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    La mia casa è la strada


     

    Juan E. Vecchi

    (NPG 2001-09-2)



    Il numero delle iniziative in favore dei ragazzi di strada è oggi consistente anche se al di sotto delle urgenze. In un convegno internazionale tenuto a Roma qualche anno fa, c’erano educatori giunti da Buenos Aires, Montevideo, Brasilia, Bogotà, Bombay, Calcutta. Mosca, Hong Kong. Ma anche da Palermo, Napoli, Milano. Quanti sono i ragazzi «buttati»? Quanti invece quelli che hanno scelto liberamente la strada? Non è dato saperlo. Ma sono tanti, al sud come al nord del mondo. In un mio viaggio a Cuba ho visto un annuncio: «Ci sono un milione di ragazzi di strada. Nessuno di essi è cubano». Propaganda naturalmente, ma…

    Il problema esiste, eccome! A volte però si ha l’impressione che parli di più chi conosce di meno! È vero, tra i ragazzi di strada alcuni scippano, altri rubacchiano, altri delinquono, ma non pochi si arrangiano con attività legittime. E quasi tutti trovano nel gruppo un elemento di sostegno. Spesso, purtroppo, il gruppo è in realtà una «banda», una «gang» che condiziona pesantemente; ciò non toglie, tuttavia, che sul loro tipo di vita ci siano pregiudizi e precomprensioni. I ragazzi imparano a muoversi e sopravvivere in un ambiente che percepiscono ostile, lo stato troppo spesso ha un atteggiamento puramente repressivo, la polizia li tratta come delinquenti e, in alcuni paesi, li elimina senza pietà. Esistono però zone in cui salesiani sono riusciti a inventare qualche programma educativo coinvolgendo nel progetto polizia, amministratori ed educatori.
    Un discreto numero di educatori, dunque, da tempo dedica speciale attenzione a questo genere di ragazzi con progetti ben definiti e meglio organizzati che riscuotono l’ammirata attenzione di governi e dei media. Tali progetti partono… dalla strada. Proprio così: non si attendono i ragazzi, si va loro incontro; non si accolgono, si raccolgono. La prima tappa, l’approccio, è scendere in mezzo a loro, battere le stesse strade per incontrarli nel loro ambiente, per farli sentire a loro agio: sei tu a casa loro, non loro a casa tua! Alcuni progetti prevedono l’accoglienza in strutture apposite per chi ne ha bisogno. La trafila pedagogica è semplice ed efficace: pulizia, cibo, servizio medico, amicizia e, infine, orientamento. Poi segue la proposta di un tempo di educazione più lungo, per abilitarsi al lavoro conforme alle caratteristiche positive maturate già nella strada.
    Quali i motivi che spingono un ragazzino a scegliere la strada come scuola e dimora? La prima chiamata in causa è la famiglia: la solitudine affettiva, un ambiente domestico poco vivibile e per nulla attento alle necessità del ragazzo, lo spingono al confronto con esperienze molto più allettanti dal punto di vista della libertà, del possesso di un po’ di denaro, e perfino della prossimità affettiva. È un dato di fatto che famiglie modeste, ma ricche di affetto, riescono a tenere i figli legati alla propria casa. Fa da controaltare il fatto che spesso sulla famiglia pesano condizioni economiche al limite della sopravvivenza, aggravate dalla situazione del paese, da carenze educative, familiari e sociali, da impreparazione, dalla selettività della scuola, dallo sfruttamento, dalla totale mancanza di garanzie e di prospettive.
    L’esperienza dimostra che, sebbene molti valori e dimensioni dell’educazione rimangano compromessi, i ragazzi non perdono né il senso del bene né il buon cuore, né l’apertura a nuove prospettive.
    In alcuni paesi, le bande organizzate o i ragazzi abbandonati a se stessi sono un triste fenomeno sociale… Con un riferimento alla storia salesiana, mi viene in mente il famoso incontro di Don Bosco con i ragazzini di Porta Palazzo a Torino, e specialmente quello con Michele Magone, un ragazzo di strada di allora. Naturalmente le distanze sono siderali, ma l’attinenza c’è. Don Bosco trasferì all’oratorio la sua prima conquista, Magone, che del moderno ragazzo di strada aveva solo qualche piccolo tratto: oggi non è pensabile anche dal punto di vista dell’efficacia pedagogica trasferire presso un istituto i ragazzi difficili anche se ambienti di accoglienza, programmi in cui possano impegnarsi, e amicizie sono indispensabili. Insomma c’è da adeguare il sistema educativo alla loro situazione.


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