, essi “celebrano una falsità”.

    La fotografia sviluppata

    Un negativo di fotografia svela, una volta sviluppato, la vera immagine che si è colta nello scattarla. Sviluppando il testo di 1 Cor 11,17-34 si potrà, quindi, ravvisare il genuino volto dell’Eucaristia.

    * Un primo tratto che appare è che essa è un’azione, non un cosa. Non è neanche un semplice atto di preghiera o di adorazione del Signore risorto, ma è un’azione conviviale, un mangiare insieme festivo. E in quanto tale viene compiuta ponendo quei segni e assumendo quegli atteggiamenti che le conferiscono un carattere di convivialità. Principalmente la comunitarietà (non si banchetta da soli), e una certa dose di ritualità (non si mangia come nella vita ordinaria, ma in una maniera diversa, festiva).

    * Un secondo tratto è che tale azione conviviale è segno di qualcosa che solo la fede dei partecipanti coglie, perché appartiene al suo mondo. Essa è per chi crede “la Cena del Signore”, cioè la celebrazione-memoria di quell’ultima cena che Gesù fece con i suoi Apostoli. E proprio in quanto tale è segno di comunione.
    Una comunione che si apre in due direzioni complementari: con il Signore risorto, e tra i membri della comunità.
    Nel cap.10 della stessa lettera Paolo pone ai Corinzi una domanda mirata a farli prendere coscienza di ciò che avviene quando, nel cuore della Cena del Signore, mangiano il pane e bevono al calice: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?” (1 Cor 10,16). Ciò che essi fanno, quindi, quando mangiano il pane spezzato e bevono il calice benedetto, non è un mangiare e un bere comune e corrente, ma un mangiare e un bere sovraccarichi di un senso “altro”: è un entrare in comunione con la persona stessa del Risorto. Il pane e il vino che si benedicono sono più del pane e del vino: sono, per la fede, la presenza viva di Colui che è morto dando totalmente se stesso ai fratelli, ed è stato risuscitato dal Padre con la potenza del suo Spirito. Sono le parole stesse dette da Gesù durante la sua ultima cena, secondo la tradizione raccolta da Paolo (1 Cor 11, 25-26) e tramandata anche dagli evangelisti sinottici (Mt 26,26-27; Mc 14,22-24; Lc 19,19-20), quelle che fondano tale convinzione. Ingerendo quel pane e quel vino, quindi, essi entrano in stretto contatto con questa sua presenza, entrano in comunione con lui.
    Si tratta, come si vede, di un discorso eminentemente metaforico. Non nel senso che spesso viene dato a questo termine, e cioè come se si trattasse di un discorso riferito a qualcosa di irreale, ma nel senso più genuino che ha la metafora, quello di un discorso che “porta oltre” ciò che è ovvio e scontato.
    La fede sa che ciò che ha tra le mani – il pane e il vino – sono realtà di questo mondo, “frutto della terra e del lavoro degli uomini”, ma asserisce anche che essi sono qualcosa di “altro”, qualcosa che è estremamente reale, ma di una realtà “altra”. E sa ancora che, proprio perché essi sono in questo modo il corpo e il sangue del Risorto, mangiarli e berli significa entrare in comunione personale con lui. Per Paolo ciò è così evidente, che nel suo discorso di denuncia sull’inautenticità dell’Eucaristia dei Corinzi li ammonisce ed esorta perentoriamente: “Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1 Cor 11,28-29).
    Ma oltre ad essere segno della comunione con il Signore risorto, la Cena del Signore è anche segno di comunione tra coloro che vi partecipano.
    Mangiare e bere insieme, soprattutto mangiare e bere festivamente, convivialmente, è, da un punto di vista antropologico, un chiaro gesto di condivisione delle proprie persone e delle proprie cose. Il pane e il calice non rimangono proprietà esclusiva di qualcuno, ma divengono proprietà di tutti. Il pane viene spezzato per essere consegnato a ciascuno, e il calice viene fatto circolare per essere bevuto da ognuno. Non avrebbe senso che qualcuno lo ritenesse soltanto per sé, emarginando gli altri dal loro godimento.
    Nella Cena del Signore questo gesto acquista, per la fede, un senso immensamente più profondo: è segno di quell’avere “un cuor solo e un’anima sola” e di quell’“avere tutto in comune” di cui parlano gli Atti degli Apostoli (4,32-35) e che abbiamo già ricordato; rende visibile e palpabile quella dimensione nuova che comporta l’essere “una cosa sola”, oggetto del desiderio e della preghiera di Gesù nella sua ultima cena. Essere “una cosa sola” nel modo in cui egli e il Padre lo sono, secondo quelle parole riportate da Giovanni: “Che tutti siano una sola cosa, come tu, Padre, sei in me e io in te” (Gv 17,21). Si tratta di una comunione la cui densità si misura su quella esistente tra lo stesso Gesù e il suo Padre: “Tutto ciò che è mio è tuo, e tutto ciò che è tuo è mio” (Gv 17,10), a cominciare, ovviamente, dalla sua stessa persona.

    * Il terzo tratto rivelato dal testo paolino letto “in positivo” è che la celebrazione della Cena del Signore è tanto più autentica e tanto più feconda quanto più intensa è la comunione esistente tra le persone che vi partecipano. È così che essa risulta vera, e non finta.
    Ciò presuppone una vita quotidiana di fraternità come quella che Paolo prospettava ripetutamente ai destinatari delle sue lettere. Basta ricordare, tra tantissime altre, la raccomandazione che rivolge ai cristiani della comunità di Filippo: “Rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fl 2,5).
    Era un modo in cui l’Apostolo rendeva concreto il comandamento nuovo dato da Gesù proprio nella sua ultima cena: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34); “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati” (Gv 15,12.17).
    È questo amore – potremmo chiamarlo amore “feriale” – che viene elevato a “festivo” nell’Eucaristia. Essa celebra perciò la vita. Non però qualunque vita, ma quella vita vissuta all’insegna della comunione fraterna, che è condivisione dei cuori e delle anime, ma anche condivisione dei beni che si possiedono. Si potrebbe dire che tale vita è come la farina con cui si impasta il pane o come gli acini con cui si confeziona il vino dell’Eucaristia, che le danno consistenza e autenticità.
    Se quindi, come diceva S. Tommaso, i cristiani che celebrano l’Eucaristia senza amore fraterno celebrano una menzogna, si dovrà dire, per contrapposizione, che nella misura in cui coloro che la celebrano hanno “ammassato” fraternità nella loro vita di ogni giorno, tanto più la rendono veritiera e autentica.

    * Un quarto tratto che si coglie nel testo di Paolo è il rapporto tra l’Eucaristia e la morte del Signore. Dice infatti l’Apostolo: “Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore” (1 Cor 11,26).
    Il nesso cronologico tra l’ultima cena di Gesù e la sua passione e morte è chiaro nei testi evangelici. Il momento in cui la collocano all’interno della sua vicenda lo dice palesemente.
    C’è però qualcosa che va al di là della cronologia. Lo si potrebbe identificare come qualità sacrificale della cena. È data, anzitutto, dal fatto che, molto probabilmente, quella di Gesù fu una cena pasquale, nella quale gli ebrei mangiavano l’agnello in memoria della liberazione dalla schiavitù dell’Egitto. Il sangue dell’agnello immolato li aveva liberati dallo sterminio aprendo loro le porte della libertà (Es 11,11-12). Con il suo sacrificio aveva dato loro vita e libertà.
    Ma è anche e senza dubbio manifesta negli oggetti da Gesù utilizzati nella cena: il pane “spezzato” e il vino “consegnato” sono, secondo le parole che li accompagnano, simboli del suo corpo “dato” (1 Cor 11,24; Lc 22,19) e del suo sangue “versato”, “effuso” (Mt 26,28; Mc 14,24; Lc 22,20; 1 Cor 11,25). Corpo e sangue stanno, ovviamente, per la persona stessa di Gesù. Una persona “spezzata” e “donata”. Non, quindi, “ritenuta avidamente per sé” (Fl 2,6), ma consegnata generosamente agli altri e per gli altri.
    è forse il vangelo di Giovanni, unico vangelo che non riporta la narrazione della cosiddetta “istituzione dell’Eucaristia”, quello che ha evidenziato meglio quale sia il senso sacrificale della cena, anticipatore di quello della croce. Esso colloca nel cuore della cena la scena della lavanda dei piedi dei discepoli fatta da Gesù (Gv 13, 1-17).
    La introduce con un’affermazione carica di solennità e densa di significato: “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (v.1); e nella sua conclusione introduce queste altre parole del Signore non meno solenni e dense: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,14-15). Il suo sacrificio, visto alla luce di quest’azione simbolica e delle parole che l’accompagnano, consiste quindi nel suo mettersi a servizio dei suoi discepoli. Lavare i piedi era, infatti, un compito che svolgevano nei banchetti i servi. Per realizzarlo, Gesù dovette in qualche modo decentrarsi, ossia spostare il centro da se stesso verso i suoi, verso gli altri. Ed è in ciò che consiste precisamente l’amore (agápe) da lui proposto come ideale e chiave di volta dei rapporti tra le persone e i gruppi umani (Gv 13,34; 15,2.17). Il vero amore richiede questo sacrificio di sé, del proprio egoismo, del ripiegamento su se stessi, per poter aprirsi ed essere disponibile agli altri.
    Celebrando la Cena del Signore, i suoi discepoli “proclamano la morte del Signore” con ciò che fanno. Il loro banchetto fraterno è perciò in se stesso sacrificale. Esso riedita, tramite la spartizione del pane spezzato e la condivisione del vino consegnato, il senso più profondo della sua morte. È così che essi danno una risposta viva e reale alla sua esortazione riportata da Luca e Paolo: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1Cor 11,24.25). Il “questo” dell’invito non è tanto il rito nella sua materialità, quanto piuttosto il suo significato profondo.

    * Un quinto e ultimo tratto rivelato dal testo paolino è quello escatologico. L’affermazione dell’Apostolo che ricollega la Cena del Signore con la sua morte conclude, infatti, specificando: “finché egli venga” (1 Cor 11,26).
    La tensione verso un futuro di compimento pieno del regno di Dio proclamato da Gesù come imminente (Mt 4,17; Mc 1,15) è una nota costitutiva della fede dei suoi discepoli. Si sa con quanto fervore le loro prime comunità lo attendevano. Paolo dovette perfino intervenire in più di un caso per temperarlo, perché raggiungeva dei livelli inaccettabili, come si vede soprattutto nella seconda lettera ai Tessalonicesi (2 Tes 2,1-15). Al di là di tali esagerazioni, l’insistenza sull’attesa di un tale futuro è palese negli scritti neotestamentari.
    La Cena del Signore si colloca nello spazio intermedio tra quel futuro di pienezza e il presente della precarietà e della provvisorietà. Ma si colloca proprio sul versante del futuro, perché in qualche modo lo anticipa indicandone la direzione.
    Più di una volta i Profeti dell’Antico Testamento sognarono poeticamente il futuro della Promessa di Dio servendosi della metafora del banchetto. Classico tra tutti è il testo di Is 25,6-10, che si apre appunto annunciando: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati” (v.6). Gesù stesso si servì di tale metafora per parlare del futuro regno di Dio (Mt 8,11; 22,1-10; Lc 13,29). La Cena del Signore, purché celebrata con autenticità, è un’attuazione vera e reale, anche se parziale e provvisoria, di quell’altra in cui “il padrone [...] si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12,37). Perciò essa è come un pungolo nella carne della comunità, che la stimola a continuare a camminare nella stessa direzione senza mai stancarsi né fermarsi.
    Di Eucaristia in Eucaristia la comunità cristiana è chiamata a camminare senza stancarsi fino al raggiungimento dell’Eucaristia definitiva, quella in cui “molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,11).

    Evoluzione posteriore

    La densa ricchezza dell’Eucaristia contenuta nel riferimento di Paolo alla Cena del Signore dei Corinzi andò soggetta, come tutte le altre componenti della fede ecclesiale, al processo di ricomprensione richiesto dalle circostanze storiche in cui la stessa fede venne a trovarsi lungo i secoli. Un processo che portò ad accentuare alcune sue dimensioni a preferenza di altre, non sempre conservando sia la ricchezza degli inizi che la sua genuina comprensione.
    La storia ci informa di due principali crisi eucaristiche che lasciarono profonde tracce nella vita della chiesa: quelle provocate da Berengario nel sec. XI, e da Lutero nel sec. XVI.
    Berengario di Tours sembra aver sostenuto, in una sua opera perduta intitolata De sacra coena, che la presenza di Cristo nell’eucaristia è solo simbolica, intendendo così contrapporla ad una sua presenza vera e reale. Ciò scatenò aspre reazioni da parte degli altri teologi dell’epoca, perché intaccava una delle convinzioni profondamente radicate nella fede della chiesa fino ad allora. La sua dottrina fu condannata in un sinodo del 1079.
    Come spesso accade, alla negazione di un aspetto della fede segue una intensificazione della sua affermazione, alle volte anche con il conseguente squilibrio dell’insieme. Ciò avvenne precisamente nei confronti dell’Eucaristia dopo gli attacchi di Berengario: si misero in opera svariati mezzi dottrinali e cultuali per sottolineare la presenza reale di Cristo nel pane eucaristico (di meno nel vino).
    Nel campo teologico si incrementarono le difese di tale presenza, concentrando quasi esclusivamente in essa le riflessioni sull’Eucaristia, che divenne così sempre più, nella concezione dei cristiani, piuttosto una “cosa” che una “azione”. Nel campo cultuale si fomentò il desiderio di “vedere” l’ostia consacrata (alle volte senza quasi più “mangiarla”), si moltiplicarono le manifestazioni di adorazione al Signore presente (“prigioniero”!) nel tabernacolo, si organizzarono delle feste liturgiche mirate a evidenziare tale presenza (Corpus Domini), si favorirono le processioni con il Ss.mo Sacramento e le visite al tabernacolo. Non mancarono neppure, soprattutto nei primi secoli dopo le impugnazioni della presenza reale, dei “miracoli” clamorosi, come quello di Bolsena, che ebbe come protagonista un prete dubbioso nella fede alle prese con il sangue grondante dall’ostia consacrata, o delle difese straordinarie, come quella di S. Antonio di Padova, che per convincere un eretico sulla presenza reale fece inginocchiare un’asina davanti al Ss.mo Sacramento...
    L’altra crisi la provocarono qualche secolo più tardi Lutero e i suoi seguaci, particolarmente Zwinglio e Calvino. Essi proposero interpretazioni dell’Eucaristia diverse da quelle tradizionali e ne impugnarono diverse sfaccettature che erano da secoli pacificamente vissute dalla fede ecclesiale. In concreto e principalmente intaccarono di nuovo la presenza reale di Cristo in essa e, in più, il suo carattere sacrificale e la sua efficacia di propiziazione per i vivi e per i defunti.
    Il Concilio di Trento cercò di arginare tali impugnazioni e, nel contesto polemico che segnò l’intera sua dinamica, condannò i principali errori che mettevano a rischio la fede tradizionale. Concretamente i tre appena nominati. Perciò, nella sua sessione XIII affrontò il tema della presenza reale, che vincolò alla transustanziazione di tutta la sostanza del pane e del vino nella sostanza del Corpo e del Sangue di Cristo, e nella sua sessione XXII quelli del carattere sacrificale e del valore propiziatorio della celebrazione della messa, minacciando con l’anatema coloro che avessero osato negarli.
    La fede e la teologia eucaristiche dei secoli che seguirono ne restarono largamente segnate. Continuò, infatti, a rafforzarsi teologicamente e cultualmente l’accentuazione della presenza reale di Cristo nelle specie consacrate, e allo stesso tempo gran parte della riflessione teologica si concentrò sulla spiegazione del carattere sacrificale della messa, nel tentativo di chiarire come in essa si rendeva presente sacramentalmente il sacrificio di Cristo nella croce. Gli sforzi approdarono a delle ipotesi non sempre dignitose, come quella che arrivò a paragonare le parole della consacrazione al coltello con cui venivano sgozzate le vittime sacrificali... Come contropartita, gli altri aspetti dell’Eucaristia precedentemente evidenziati nel testo paolino restarono quasi totalmente disattesi.
    Recentemente il Vaticano II, lasciato ormai da parte ogni atteggiamento polemico e avvantaggiandosi del cammino di rinnovamento fatto dalla teologia e dal movimento liturgico nei decenni precedenti, poté offrire una visione molto più serena ed equilibrata dell’Eucaristia, che ne accolse nuovamente e organicamente le principali componenti presenti negli scritti neotestamentari.

    Sullo sfondo della sensibilità planetaria

    Le circostanze storiche in cui viene celebrata l’Eucaristia oggi non sono esattamente quelle dei tempi di Paolo. Ognuna delle sue sfaccettature acquista attualmente delle connotazioni in qualche modo nuove, dato l’assetto che si è data l’umanità attuale nella sua globalità. Una di esse sembra meritare particolarmente attenzione: quella della condivisione dei beni.
    La denuncia paolina “ciascuno infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto, e così uno ha fame e l’altro è ubriaco” (1 Cor 11,21), letta sullo sfondo della situazione planetaria presente si amplifica con delle implicazioni di sconfinata ampiezza.
    La “globalizzazione asimmetrica” che mette attualmente in condizione di benessere crescente una piccola parte dell’umanità, mentre lascia la stragrande maggioranza nella condizione di povertà e perfino d’indigenza, è una sfida per ogni celebrazione della Cena del Signore.
    Oggi è più che mai vero, con una verità planetaria che è anche strutturale, che mentre “uno ha fame, l’altro è ubriaco”. Dalla mensa della vita sono di fatto esclusi milioni di esseri umani, mentre alcuni altri siedono ad essa senza che manchi loro nulla, anzi avendo a disposizione tutto.
    Come ha denunciato in più di un’occasione Giovanni Paolo II, l’umanità sta vivendo a livello collettivo la parabola del povero Lazzaro che attendeva invano le briciole cadute dalla mensa del ricco “che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente” (Lc 16,19-21). Una parabola in cui Gesù tratteggia una situazione che è agli antipodi dell’Eucaristia, perché è agli antipodi di quell’ideale che essa, come cena di fraternità, addita: “Non c’era tra loro nessun bisognoso, perché […] veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno” (At 4,34-35).
    Se, come precisava il già citato S. Tommaso, ciò che è proprio e peculiare dell’Eucaristia è la comunione fraterna, una comunione che non è fatta solo di “cuore e anima”, ma anche di “beni materiali”, si capisce quanto essa dica all’esigenza di una solidarietà planetaria. La sua autenticità e la sua fecondità sono misurate anche e con urgenza da essa.


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