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    La “Gaudium et spes” e l’impegno politico



    Luis A. Gallo

    (NPG 2003-04-42)


    Non di rado si sente dire che “la Chiesa non deve fare politica”, “deve tenersi fuori dalla politica”. Le frasi possono essere pertinenti se s’intende esprimere con esse il bisogno di superare un certo tipo di rapporto che l’istituzione ecclesiale ha avuto in passato con il potere politico, quello che si suole qualificare come “teocratico”. Rivisitando infatti la storia, non è difficile costatare che spesso essa, in quanto società religiosa ufficialmente riconosciuta, deprivò tale potere della sua autonomia, assoggettandolo al proprio dominio o sostituendosi persino ad esso. Il più delle volte, occorre riconoscerlo, con l’intenzione di evitare che danneggiasse la fede dei credenti, e di conseguenza mettesse in pericolo la loro salvezza eterna con le sue decisioni.
    Ma, lette alla luce del Vaticano II, tali frasi implicano due errori: anzitutto, quello di identificare la Chiesa con coloro che in essa detengono l’autorità; poi, quello di pensare che c’è un solo modo ecclesiale di rapportasi con la politica, e cioè quello teocratico appena accennato.
    La “Gaudium et Spes”, avendo impostato in un modo differente il rapporto globale della Chiesa con il mondo e le sue realtà, impostò anche necessariamente in maniera differente il suo rapporto con il politico.

    Politica e politiche

    Non è di poca importanza, a questo riguardo, la distinzione che la Costituzione fa – implicitamente almeno – tra politica e politiche.
    Per la prima intende la gestione della vita collettiva, di quella cioè che più di una volta e molto significativamente chiama “la comunità politica”. Di essa riconosce la legittimità e la necessità; anzi, ne evidenzia l’essenziale radicamento nella stessa natura umana.
    Afferma, per esempio, che tra i vincoli sociali che sono necessari al perfezionamento dell’uomo, alcuni, come la comunità politica, sono più immediatamente rispondenti alla sua natura intima (n.25). E dedica poi un intero capitolo – il quarto della sua seconda parte – a esporre il suo pensiero su di essa. Un capitolo nel quale tra l’altro torna a ribadire la stessa idea:
    “È dunque evidente che la comunità politica e l’autorità pubblica hanno il loro fondamento nella natura umana e perciò appartengono all’ordine fissato da Dio, anche se la determinazione dei regimi politici e la designazione dei governanti sono lasciate alla libera decisione dei cittadini” (n. 74).
    Riconosce, inoltre, che nella comunità politica è indispensabile l’esercizio del potere di decisione, un potere che, ci tiene a precisare, non deve essere mai esercitato in maniera meccanica o dispotica. Sono questi i termini precisi in cui si esprime:
    “Affinché la comunità politica non venga rovinata dal divergere di ciascuno verso la propria opinione, è necessaria un’autorità capace di dirigere le energie di tutti i cittadini verso il bene comune, non in forma meccanica o dispotica, ma prima di tutto come forza morale che si appoggia sulla libertà e sul senso di responsabilità” (ibid.).
    All’interno di tale comunità e della sua gestione – che si può identificare come “la politica” –, trovano spazio “le politiche”. Dice la nostra Costituzione:
    “Le modalità concrete con le quali la comunità politica organizza le proprie strutture e l’equilibrio dei pubblici poteri possono variare, secondo l’indole dei diversi popoli e il cammino della storia” (ibid.).
    E una di tali modalità concrete è quella dei partiti politici, ai quali il documento fa espresso riferimento nel suo n. 75.

    La responsabilità politica di tutta la Chiesa

    Per evitare che si ripetano le situazioni del passato sopra ricordate, la “Gaudium et Spes” si premura, anzitutto, di scartare ogni forma di visione teocratica della politica, stabilendo la netta distinzione tra la Chiesa, in quanto comunità radunata all’insegna della fede, e la società politica, in quanto radunata all’insegna della convivenza umana. Dichiara:
    “La Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana. La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo” (n. 76, corsivi nostri).
    Poi però sottolinea anche l’aspetto complementare di quanto ha enunciato:
    “Ma tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale degli stessi uomini. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più efficace, quanto più coltiveranno una sana collaborazione tra di loro, secondo modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo (ibid., corsivi nostri).
    Poiché, quindi, tanto la politica quanto le politiche sono delle componenti del mondo che la Chiesa vuole servire nella sua crescita in umanità, esse non possono restare al margine della sua preoccupazione e della sua azione. È l’intera comunità ecclesiale che se ne deve occupare, conscia della responsabilità che le incombe alla luce del Vangelo. Non se ne può “lavare le mani”, mantenendosi totalmente a margine di essa.
    Di tale incombenza se ne trova un’affermazione densa e programmatica in questo testo, sempre al capitolo già accennato:
    “Tutti i cristiani devono prendere coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica; essi devono essere d’esempio, sviluppando in se stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune, così da mostrare con i fatti come possano armonizzarsi l’autorità e la libertà, l’iniziativa personale e la solidarietà di tutto il corpo sociale, la opportuna unità e la proficua diversità” (n. 75, corsivo nostro).
    Risulta chiaro nel testo chi sia il soggetto di questa “speciale vocazione nella comunità politica”: sono “tutti i cristiani”.
    Siamo così lontano dal tempo in cui coloro che nella comunità ecclesiale erano costituiti in autorità, ossia i membri della cosiddetta “gerarchia della Chiesa”, e solo essi, mantenevano dei rapporti, per di più non di rado autoritari, con coloro che detenevano il potere politico; come anche da quello in cui ai cristiani era vietata la partecipazione alla vita politica della propria nazione. Due maniere di impostare i rapporti tra Chiesa e politica che la Costituzione pastorale, come si vede, decise chiaramente di superare.
    Ciò suppone una previa valutazione della politica e delle politiche. Contrariamente a ciò che spesso si continua a ripetere – “la politica è sporca; non bisogna sporcarsi le mani con essa; il potere corrompe” ...– la Costituzione ne formula un giudizio fondamentalmente positivo. Afferma, infatti:
    “La Chiesa stima degna di lode e di considerazione l’opera di coloro che, per servire gli uomini, si dedicano al bene della cosa pubblica e assumono il peso delle relative responsabilità” (n.75, corsivi nostri).
    Naturalmente, come si legge nel testo, la condizione di tale stima è che l’azione politica sia mirata “al bene della cosa pubblica” o, come si dice in altri punti del testo conciliare, al “bene comune”, e cioè all’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente (nn. 26.74).

    Le responsabilità specifiche

    Oltre a ciò che è stato appena evidenziato, va anche tenuto presente il fatto che la Chiesa è una comunità organica, nella quale non tutti fanno tutto allo stesso modo. Anche nei confronti della componente politica ciò ha una sua applicazione.
    Il Concilio Vaticano II ha decisamente superato quella visione delle cose che attribuiva l’ambito intraecclesiale ai pastori, ai religiosi e alle religiose, mentre lasciava il mondo e tutto ciò che era extraecclesiale ai laici. L’abbiamo già ricordato in articoli precedenti: nella visione conciliare a tutti senza eccezione appartengono e l’uno e l’altro. In modi differenti, tuttavia, a seconda del carisma proprio di ognuno. Quindi, anche la politica.
    Tutti i membri della Chiesa, senza eccezione, dovrebbero perciò “coltivare il senso interiore della giustizia, dell’amore e del servizio al bene comune e rafforzare le convinzioni fondamentali sulla vera natura della comunità politica e sul fine, sul buon esercizio e sui limiti di competenza dell’autorità pubblica” (n.73f).
    Anche i pastori, i religiosi e le religiose sono quindi chiamati a farsi carico della realtà politica, ma a farlo – valga l’affermazione volutamente ridondante – in modo pastorale e in modo religioso. Tra l’altro, secondo quando diceva già la Costituzione “Lumen Gentium” (n.32), essi non dovrebbero ordinariamente gestire in prima persona il potere politico, né arruolarsi in partiti politici. Le ragioni sono ovvie: se sono pastori, ciò non gioverebbe al loro ministero di comunione nella comunità da essi presieduta, ministero che costituisce la loro specificità ecclesiale (LG 20); se sono religiosi e religiose, la loro vocazione specifica li chiama a dare piuttosto testimonianza del regno futuro, nel quale il potere non avrà spazio e si renderà superfluo (LG 44; PC 1). Il che non vuol dire che non possano farlo eccezionalmente, se le circostanze lo richiedessero.
    Ciò non impedirà loro di svolgere una funzione profetica nei confronti della politica e delle politiche. Anzi, fa parte della loro responsabilità pastorale e religiosa il collaborare con gli altri fratelli e sorelle nella fede che vivono più direttamente a contatto con tali realtà, nello sforzo di discernere in esse “i veri segni della presenza o del disegno di Dio” (GS 11). Un tipo di rapporto con il politico che non ha niente a che fare con quello teocratico mantenuto in passato, perché non intende dominare il potere politico con altro potere, quello religioso, ma semplicemente servirlo, senza pretendere di imporsi ad esso.
    Ai laici e alle laiche appartiene, invece, in modo più specifico – dato che “l’indole secolare è propria e peculiare” della loro vocazione ecclesiale (LG 32) – occuparsi direttamente e ordinariamente di essa.
    In quanto cittadini, è loro responsabilità diretta impegnarsi in prima persona nella politica e, nella misura del necessario, nelle politiche. Se poi capita loro, o per decisione propria o per decisione altrui, di diventare gestori del potere politico nelle diverse forme di governo che si danno i popoli, è loro compito ispirarsi agli orientamenti evangelici nel suo disimpegno.
    A loro riguardo la “Gaudium et Spes” dice:
    “Coloro che sono o possono diventare idonei per l’esercizio dell’arte politica, così difficile, ma insieme così nobile, vi si preparino e si preoccupino di esercitarla senza badare al proprio interesse e a vantaggi materiali. Agiscano con integrità e saggezza contro l’ingiustizia e l’oppressione, l’assolutismo e l’intolleranza d’un solo uomo e d’un solo partito politico; si prodighino con sincerità ed equità al servizio di tutti, anzi con l’amore e la fortezza richiesti dalla vita politica” (n.75).
    Tra l’altro, sarà importante che essi tengano sempre presente l’esigenza di competenza che tale esercizio richiede, e non pretendano di supplirla con dei richiami alla fede. Si è buon politico perché si è esperto in materia, e non perché si prega bene. Il che non significa misconoscere l’aiuto che per svolgere il proprio ruolo può venire dalla preghiera.
    Un ultimo punto sul quale richiama l’attenzione in questo ambito la Costituzione pastorale, è quello del bisogno dell’educazione alla politica, particolarmente dei giovani:
    “Bisogna curare assiduamente la educazione civica e politica, oggi particolarmente necessaria, sia per l’insieme del popolo, sia soprattutto per i giovani, affinché tutti i cittadini possano svolgere il loro ruolo nella vita della comunità politica” (ibid.).
    In un momento in cui l’interesse per il politico da parte dei giovani è, per svariati motivi, in notevole calo, un’esortazione come questa acquista tutta la sua urgenza.


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