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    Diritti umani, valori universali e dialogo interculturale


    Antonio Papisca

    (NPG 2003-01-32)



    La mia riflessione sul dialogo interculturale si avvale delle categorie concettuali offerte dal sapere dei diritti umani, un sapere multi-disciplinare e assio-pratico che mi induce ad assumere che certi pregiudizi e sospetti nei riguardi del “diverso in casa nostra” possono superarsi, e certi valori condividersi, se si presta attenzione alle cose che urge fare insieme. Il mio dire è quindi all’insegna del progetto comune con gli orizzonti dilatati dell’interdipendenza planetaria. In pedagogia parleremmo di educazione orientata all’azione.

    Quando ci sono sofferenze causate da violenza, povertà, ingiustizia, discriminazione, inquinamento, l’invocazione che sale da ogni parte del mondo è “diritti umani”, “human rights”, “derechos humanos”, “droits de la personne”, diritti delle donne, dei bambini, dei lavoratori, delle minoranze, dei rifugiati, dei migranti.

    L’internazionalizzazione dei diritti umani

    Dunque, diritti umani vox populi. Quando i rappresentanti delle organizzazioni non governative e dei movimenti solidaristici transnazionali si incontrano in occasione delle grandi Conferenze mondiali delle Nazioni Unite e delle conferenze regionali che le preparano, l’uso del codice dei diritti umani facilita la comunicazione fra attori che sono genuinamente rappresentativi di società civile globale e ne legittima il ruolo internazionale.
    L’universalità logica, immanente, dei diritti della persona è oggi l’universalismo storico delle verità pratiche. I diritti umani sono infatti “universalizzati sul campo”, sia dall’invocazione di coloro che soffrono, sia dal monitoraggio condotto da istanze internazionali governative e non governative specializzate in materia, sia dalla autorevolissima advocacy di illuminati leaders spirituali, primo fra tutti Papa Giovanni Paolo II.
    L’internazionalizzazione dei diritti umani è uno dei grandi processi di trasformazione strutturale che segnano la vita nel pianeta soprattutto a partire dalla seconda metà del XX secolo. Questo processo è accompagnato, talora sinergicamente talora dialetticamente, da altri pervasivi processi quali la transnazionalizzazione delle relazioni sociali ed economiche, la mondializzazione dell’economia, l’organizzazione permanente delle relazioni internazionali in campo sia governativo sia non governativo.
    Il pianeta terra è alla ricerca di governance, le classi politiche nazionali, quale più quale meno, paiono brancolare nel buio, sono tentate da pericolose fughe all’indietro, paiono non accorgersi che il pianeta ha già una buona attrezzatura di governo globale solo a saperla far funzionare.
    Il nuovo Diritto internazionale basato sul valore assoluto della dignità umana, che si origina dalla Carta delle Nazioni Unite e i cui contenuti sono elucidati e arricchiti dall’apporto delle varie culture (in particolare per quanto riguarda l’interdipendenza e l’indivisibilità di tutti i diritti umani, i così detti diritti di solidarietà, la strategia dello “human development” e della “human security”, i diritti delle donne e delle bambine, i diritti delle minoranze e delle popolazioni autoctone), è uno degli strumenti più importanti di cui il mondo è dotato. Esso obbliga il dibattito politico ed economico (il mercato della politica) a confrontarsi con le implicazioni pratiche dell’etica umana universale e a considerare la democrazia e la partecipazione dei cittadini come il metodo naturale del buon governo sia dentro gli stati sia dentro le istituzioni internazionali. La crescita delle organizzazioni e dei movimenti di società civile globale spinge vigorosamente, vorrei dire inesorabilmente, verso questa direzione.

    Il riconoscimento giuridico internazionale

    Il movimento planetario dei diritti umani vive dunque, oggi, non soltanto della forza dell’etica, ma anche della forza della legge internazionale, dello ius positum internazionale. Il Diritto internazionale dei diritti della persona è un corpo organico di norme e principi corredato, al duplice livello mondiale e regionale, di proprie istituzioni, procedure, giurisprudenza. Non può non stupire che nel breve lasso di cinquanta anni – un soffio della storia – questo nuovo Diritto umanocentrico, anzi panumano, abbia potuto raggiungere un così alto livello di visibilità e di mobilitazione. Siamo certamente in presenza di un segno dei tempi, come già quarant’anni fa avvertiva l’Enciclica Pacem in Terris. Il movimento dei diritti umani è alimentato dalle forze profonde della storia, diciamo pure dalla Provvidenza nella storia, esso è come un fiume in piena che inonda e feconda spazi sempre più ampi: è la metafora della liberazione e promozione umana, utile a cogliere il senso della lunga strada dei diritti umani. All’inizio i baroni si liberano dal potere assoluto del monarca, poi i borghesi dal potere della nobiltà, i lavoratori dal potere dei padroni, i contadini da quello dei latifondisti, i colonizzati dai colonizzatori, più recentemente le donne dalla prevaricazione dei maschi, i bambini dalle prevaricazioni degli adulti, i migranti dalla discriminazione della cittadinanza nazionalista ed escludente. La storia dimostra che quando si è giunti a certi livelli di liberazione, la dialettica tra potere da un lato e libertà e giustizia dall’altro, si estende ad altri settori, interessa nuove dimensioni tematiche e spaziali: liberazione dallo strapotere dei mass media, delle multinazionali economiche, delle biotecnologie disumanizzanti, dal nucleare, dalla polluzione, dalla pena di morte dalla guerra-processo, dalla guerra-istituzione, dalla statualità nazionalistica, belligena e confinaria.
    L’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani, del 1948, proclama che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti...” (sottolineatura aggiunta). Il fatto che si è onticamente liberi ed eguali come espressamente riconosciuto dallo ius positum universale, e dunque si deve essere liberi ed eguali nella storia del quotidiano, obbliga a considerare le categorie del potere e delle istituzioni in una dimensione necessariamente teleologica: il potere si giustifica nella misura in cui esso opera per il perseguimento dei diritti che ineriscono per natura ai “tutti degni, liberi ed eguali”. Quanto agli individui e ai gruppi sociali, l’imperativo categorico è quello della “responsabilità condivisa”, espressione che traduce il concetto di sovranità popolare e di democrazia coerentemente coi postulati del sapere dei diritti umani. Tra le riflessioni scritte a mo’ di preghiera dall’indimenticabile Segretario Generale delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld, troviamo la seguente: “Merita il potere solo chi lo giustifica ogni giorno”. Condividere responsabilità per il bene comune è la più valida giustificazione del governare oggi. Dag Hammarskjöld va ancora oltre: “Ancora qualche anno, e poi? La vita ha valore solo nel suo contenuto, per altri. La mia vita senza valore per altri è peggio della morte. Quindi, in questa grande solitudine, servire tutti. Quindi: quanto inafferrabilmente grande è ciò che mi è stato donato e quale nullità ciò che io sacrifico” (Linea della vita, Rizzoli, 1966).
    Una volta avvenuto il riconoscimento giuridico-formale dei diritti umani, l’intera costruzione dello ius positum generale deve confrontarsi, per rifondarsi, coi corollari che discendono dal principio del rispetto della dignità umana. La legge scritta dei diritti umani avendo sempre, per sua natura, rango costituzionale qualunque ne sia l’espressione formale, è dunque la legge che legittima uno stato permanente di rivoluzione pacifica, è la legge che legittima il superamento di qualsiasi altra legge che non sia conforme ad essa, è uno stato di “grazia civica” – mi sia consentita questa estensione semantica alla realtà della città dell’uomo.
    Il riconoscimento giuridico sul piano internazionale ha avviato la costruzione di uno spazio costituzionale e giudiziario mondiale. Anche principi forti quali quelli d’universalità della giustizia penale e della responsabilità penale personale direttamente perseguibile in sede internazionale sono stati recentemente innestati in questo spazio.
    Se mi si chiedesse qual è il nucleo duro (the core) di questa realtà giuridica umanocentrica a respiro planetario, non esiterei a segnalare i Preamboli della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione Universale, la Costituzione dell’Unesco (“since wars begin in the minds of men, it is in the minds of men that the defences of peace must be constructed"), la Convenzione sui diritti dei bambini (art. 3, che proclama il principio del "the best interest of children"), la Dichiarazione delle Nazioni Unite sul diritto allo sviluppo del 1986, lo Statuto della Corte penale internazionale, la Dichiarazione delle Nazioni Unite “sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi della società di promuovere e proteggere i diritti della persona e le libertà fondamentali”, adottata nel 1998 in occasione del 50° anniversario della Dichiarazione Universale e conosciuta come “The Charter of Human Rights Defenders”. Questa Dichiarazione legittima quanti operano per i diritti umani – auspicabilmente tutti, per diritto e per precetto morale, individualmente e in associazione con altri – ad agire dentro e fuori dei singoli spazi nazionali. È il riconoscimento esplicito del diritto alla mobilità e all’organizzazione transnazionale per la causa dei diritti umani, alla sola condizione che il suo esercizio avvenga in maniera pacifica. Giova sottolineare che l’articolo 18 di questa Dichiarazione riprende e rilancia il contenuto dell’articolo 28 della Dichiarazione Universale, che proclama, quale diritto fondamentale, il diritto alla pace nella giustizia: “Ogni essere umano ha diritto a un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciate nella presente Dichiarazione possano essere pienamente realizzate”.

    La pratica internazionale della democrazia

    Lo spazio costituzionale mondiale dei diritti umani apre la via all’estensione della pratica della democrazia dal quartiere e dal villaggio fino ai grandi santuari della politica internazionale, in particolare al sistema delle Nazioni Unite, come peraltro già preconizzato nel 1945 dall’incipit della Carta delle Nazioni Unite: “Noi, Popoli delle Nazioni Unite, decisi a...”. I paesi membri dell’Unione Europea hanno dato per primi l’esempio attraverso l’elezione diretta dei membri del Parlamento europeo, che è il primo parlamento autenticamente sopranazionale della storia moderna e contemporanea. Nell’era dell’interdipendenza planetaria complessa e della mondializzazione nei vari campi, l’allargamento del campo d’azione della democrazia è una necessità, anzi una urgenza di buon governo, se è vero com’è, che importanti decisioni sono prese a livello internazionale, in sedi in cui il bagaglio di legittimazione che i governi nazionali vi portano non è più sufficiente ad assicurare né l’efficacia né la legittimità delle istituzioni e delle decisioni sopranazionali. Per non parlare delle concentrazioni di potere che si vanno consolidando in ambienti opachi sia dell’economia sia della politica. All’interno degli stati, perfino in quelli che hanno più lunga esperienza di pratica della democrazia, questa soffre a causa del fatto che le tradizionali istituzioni parlamentari nazionali hanno sempre meno da controllare... Insistere sulla democrazia esclusivamente nello spazio asfittico dello stato-nazione è una illusione, anzi qualcosa che somiglia all’accanimento terapeutico. D’altra parte la democrazia è, allo stesso tempo, un valore irrinunciabile, un diritto fondamentale, il metodo naturale e necessario per la realizzazione dei diritti umani. La democrazia internazionale, o meglio l’estensione della democrazia alla politica e alle istituzioni internazionali, è dunque l’àncora di salvezza della democrazia anche ai micro-livelli di governo locale e ai meso-livelli di governo nazionale. Democrazia internazionale non è cosa diversa da democrazia interna se non dal punto di vista delle articolazioni spaziali. La formula “One country, one vote”, beninteso una regola utile, certamente traduce il principio di sovrana eguaglianza degli stati nei processi decisionali delle organizzazioni internazionali, ma non anche il principio di sovranità dei popoli in quanto articolazioni della “famiglia umana” (distintamente quindi dal loro essere “parte” transustanziata dell’entità giuridica “Stato”).
    Democrazia internazionale propriamente intesa significa maggiore e più diretta legittimazione delle istituzioni che decidono al di fuori degli spazi statuali nazionali e partecipazione politica popolare ai processi di presa delle decisioni degli organismi internazionali. Alla necessità logica, giuridica e morale della democratizzazione internazionale corrisponde oggi la possibilità reale che i popoli, in quanto soggetti originari di diritti, abbiano una duplice garanzia di rappresentanza sul piano internazionale: per opera degli stati e per opera di organizzazioni di società civile. Queste possono agevolmente assicurare la dimensione partecipativa della democrazia a tutti i livelli, territoriali e funzionali della governance. Quanto alla legittimazione formale delle istituzioni internazionali, è sentire comune negli ambienti di società civile globale che si potrebbe subito avviare alle Nazioni Unite lo stesso processo che nel sistema dell’integrazione europea ha portato all’elezione diretta del Parlamento europeo. Si potrebbe subito istituire un’Assemblea Parlamentare delle Nazioni Unite, composta di delegazioni dei parlamenti nazionali, che agirebbe a fianco dell’attuale Assemblea Generale (degli Stati).
    L’internazionalizzazione della pratica democratica non può non avere le stesse ricadute sui sistemi politici nazionali che sta avendo l’internazionalizzazione dei diritti umani: forte pressing per il mutamento democratico nei sistemi politici autoritari, aiuto al mantenimento allo sviluppo della democrazia rappresentativa e partecipativa nei sistemi che sono già ordinamento democratico.
    Con questa dilatazione spaziale e istituzionale, la democrazia diventa via di pace, in quanto alimenta e consolida l’humus che consente di costruire un ordine internazionale più giusto, equo e cooperativo, quello in cui attori con visione umanocentrica e quindi con la cultura del bene comune dei membri della famiglia umana, interloquiscono con i potenti attori statuali e operano per curarne la ricorrente sindrome dell’interesse nazionale ad excludendum alios.

    La pratica internazionale della multiculturalità

    La conflittualità che è immanente al fatto stesso della presenza di più gruppi e comunità umane di diversa ascendenza culturale, etnica e religiosa in un medesimo territorio, insomma il problema della multiculturalità, ha assunto caratteri di drammatica visibilità mondiale in questi ultimi anni in ragione dei considerevoli flussi migratori verso i paesi occidentali, europei in specie. La conflittualità è “sul posto”, ma le radici del problema sono altrove, hanno dimensione planetaria. Gli attuali flussi migratori sono infatti il portato diretto di una mondializzazione economica non governata e del persistere di una iniqua divisione internazionale del lavoro. Chi giunge nei paesi opulenti dai paesi ad economia povera è indicatore – in carne e ossa -, dell’ingiustizia strutturale insita nella dinamica selvaggia della mondializzazione, oltre che del malgoverno nei paesi di provenienza. La multiculturalizzazione legata all’immigrazione è, in buona misura, la ricaduta del disordine mondiale nel quotidiano dei micro ambiti locali. La risposta alle sfide che ne discendono deve essere in corretto rapporto di scala con l’ordine di grandezza delle stesse sfide, I’approccio deve quindi essere globale, assio-pratico, universalista e politico.
    Come per la governabilità, così per la multiculturalità il paradigma dei diritti umani internazionalmente riconosciuti è àncora di salvezza, poiché è strumento e fine di dialogo interculturale e salvaguarda la diversità e l’endogeneità delle culture, quindi l’anima profonda di ciascuna di esse. Ma l’àncora di salvezza è una sfida che innesca, anzi esige un duplice confronto proprio in rapporto al paradigma dei diritti umani: di ciascuna cultura al proprio interno e delle differenti culture fra di loro. La metafora potrebbe essere quella della purificazione delle culture alla sorgente dell’universale per meglio rispondere all’appello delle responsabilità condivise nel gestire i grandi problemi globalizzati del nostro tempo. Altrettanto appropriata è la metafora dell’esame di coscienza che ciascuna cultura deve fare sulla propria storia. In altre parole, la sostenibilità delle differenti culture, al di fuori di schemi egemonizzanti – tale è quello che si nasconde nella teorizzazione del clash of civilizations – è funzione del loro convertirsi all’etica del bene comune universale. Una cultura che legittimi la discriminazione, la violenza, l’autoritarismo, la guerra non può invocare, a sua difesa, il principio di endogeneità.
    L’interazione delle culture, perché non si limiti soltanto allo scambio e alla comparazione di dati cognitivi né ad una astratta contemplazione incrociata di memorie storiche e patrimoni artistici, deve giocarsi sul terreno dei fatti, dei comportamenti pratici, delle politiche, secondo un approccio assio-pratico, cioè in termini di coerenza tra i valori-principi e le azioni che li incarnano nella realtà dei bisogni e delle urgenze esistenziali.
    Insomma, il dialogo inter-culturale a cosa fare? Certamente, per meglio conoscersi. Ma il risultato potrebbe non essere necessariamente la comprensione reciproca né, tanto meno, la cooperazione fattiva. Ci si deve certamente scambiare opinioni in tema di identità, di differenze, di alterità, ma lo scopo del dialogo interculturale non è la ipostatizzazione della diversità in quanto tale, l’ossequio al feticcio della diversità, bensì la scoperta e il perseguimento del bene comune. Il perseguimento di questo obiettivo implica l’inclusione di tutti nella “comunità politica”, nelle singole “comunità politiche”.
    Ma perché la comunità politica locale sia inclusiva occorre che la globalizzazione mondiale sia essa stessa inclusiva, “inclusive globalisation” come dice il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, nel discorso tenuto il 2 ottobre scorso all’Università di Yale. Giovanni Paolo II fin dall’inizio del suo pontificato insiste sulla necessità di un ordine mondiale che sia inclusivo ai vari livelli. Nel discorso rivolto al Forum Internazionale della Democrazia Cristiana egli dice tra l’altro: “I diritti dell’uomo non diventano effettivi se non all’interno delle comunità naturali in cui si svolge la vita” (il riferimento è qui alle “nazioni”). “Ma esiste anche un’altra comunità verso la quale siamo responsabili noi tutti, l’intera umanità, con le sue diverse componenti geografiche e culturali. Le nazioni devono imparare a vivere insieme nel rispetto reciproco, appoggiandosi spesso a strutture giuridiche comuni di carattere sovranazionale, su scala continentale o anche mondiale. Queste istituzioni sono particolarmente necessarie oggi per bandire l’uso della forza come mezzo per risolvere conflitti, e per organizzare la cooperazione economica e lo sviluppo”. Ancora Kofi Annan, partendo dalla constatazione che “come ci preoccupa il gap tra gli haves e gli haves-not, dobbiamo egualmente preoccuparci del fossato tra gli insiders e gli outsiders in un mondo globalizzato, in cui nessun confine è impermeabile e dove i privilegi dei pochi – economici, politici o sociali che siano – sono penosamente visibili a quelle moltitudini che tuttora agognano libertà e opportunità”. Ragion per cui il Segretario Generale sottolinea la necessità di orientare le nostre energie, quelle dei pochi “haves”, al fine di “realizzare l’aspirazione sottesa dalla scomoda, ma rivelatrice traduzione in Arabo del termine ‘globalizzazione’, che significa letteralmente ‘inclusività mondiale”’. Ma l’inclusività in ciò che Kofi Annan chiama “il nostro cerchio” (our circle), e che io preferisco chiamare la “comunità politica” ai vari livelli, è un obiettivo arduo, se non c’è condivisione di un macro progetto politico.
    L’ipotesi di fondo è che il dialogo interculturale deve farsi su “verità pratiche”, non su ideologie, e che nell’era dell’interdipendenza planetaria e dei vasti processi di globalizzazione che vi si accompagnano, il dialogo, a qualsiasi livello, sarà facilitato dalla discussione e dalla condivisione di un modello, anzi di un progetto di ordine mondiale basato sulla legge universale dei diritti umani. In altre parole, il dialogo si fa elucidando insieme le cose da fare insieme per un ordine mondiale largamente accettato come la casa comune planetaria, la casa di tutti i membri della famiglia umana. Insomma: dialogare nella città, nella comunità politica includente, per progettare e costruire insieme il mondo, un mondo migliore.

    Qualche esemplificazione

    Gli oggetti del dialogare per progettare insieme sono tanti. Ne segnalo due a mo’ d’esempio: legalità internazionale per l’uso della forza e statuto di cittadinanza.
    Il nuovo Diritto internazionale scaturito dalla Carta delle NU e dalle Convenzioni giuridiche sui diritti umani è un bene prezioso sulla via della civiltà del diritto nel mondo, da difendere e sviluppare. Esso pone la dignità umana a fondamento della giustizia, della libertà e della pace, quindi dell’ordine mondiale. Le violazione estese e reiterate dei diritti umani sono giusta causa perché la Comunità internazionale intervenga negli affari interni degli stati, anche con l’impiego di mezzi militari. La vigente legalità vuole che si operi in un contesto di multilateralismo e di sopranazionalismo. Le pertinenti decisioni devono essere prese dalle legittime istituzioni internazionali, cioè in primis dalle Nazioni Unite, il militare deve essere impiegato per operazioni di polizia, non di guerra, sotto comando sopranazionale, nel rigoroso rispetto della legge internazionale, con animus iustitiae che è ben diverso dall’animus bellandi (cioè destruendi) proprio della guerra. Questa è proscritta in quanto tale, come si deduce anche dall’articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici: “Qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalla legge”. Non si vieta ciò che è lecito... La giurisdizione penale internazionale è l’altra faccia degli interventi d’autorità della Comunità internazionale. Per la proscrizione della guerra possono usarsi gli argomenti che si usano per l’abolizione della pena di morte: ci sono vie alternative, basta perseguirle. Pena di morte e guerra sono incompatibili con la ratio dei diritti umani. Dunque, oggetto di dialogo interculturale en la calle sono il rafforzamento dell’autorità delle Nazioni Unite, la loro riforma e democratizzazione, la Corte penale internazionale, la creazione di corpi permanenti di polizia internazionale sotto autorità delle Nazioni Unite e delle organizzazioni regionali con esse coordinate.
    Ma la giustizia è anche economica e sociale. E allora bisogna che un organo delle Nazioni Unite – per esempio il Consiglio Economico e Sociale, Ecosoc – abbia efficaci poteri di orientamento sociale dell’economia mondiale e che si ponga argine alle pratiche di strozzinaggio dell’aggiustamento strutturale avulso da efficaci programmi di cooperazione allo sviluppo.
    Il tema della cittadinanza è all’apparenza un tema di dibattito infranazionale, lontano da quello dell’ordine mondiale. Le cose non stanno così. A partire dal momento in cui è avvenuto il riconoscimento giuridico internazionale dei diritti umani, ogni persona è dotata dello stesso patrimonio di diritti fondamentali – civili, politici, economici, sociali, culturali – in qualsiasi parte del mondo venga a trovarsi. Lo statuto giuridico di “persona” è lo statuto di cittadinanza primaria di cui tutti sono titolari: i diritti umani sono il DNA della cittadinanza. Questa cittadinanza primaria o universale, dal punto di vista storico e giuridico, è nata dopo le “cittadinanze anagrafiche”, che sono quelle nazionali. Oggi, si tratta di armonizzare, ovvero rendere compatibili queste ultime con la prima. Le polemiche sulle leggi sull’immigrazione sono rivelatrici di questa dialettica. De iure il risultato dell’armonizzazione non può che essere quello del nascere di un nuovo statuto di “cittadinanza plurima”, configurabile come un albero il cui tronco è lo statuto giuridico di “persona” – cittadinanza primaria –, le radici sono i diritti fondamentali, e i rami sono le cittadinanze derivate (italiana, europea, regionale... di ruolo).

    Verso una nuovo ordine transculturale

    Essere compartecipi di un disegno di ordine mondiale dà sicurezza nel quotidiano gestire i problemi della convivenza tra gruppi diversi. E poiché il dialogo per condividere un progetto strategico non può realizzarsi se alla base non c’è condivisione di valori fondativi, occorre sfruttare il potenziale di utilità comunicativa del paradigma dei diritti umani, ovvero la sua idoneità ad essere impiegato quale codice di simboli transculturali.
    Il paradigma dei diritti umani è il codice comunicativo transculturale per eccellenza, è allo stesso tempo strumento e fine. Esso è idoneo a favorire lo sviluppo di quella nuova cultura politica transculturale e transnazionale, a forte connotazione assio-pratica e universalista, di cui c’è assoluto bisogno. In altri termini, lo snodo per passare dalla fase conflittuale della multi-culturalità alla fase dialogica dell’inter-culturalità sta appunto nell’uso di una trans-cultura impregnata di valori umani universali. L’educazione ai diritti umani, alla democrazia e alla pace, in quanto educazione orientata all’azione, è apprendimento e addestramento di transcultura. In questo progetto devono essere prioritariamente coinvolti quei formatori che possono meglio incarnare i diritti umani nella vita quotidiana, los derechos humanos en la calle, human rights in the street.
    Insisto su questa ipotesi, che è evidentemente scommessa di governabilità più sostenibile: il dialogo interculturale in tanto sarà fecondo in termini di pace sociale, che è quella che immediatamente interessa, in quanto esso si sviluppi nell’ottica della pace internazionale, ovvero di un ordine mondiale più giusto e democratico. Questo approccio chiama in causa, oltre che l’educazione, anche la politica del dialogo interculturale. L’educazione, in ambito sia scolastico sia extrascolastico comprese le università, farà la sua parte, ma le istituzioni devono fare la loro: non soltanto non ostacolando, ma soprattutto favorendo e incentivando, appunto mediante “politiche”, “public policies”, le iniziative formative e di scambio tra culture.
    Un significativo stimolo in questa direzione ci viene dall’Unione Europea, in particolare dalla Commissione Europea la quale, avvalendosi della collaborazione della rete di Cattedre e Poli universitari Jean Monnet, ha organizzato a Bruxelles nei giorni 20 e 21 marzo del 2002 il “Colloquio sul dialogo interculturale”, avendo come significativa “area” di riferimento quella del Mediterraneo.
    Nella Dichiarazione finale, premesso che “pace e rispetto dei diritti umani si collocano dentro una responsabilità condivisa” (shared responsibility) si afferma che “una politica di dialogo interculturale, in aggiunta alle tradizionali relazioni economiche e diplomatiche, gioca un ruolo vitale nell’esercizio di una responsabilità condivisa”. Si dice inoltre che in un mondo globalizzato tale politica garantisce la riflessione costante sul rispetto dei diritti umani, sul funzionamento della democrazia nonché sulle radici della violenza e del terrorismo.
    I cardini della politica per il dialogo interculturale sono individuati in tre fattori: l’educazione dei giovani, quale prioritario campo d’azione; il ruolo attivo delle formazioni di società civile e delle istituzioni di governo locale; lo scambio di idee tra intellettuali, accademici artisti, giornalisti: in quest’ultimo contesto, è detto, “il ruolo dei media è cruciale”. In particolare l’educazione deve essere “permanente e quotidiana”, deve “aprire all’epifania dell’altro” (secondo l’espressione di Emanuel Lévinas), trasmettere la capacità di comprendere la molteplicità delle modernità (Eisendstadt), La Dichiarazione si conclude con un appello all’Unione Europea e con una professione d’impegno della comunità accademica, la quale “will contribute without hesitation to the promotion of common values in intercultural dialogue”. A questo fine il Comitato scientifico della Conferenza raccomanda di promuovere e gestire iniziative che sviluppino programmi di educazione permanente ai diritti umani, alla democrazia e alla pace. Viene anche avanzata la proposta di istituire “cattedre interculturali” e addirittura “università euro-mediterranee”.
    Nel documento elaborato dal Gruppo di Saggi attivato nel 2001 dal Segretario Generale delle Nazioni Unite in occasione dell’Anno delle Nazioni Unite per il dialogo tra le civiltà, è affermato tra l’altro: “Nel passato, la percezione della diversità come una minaccia giustificava le guerre, e capita ancora ai nostri giorni... Se si guarda alle atrocità perpetrate nell’ultimo decennio, la risposta alla domanda ‘Perché è necessario un dialogo?’ sembra semplice, perfino evidente. A corollario di questo interrogativo, se ne può porre un altro: ‘Perché ora?’. La risposta è che ‘una mondializzazione senza dialogo rende più probabile l’apparizione di una egemonia”. Le conclusioni dei Saggi delle Nazioni Unite vanno in direzione del macro progetto di ordine mondiale, da loro proposto nei termini di un “contratto sociale mondiale” avente come sede istituzionale di riferimento quella delle Nazioni Unite: “Il dialogo può essere l’occasione di considerare l’Organizzazione delle Nazioni Unite da un diverso punto di vista: il suo carattere universale e la diversità delle culture che vi sono rappresentate potrebbero farne una tribuna feconda dove siano raccolti i frutti di un contratto sociale negoziato al livello mondiale. Questo contratto unirebbe coloro che esaltano la ‘partecipazione’ alla presa delle decisioni e coloro che desiderano vedere le loro azioni ‘legittimate’. In fin dei conti, la ‘partecipazione’ e la ‘legittimità’ sembrano essere i due elementi fondamentali di questo contratto sociale”.
    Per portare avanti il dialogo interculturale con questi orizzonti è necessaria una alleanza strategica tra le università, il mondo della scuola e dell’educazione ai vari livelli, il mondo delle formazioni società civile. Ma l’opera di interiorizzazione e condivisione dei valori umani universali ha bisogno di alimentarsi di un tasso di convincimento, diciamo pure di energia spirituale, che soltanto le grandi religioni trascendentali possono e devono fornire. Il loro contributo al dialogo interculturale è innanzitutto di esempio, e l’esempio si chiama sincero “dialogo interreligioso”. In quest’ottica, la prima grande lezione da dare al mondo è che “abbattere le frontiere tra gli uomini diventa un atto di fede”, qualcosa di sacro e di altamente meritorio.
    L’apporto delle religioni al dialogo interculturale nei termini ora accennati da un lato argina i fondamentalismi, dall’altro viene incontro al bisogno di senso che interpella in particolare le società capitaliste, alla fine contribuisce alla loro “ri-simbolizzazione”, quindi alla sostenibilità dell’identità profonda delle varie culture. E poiché l’essere umano è, più o meno consapevolmente, alla continua ricerca di trascendenza, “il dialogo interreligioso si presenta come un elemento chiave di questa ricerca ormai divenuta collettiva” (dagli atti del Colloquio dell’Unione Europea).
    Tra i più forti e disarmanti messaggi di Giovanni Paolo II c’è quello lanciato il 1° gennaio del 2002: “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”. L’ambito che più si presta a recepire e declinare operativamente questa provocazione è proprio quello del dialogo interculturale, in cui educazione e progettualità politica, revisioni storiche ed esami di coscienza, si coniugano nel segno delle responsabilità condivise e della virtù attiva della speranza.


    T e r z a
    p a g i n A


    NOVITÀ 2024


    Saper essere
    Competenze trasversali


    L'umano
    nella letteratura


    I sogni dei giovani x
    una Chiesa sinodale


    Strumenti e metodi
    per formare ancora


    Per una
    "buona" politica


    Sport e
    vita cristiana
    rubrica sport


    PROSEGUE DAL 2023


    Assetati d'eterno 
    Nostalgia di Dio e arte


    Abitare la Parola
    Incontrare Gesù


    Dove incontrare
    oggi il Signore


    PG: apprendistato
    alla vita cristiana


    Passeggiate nel
    mondo contemporaneo
     


    NOVITÀ ON LINE


    Di felicità, d'amore,
    di morte e altro
    (Dio compreso)
    Chiara e don Massimo


    Vent'anni di vantaggio
    Universitari in ricerca
    rubrica studio


    Storie di volontari
    A cura del SxS


    Voci dal
    mondo interiore
    A cura dei giovani MGS

    MGS-interiore


    Quello in cui crediamo
    Giovani e ricerca

    Rivista "Testimonianze"


    Universitari in ricerca
    Riflessioni e testimonianze FUCI


    Un "canone" letterario
    per i giovani oggi


    Sguardi in sala
    Tra cinema e teatro

    A cura del CGS


    Recensioni  
    e SEGNALAZIONI

    invetrina2

    Etty Hillesum
    una spiritualità
    per i giovani
     Etty


    Semi e cammini 
    di spiritualità
    Il senso nei frammenti
    spighe


    Ritratti di adolescenti
    A cura del MGS


     

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