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    Il contesto mondiale: per quale globalizzazione?


    Riccardo Petrella

    (NPG 2003-01-18)


    Dopo una breve descrizione di che cosa è, a mio avviso, la mondializzazione attuale, analizzerò le sei principali sfide sollevate dall’attuale mondializzazione e poi terminerò con l’esame delle possibilità concrete d’azione che mirano a promuovere una globalizzazione diversa da quella attuale. Ho insistito particolarmente sull’aggettivo “attuale” perché vorrei eliminare immediatamente una mistificazione che consiste nell’accusare di irrealismo anti-storico i movimenti anti-mondializzazione. “Non è possibile – sostengono costoro – schierarsi contro la mondializzazione visto che è già in atto e che costituisce un fenomeno inevitabile”. Questa tesi è doppiamente mistificatrice: da un lato, essa pretende di far credere che la globalizzazione attuale sia un fenomeno “naturale”, che va nel senso “naturale” della storia; dall’altro, essa afferma una falsa relazione, e cioè che “essere contro la globalizzazione attuale significherebbe essere contro la globalizzazione”. La verità è che la globalizzazione attuale non è, e non sarà, la sola forma possibile. L’opposizione alla globalizzazione attuale riguarda i suoi principi fondamentali, le sue finalità e le modalità dei suoi processi, a favore di tutt’altra globalizzazione.

    Definizione della globalizzazione attuale

    * Prima definizione.
    Da una prima approssimazione fondata su una “fotografia” la più fedele possibile (secondo i miei “punti di vista”) dei fatti osservabili, si può affermare che la globalizzazione attuale è l’insieme dei processi che permettono di:
    – produrre, distribuire e consumare beni e servizi a partire dalle strutture di valorizzazione dei fattori di produzione materiali e immateriali organizzate su basi mondiali;
    – per mercati mondiali regolamentati da norme e standard mondiali;
    – da organizzazioni nate o che agiscono su base mondiale con una cultura che vuole essere globalizzante e cerca di obbedire a strategie mondiali;
    – di cui è difficile identificare un’unica territorialità (giuridica, economica, tecnologica) a causa di forme molteplici (evolutive) di legami, d’integrazione e di alleanze in rete che stabiliscono tra loro.

    * Seconda definizione.
    Secondo un approccio che supera “l’osservazione fotografica” si può arricchire la descrizione di ciò che costituisce la globalizzazione attuale, rendendola più vicina alla realtà dinamica, affermando che è un insieme di principi ideologici, di concetti teorici e di istituzioni e meccanismi (quali l’Organizzazione Mondiale del Commercio, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale) fondati sulla supremazia di tre poteri:
    – il potere del mercato, rappresentato dal fatto che quest’ultimo è considerato il dispositivo principale più efficace e pertinente per assicurare la regolazione ottimale dell’allocazione delle risorse locali e mondiali disponibili;
    – il potere dell’impresa, poiché questa è elevata al rango di attore numero uno dell’economia mondiale essendo essa “padrona” della produzione e, quindi, detenendo – anche per iniziativa e con l’accordo dei poteri pubblici – la responsabilità del benessere economico e sociale della popolazione;
    – il potere attribuito al capitale, poiché esso è considerato il parametro di determinazione del valore, che dà all’obiettivo della massimizzazione del profitto lo statuto di obiettivo prioritario.
    La legittimità dei tre poteri deriva unicamente dal fatto che la loro funzione consiste nell’essere al servizio della massimizzazione dell’utilità individuale degli attori “economici” (il produttore, il consumatore, l’azionista) e nel giustificare come “naturale” ed “inevitabile” la lotta per la sopravvivenza tra interessi individuali conflittuali su cui si fonda il tanto affermato principio di competitività, al cui raggiungimento devono essere “finalizzati” e sottomessi i “progressi” della scienza e della tecnologia, in una logica di sostituzione, senza sosta e senza limiti, dei processi, dei prodotti e dei servizi esistenti.

    * Terza definizione.
    I principi ideologici, i concetti teorici, le istituzioni ed i meccanismi messi in atto mostrano che, in ultima analisi, la globalizzazione attuale può essere considerata soprattutto come la narrazione del mondo e della società oggigiorno dominante, sviluppata e diffusa da una nuova classe tecno scientifico capitalista mondiale che si è imposta a partire dagli anni ’70 come classe “proprietaria” del sapere e dei mezzi di finanziamento, grazie, tra l’altro, alla congiunzione di quattro fenomeni importanti, cioè:
    – la tecno scientificazione e la dematerializzazione dell’economia e della condizione umana sotto l’effetto, tra l’altro, della “rivoluzione” delle tecnologie d’informazione e di comunicazione: ciò che ha accelerato la finanziarizzazione dell’economia;
    – la crisi di saturazione dell’economia occidentale, che ha favorito e giustificato l’affermazione dei tre poteri sopraindicati e della “Santa Trinità” (cioè i processi di liberalizzazione, di deregolamentazione, di privatizzazione);
    – la perdita di credibilità politica da parte del socialismo cosiddetto reale (il comunismo totalitario militare-burocratico dell’Unione Sovietica, della Cina, ecc.) come l’alternativa possibile e auspicabile al capitalismo di mercato occidentale;
    – la decolonizzazione mancata, ad opera tanto delle classi dirigenti del “Sud” (la cui creatività ed energia sono state impiegate in questi ultimi 25 anni per la messa in opera di regimi dittatoriali e per le guerre di potere inter statali), quanto di quelle del “Nord” (che, mano a mano che la minaccia dell’alternativa sovietica e cinese svaniva, hanno ceduto le redini agli interessi delle forze capitaliste occidentali, in particolare alla potenza militare, tecnologica, industriale e commerciale degli Stati Uniti).
    La nuova classe mondiale ha localizzato nella potenza stato militare nazionale degli Stati Uniti e delle sue reti il supporto politico istituzionale del suo dominio. Così, non è un caso che questa dominazione si sia tradotta negli ultimi 15 anni nell’emergere e nel consolidamento dell’egemonia mondiale americana e di nuove forme di opposizione ad essa.
    Questa mondializzazione ha sollevato e solleva ancora in ogni paese, città, regione e gruppo sociale organizzato, sei principali sfide che, per loro natura, sono profondamente politiche.

    LE SEI SFIDE DELLA GLOBALIZZAZIONE

    La scelta delle sei sfide (tavola 1) è, beninteso, soggettiva senza tuttavia essere arbitraria. Essa riflette la mia visione della società e del mondo, del tutto differente da quella che sta alla base del funzionamento concreto della globalizzazione attuale.
    Esistono certamente anche altre sfide, e altre analisi potrebbero definire in modo diverso le sei che intendo esaminare e che sono, a mio avviso, le più significative rispetto all’obiettivo della promozione di una globalizzazione diversa.

    Tavola 1: Le sei principali sfide della globalizzazione attuale

    - La vittoria di una nuova “narrazione” dell’economia, della società e del mondo
    (L’equazione nuove tecnologie + globalizzazione = nuova economia)
    - La sottomissione della tecnologia agli interessi del capitale
    (Paradigma dell’offerta competitiva e logica di sostituzione)
    - Il primato del capitale quale parametro di definizione del valore. La regolazione in mano al capitale.
    (Affermazione del principio che la proprietà degli incrementi di produttività
    appartiene al capitale)
    - La riduzione della persona a “risorsa umana”
    (Il post fordismo neo-taylorista)
    - La mercificazione di ogni espressione ed esperienza umana
    (I mercanti “everywhere, anytime”)
    - Il discredito della “res publica” e il rifiuto dei beni comuni
    (L’economia dell’individualismo conquistatore . “Etica “ della sopravvivenza)

    La nuova narrazione

    La prima sfida è rappresentata dalla necessità e dall’urgenza di liberarsi dall’influenza della nuova grande narrazione che pretende che gli ultimi trenta anni abbiano portato al fonte battesimale una nuova economia (e, dunque, una nuova società).
    La nuova economia sarebbe figlia del matrimonio fra la rivoluzione scientifica e tecnologica, esplosa particolarmente negli anni ‘70 con le tecnologie d’informazione e di comunicazione (da qui le tesi sostenute da tutti i dirigenti del mondo sulla “e economia”, l’“e-commercio” , la “e impresa”, la “e formazione”, la “e musica”...) e la globalizzazione (liberalizzazione, deregolamentazione, privatizzazione, competitività).
    La “nuova economia” (nuova società) è considerata tale perché si autoproclama “economia dell’informazione” (la società dell’informazione) e “economia della conoscenza” (la società della conoscenza), a significare che le principali fonti di creazione e di produzione della ricchezza sarebbero oggi l’informazione e la conoscenza.
    Nessuno può negare il fatto che, per la maggior parte dei beni e dei servizi prodotti e consumati dalle più ricche popolazioni del mondo (che costituiscono una piccola frazione della popolazione mondiale, circa il 12 per cento nel 1997), il costo relativo ai fattori detti immateriali è considerevolmente e rapidamente aumentato negli ultimi 25 anni, mentre quello relativo ai fattori detti materiali è crollato massicciamente. Inoltre, è evidente che l’economia attuale è nuova rispetto a quella degli anni ’60 e ’70 sul piano tecnologico, sul piano dei meccanismi finanziari e dell’organizzazione e della gestione delle imprese.
    La situazione presenta, però, molte più sfumature e si fa più complessa, se si considerano altre dimensioni e altre variabili. L’economia attuale non è per nulla nuova dal punto di vista delle dinamiche della creazione delle disuguaglianze e dell’impoverimento. Anzi, essa è in regresso rispetto all’economia degli anni ‘50 e ‘60 e ha accentuato la riduzione della persona umana a “risorsa umana”. Lungi dall’aver ampliato il campo dei diritti umani e sociali, essa ha ridotto tutto (comprese le specie viventi) a merce. Anch’essa mercanzia, la conoscenza è diventata oggetto di un’appropriazione privata generalizzata, grazie ai brevetti sui quali si fonda il diritto di “proprietà intellettuale”.
    Globalmente, la “nuova” economia non ha fatto che ridare forza e potenza al capitale e ai suoi detentori privati accentuando l’espropriazione della democrazia rappresentativa, che fa sempre più la figura di un simulacro. La “nuova” economia ha gettato alle ortiche i principi della sicurezza sociale collettiva e, in qualche modo, solidale. Li ha rimpiazzati (pensiamo ai regimi pensionistici per capitalizzazione) con i principi della sicurezza individualizzata, atomizzata, dipendente dal valore del capitale posseduto. Il tempo “libero” è ritornato a porzioni incongruenti mentre il tempo lavorativo (detto “scelto”), dai mille statuti, precario, flessibile, non ha fatto che aumentare. Secondo un’inchiesta pubblicata dal New York Times nel settembre del 2000, gli abitanti degli Stati Uniti hanno sempre meno tempo per dormire, per mangiare, poiché debbono lavorare di più. Non si tratta dunque di una “nuova economia” e tanto meno di una “nuova società” ma di una chiara involuzione storica regressiva.

    Al di là della sottomissione della tecnologia agli interessi del capitale

    La seconda sfida consiste nel mettere lo sviluppo della scienza e della tecnologia al servizio del benessere sociale collettivo.
    Sappiamo che la scienza e la tecnologia sono regolarmente e sistematicamente sottomesse principalmente al potere militare ed economico. Ci sono tuttavia periodi in cui tale sottomissione ha luogo nel quadro di scelte di società ispirate al primato dello sviluppo del benessere collettivo. È stato, in parte, il caso della politica della scienza e della tecnologia degli anni ’50 e ’60, nel corso dei quali si può dire che la scienza e la tecnologia sono state orientate dai bisogni e dagli obiettivi di miglioramento generale della condizione sociale, economica e culturale delle popolazioni, nonostante il peso enorme e i vincoli rappresentati dalla “guerra fredda”. Dagli anni ’70, la situazione è cambiata. La scienza e la tecnologia sono (ri)diventate, in modo conclamato, gli strumenti messi al servizio prioritario degli obiettivi economici degli agenti privati (le imprese).
    Aderendo interamente alla subordinazione della scienza e della tecnologia all’imperativo della competitività e del miglioramento della redditività del capitale finanziario privato, le attuali classi dirigenti politiche sono convinte che il miglioramento della competitività delle imprese del paese (a livello dei prezzi, della qualità, della varietà, della flessibilità) sia lo strumento più efficace per elevare il benessere economico (e quindi sociale, come sostengono) della popolazione di cui sono responsabili sul piano politico. A partire da questo punto, sono altresì convinti che l’aumento della redditività del capitale finanziario privato è una condizione necessaria per mantenere una capacità d’innovazione scientifica e tecnologica “nazionale” collettiva.
    Ciò facendo, restano dominati da una visione fondamentalmente produttivista e finanziaria della scienza e della tecnologia. Questo spiega il primato accordato all’offerta privata dei prodotti e dei servizi competitivi – rispetto alla soddisfazione della domanda collettiva – e all’odierna cultura guerriera, conquistatrice, delle politiche scientifiche e tecnologiche.
    Non vi è affatto bisogno di dimostrare che la scienza e la tecnologia attuali non sono sviluppate e utilizzate, per esempio nel campo della salute, per combattere le malattie di coloro che nel mondo sono bisognosi, ma piuttosto per permettere ai gruppi farmaceutici mondiali di produrre un prodotto migliore in termini di prezzo, di qualità e di funzione rispetto ad uno già esistente da immettere nei mercati solvibili e redditizi (quelli delle popolazioni più ricche del mondo) allo scopo di sostituirlo e di conquistare così quote più grandi del mercato. Le malattie che l’industria farmaceutica cura con priorità sono le malattie delle popolazioni ricche, che permettono una maggiore redditività del capitale e non le malattie della stragrande maggioranza della popolazione mondiale, in particolare quelle che affliggono 2,7 miliardi di persone che dispongono di meno di 2 dollari al giorno. Lo stesso accade per l’alimentazione, l’educazione, l’energia, l’alloggio…
    Se la scienza e la tecnologia attuali fossero realmente messe a servizio del benessere della popolazione, l’industria farmaceutica, come quella agro alimentare, avrebbero contribuito negli ultimi trent’anni se non a sradicare la fame e le malattie, per lo meno a ridurre considerevolmente il numero di affamati e denutriti ed a sconfiggere malattie epidemiche comuni come la malaria. Invece, in questi ultimi trent’anni, è accaduto esattamente il contrario.
    Molti pensano che, allo stato attuale delle cose, non sia più possibile definire una politica della scienza e della tecnologia al servizio prioritario del diritto alla vita degli 8 miliardi di esseri umani che abiteranno il pianeta nel 2020 (accesso all’acqua, alla salute, all’alimentazione, all’educazione). Sono convinti che il “technological divide” non farà che aggravarsi. Se non vi è cambio di politica, avranno ragione. Ma non è provato che tale cambio sia impossibile, anche se è vero che non sarà facile.

    Il capitale parametro di determinazione del valore e proprietario della produttività

    La terza sfida è quella riguardante la scelta adottata, a partire dalla fine degli anni ‘70, dalle classi dirigenti dei paesi “occidentali”. Essa consiste nell’attribuire ai detentori del capitale finanziario la proprietà degli incrementi di produttività. Una volta, all’interno del Welfare State, gli incrementi della produttività erano in qualche modo proprietà “collettiva”. Erano “socializzati”. Erano l’oggetto di una politica pubblica di produzione e di controllo dei meccanismi di calcolo, di attribuzione e di distribuzione. Tutto ciò grazie alla politica fiscale nazionale, ai regimi pubblici di cassa malattia, di pensione, di disoccupazione, di pari opportunità, alle convenzioni collettive, alla scala mobile dei salari, alle concertazioni sociali.
    In seguito alla liberalizzazione dei movimenti dei capitali, dei beni e dei servizi, così come alla deregolamentazione delle attività economiche e alla privatizzazione di intere falde dell’economia, lo Stato ha concesso al capitale privato la proprietà degli incrementi di produttività e ha accordato ai mercati finanziari la funzione di decidere in materia di ridistribuzione degli incrementi. Oggi appartiene ai detentori del capitale la decisione su se e in che misura ridistribuire gli incrementi sotto forma di aumenti salariali o di tasse devolute allo Stato o di dividendi agli azionisti.
    Questa mutazione ha assunto una svolta particolare in seguito all’allargamento a raggio intero, incluso il materiale vivente, delle regole relative ai “diritti di proprietà intellettuale”.
    In questo contesto, il valore di una risorsa, di un bene, di un servizio, si determina alla luce del contributo conferito all’aumento di valore del capitale finanziario. Ecco perché nelle società attuali occidentali il capitale è diventato il parametro principale di misura/definizione del valore e perché possiamo chiamare “capitaliste” queste società.
    Se queste evoluzioni non saranno modificate, la privatizzazione del potere politico e quindi delle decisioni relative alla vita delle società e delle persone umane, in mano al capitale finanziario diventerà una delle caratteristiche fondamentali del primo ventennio del XXI secolo.

    La trasformazione della persona in “risorsa umana”

    La quarta sfida riguarda l’espropriazione della persona umana, essendo stata questa ridotta, a partire dagli anni ‘60, a “risorsa umana”. Ognuno di noi non è più una “persona”. Siamo tutti diventati delle “risorse umane” il cui diritto all’esistenza è funzionale al grado di utilità (impiego e rendimento) per il capitale. Fintanto che una “risorsa umana” resta utile alla produzione di ricchezza, avrà diritto ad una ricompensa finanziaria e ad una rispettabilità sociale. Questi “diritti” gli saranno tolti non appena diverrà meno redditizia (non fosse altro rispetto alla “risorsa umana” di un altro paese). La peggiore ipotesi per una “risorsa umana” è diventare una “risorsa” dalle competenze obsolete e non essere “riciclabile” al momento giusto, nel giusto luogo, per il giusto compito (perché troppo vecchia, o perché il suo riciclaggio costa troppo al datore di lavoro o per altri motivi). In tal caso sarà esclusa dal circuito di accesso al reddito, ciò che ridurrà la sua capacità di essere un consumatore solvibile e di diventare un azionista interessante: in altre parole, sarà la fine. Perché se una persona non è più un produttore redditizio, un consumatore solvibile ed un azionista interessante, non è più nessuno, secondo la narrazione dominante del capitalismo di mercato “globale”.
    In questo quadro, la funzione principale attribuita al sistema educativo, in particolare per ciò che riguarda l’educazione permanente continuata per tutta la vita, è di formare le risorse umane il più possibile qualificate necessarie alle imprese del paese, per poter competere sul mercato mondiale. L’educazione è diventata soprattutto “formazione” (“training”). Si tratta di una reale trasformazione della funzione. La soluzione della quarta sfida comporta, di conseguenza, una ridefinizione generale delle finalità e dei principi di organizzazione del sistema di educazione e formazione. Implica una riappropriazione dell’educare da parte della persona, dei gruppi sociali, dello Stato in contrasto alla reificazione dell’umano e del sociale operata dalle società “sviluppate” nella corsa competitiva alla tecnologizzazione e alla mercificazione della condizione umana in una logica di sopravvivenza e di potenza.

    La mercificazione di tutto

    Si giunge cosi alla quinta sfida. Questa è determinata dal fatto che in seguito alla tecnologizzazione della condizione umana, la maggior parte delle attività umane e sociali è mercificata. La mercificazione significa anche che l’attività di produzione della ricchezza, misurata in termini di plusvalore del capitale, non potrà essere subordinata – così sostengono i nostri dirigenti – ad alcun limite spaziale e temporale. Il funzionamento del mercato deve essere possibile dappertutto (anywhere) e sempre, in permanenza (anytime). Non si può quindi, essi pretendono, limitare i voli notturni dei cargo di DHL o di TNT perché essi nuocciono alla salute delle popolazioni residenti nei pressi degli aeroporti (per via del rumore, per la perdita di sonno…). La salute di alcune decine di migliaia di persone non può – così è affermato – impedire al capitale di produrre “ricchezza” a beneficio – dicono – di centinaia di migliaia e di milioni di persone

    Il discredito della “res publica”

    Infine, la sesta sfida deriva dal discredito nel quale i nostri dirigenti sono riusciti a gettare, presso l’opinione pubblica, la politica, la “res publica”, i beni e servizi pubblici nel contesto di un coro generale di esaltazione dell’individualismo utilitario e conquistatore.
    Nel corso degli ultimi trent’anni è la stessa classe politica che ha ideologicamente “gettato lo Stato alle ortiche”. Essa ha sposato la tesi:
    – che pubblico, Stato e funzione pubblica sono sinonimi di burocratizzazione, di pesantezza e lentezza decisionali, d’inefficacia;
    – che è urgente abbandonare il concetto di sicurezza sociale collettiva e di protezione sociale e che è invece necessario stimolare l’iniziativa e la responsabilità individuale. E che, a tale scopo, lo Stato debba passare dal “Welfare State” allo “Stato sociale attivo” dove il ruolo dello Stato consiste, piuttosto, nel creare un ambiente di regolamentazione favorevole all’“empowerment” individuale;
    – che il miglior modo di assicurare l’accesso di tutti ai beni vitali è lasciare agire i meccanismi di mercato e abbandonare il principio di proprietà comune, sociale, dei beni e dei servizi “collettivi”;
    – che l’era del governo ad opera delle istituzioni politiche è terminata, e che è necessario passare all’“era della governanza” in cui, secondo le tesi predominanti, toccherebbe all’insieme degli attori della società (attori economici, attori politici pubblici, attori della società civile... ) la responsabilità di assicurare la gestione della “politica”, nell’ambito di reti d’informazione, di comunicazione e di decisione spontanee, flessibili, mutevoli, auto regolate. In questo quadro, lo Stato sarebbe uno degli attori, alla stessa stregua degli altri attori. La democrazia rappresentativa dovrebbe essere rinnovata e, per certuni, sostituita dalla democrazia associativa, dalla democrazia comunitaria autoregolata.
    Le sfide poste dalla globalizzazione attuale sono dunque molto importanti. Sono portatrici di grossi sbandamenti sul piano politico, sociale, economico ed etico.

    PER “UN'ALTRA GLOBALIZZAZONE

    Una narrazione alternativa: la sicurezza di vita a tutti

    I potenti credono all’inevitabilità dell’incertezza (dei diritti soprattutto) quale caratteristica generale ed universale della società e del passaggio dal sistema dei diritti doveri a quello degli incentivi e disincentivi dell’interesse individuale. In compenso, i contadini del Brasile riuniti nel Movimento dei Senza Terra, i contadini dell’India che hanno lottato, con successo, contro la brevettazione delle sementi locali, gli operai della Corea del Sud, le popolazioni dell’Indonesia, le associazioni delle madri cilene dei desaparecidos, le associazioni che nel Quebec lottano contro i progetti di privatizzazione dell’acqua potabile e quelle che sono riuscite ad arrestare la privatizzazione dell’acqua nei Paesi Bassi, le migliaia di cittadini membri della nuova associazione francese ATTAC mostrano – se necessario – che ciò che interessa in primo luogo ai cittadini di molti paesi non è né la competitività delle imprese né il reddito del capitale, ma la sicurezza di vita per tutti. Una sicurezza di vita che passa attraverso il diritto di accesso ai mezzi che permettono, anche, di soddisfare i bisogni di base comuni a tutti.
    Si tratta della sicurezza in tutte le dimensioni: sicurezza fisica individuale (accesso all’acqua, diritto alla casa, protezione contro i rischi di incidenti naturali e le aggressioni degli altri esseri umani), sicurezza di gruppo, militare ed ambientale (difesa contro le eventuali aggressioni da altri popoli, e protezione, copertura contro le catastrofi naturali sempre più create o facilitate dall’azione umana), sicurezza alimentare (non dipendere strutturalmente dal commercio per assicurare il cibo di base alla popolazione di un paese, protezione contro le manipolazioni alimentari), sicurezza culturale (libertà di sviluppo della propria identità culturale e rispetto di quella degli altri, dialogo e cooperazione fra le culture), sicurezza economica (nessuna forza finanziaria o economica ha il diritto, con suoi propri atti allo scopo di massimizzare il suo interesse, di destabilizzare o mettere in crisi l’economia di una popolazione), sicurezza delle libertà (contro gli abusi e i danni delle bio-tecnologie, delle tecnologie energetiche, delle tecnologie dell’informazione…).
    Verso il 2020 25, la popolazione mondiale sarà composta di 8 miliardi di persone (se nel frattempo epidemie, carestie e guerre non avranno disposto diversamente). La vera questione per la società e per l’economica mondiale odierne non è di assicurare l’integrazione competitiva delle economie locali nel mercato mondiale, ma di sapere con quali altri principi, quali altre regole e quali altre istituzioni diverse da quelle dell’economia di mercato capitalista – senza cadere nell’economia collettivizzata staliniana e post-staliniana – gli otto miliardi di persone potranno promuovere un’economia di cittadinanza fatta da e per i diritti alla vita (degna di essere chiamata umana) per tutti.
    In altre parole, la questione è sapere su quali basi e con quali strumenti si può costruire il vivere insieme di 8 miliardi di persone.

    Una “utopia” possibile: il contratto sociale mondiale

    Occorre cominciare da altre priorità: l’acqua, il disarmo finanziario, il GATCH (General Agreement on Technological Change).
    Per questo bisogna, innanzitutto, rifiutare la retorica dominante, le sue parole chiave, i suoi simboli, tra i quali, in primo luogo, la competitività. Poiché l’economia del mercato mondiale è incapace di creare la ricchezza comune mondiale, poiché desidera l’espansione continua della ricchezza privata (il plusvalore del capitale privato), è legittimo e corretto che il cittadino le rifiuti il potere di governare l’economia mondiale. Credere nell’esistenza di una compatibilità tra competitività e coesione sociale, tra competitività e solidarietà è ingenuo, falso o mistificante. La competitività è portatrice di una logica di guerra per la sopravvivenza. Si fonda sull’esclusione dei meno competitivi.
    Lo sviluppo della ricchezza comune mondiale non passa attraverso guerre tecnologiche, commerciali, finanziarie, economiche. Passa attraverso la (re)invenzione di nuove forme di economia cooperativa, solidale, mutualista, gratuita, fondata su un “contratto sociale mondiale” ed una nuova architettura politica strutturata attorno ad un sistema cooperativo di governo decentralizzato e diversificato mondiale. Beninteso, né il “contratto” né “l’architettura” potranno essere realizzati in pochi anni. Si tratta di un processo d’innovazione collettiva partecipata a lungo termine.
    Per contratto sociale mondiale si intende la definizione e messa in opera di quattro contratti maggiori:
    – il contratto dell’avere (avere accesso all’acqua, all’alimentazione, alla salute, all’educazione, all’alloggio...);
    – il contratto culturale (promuovere il vivere insieme nel rispetto della diversità e dell’ibridazione delle culture);
    – il contratto democratico (realizzare una democrazia partecipata e governante a livello mondiale);
    – il contratto della terra (applicare non fosse altro che l’Agenda 21, approvata nel 1992 al primo Vertice della Terra a Rio di Janeiro).

    L’esempio dell’acqua è chiarificatore. L’acqua potabile sana è, al momento, un bene vitale che manca a circa 2 miliardi di persone.
    Ora, i dirigenti dei paesi del mondo sviluppato tendono a imporre la privatizzazione dei servizi di acqua come soluzione alla crescente penuria d’acqua, la cui rarità è soprattutto frutto di fenomeni di inquinamento e di consumo delle risorse disponibili, provocate dall’irrigazione in agricoltura (70% del prelevamento totale mondiale di acqua dolce) e dalle attività industriali (20% dei prelevamenti mondiali), entrambi fattori interamente subordinati alla logica del capitale privato.
    Non è certo trasformando l’acqua in bene economico commerciabile retto dal “giusto” prezzo di mercato che l’accesso all’acqua sarà garantito a 3,5 miliardi di persone entro l’anno 2020 2025. L’acqua deve diventare ciò che non è mai stata, un bene comune patrimoniale e vitale dell’umanità. L’accesso all’acqua deve essere considerato un diritto di vita di base individuale e collettivo inalienabile.
    L’acqua è più che una risorsa naturale, è un diritto umano e sociale. La sua gestione supera l’ambito della gestione delle risorse naturali e della politica ambientale. La sua gestione fa parte dei diritti umani riguardanti la democrazia e la cittadinanza. L’acqua deve e può diventare il primo esempio di come la società mondiale sia capace di organizzare il “vivere insieme” grazie alla gestione solidale ed efficace di un bene comune.

    - Quello che precede ha poche possibilità di riuscita se, contemporaneamente, non si procede al disarmo della potenza finanziaria.o

    A tal fine, le seguenti misure debbono essere considerate priorità:
    * prelievo di una tassa del 0.5% sulle transazioni finanziarie. Questa misura è stata proposta nel 1983 dal premio Nobel dell’economia, Mr Tobin. Nella versione formulata dal movimento ATTAC, una tale tassa permetterebbe di costituire per qualche anno un Fondo Mondiale della Cittadinanza dotato di parecchie decine di miliardi di dollari per finanziare gli interventi destinati ad assicurare a tutti la sicurezza della vita di base. Il prelievo di questa tassa è tecnicamente fattibile. La decisione al riguardo deve essere presa al livello dei G7 per superare in tale modo l’alibi utilizzato da ogni paese separatamente nell’affermare che non si può prendere tale iniziativa senza rischiare una fuga di capitali dal paese;
    * eliminazione dei paradisi fiscali. Ci sono 37 paradisi fiscali nel mondo. La loro esistenza costituisce una forma legalizzata di criminalizzazione crescente dell’economia (evasione fiscale, speculazione, commercio della droga, commercio illecito di armi). Grazie ai paradisi fiscali il mondo finanziario è sempre più abitato da predatori fra i quali le imprese industriali che creano ricchezza reale. Le vere industrie non hanno interesse che il sistema finanziario attuale si mantenga e si sviluppi. Ora, che fanno i governi dei paesi più sviluppati? Invece di eliminare i paradisi fiscali, contribuiscono alla loro moltiplicazione creando centri di coordinamento finanziario internazionale dove le holding finanziarie multinazionali possono eleggere domicilio senza essere tassate sui profitti. Così, si assiste ad una feroce concorrenza fra paesi – soprattutto europei – in materia di facilitazioni e di riduzioni fiscali. Invece bisognerà lottare contro la competitività crescente fra i sistemi fiscali nazionali. Questo dovrebbe essere il compito di un’integrazione europea socialmente valida e politicamente democratica, attraverso una politica fiscale comune giusta e redistributiva. L’Unione europea fa, oggi, il contrario: sta stimolando la concorrenza aperta sul mercato unico, tra fiscalità nazionali, all’unico scopo di “compiacere il capitale”;
    * mettere fine al segreto bancario. Il rispetto del principio della libertà di proprietà e del diritto alla confidenzialità può essere assicurato senza per questo mantenere il segreto bancario. Una vera politica fiscale progressista, fondata sulla giustizia sociale e sulla solidarietà tra gli individui, le generazioni e le popolazioni dei paesi europei sempre più interdipendenti ed integrati sul piano economico, non può risparmiarsi l’abolizione del segreto bancario;
    * rendere pubblica e trasparente la valutazione dello “stato di salute” degli operatori e dei mercati finanziari. Oggi esistono tre grandi società private di esperti finanziari che stabiliscono la classificazione (il rating) dei diversi paesi ed istituzioni finanziarie del mondo, in funzione di quella che questi esperti considerano la “salute finanziaria” del paese. Lo fanno senza rendere conto a nessuna autorità politica e monetaria, ma unicamente al servizio dell’obiettivo della redditività del capitale finanziario privato, e non con l’occhio rivolto al rispetto dell’interesse generale.
    L’insieme delle misure proposte dovrebbe essere completato con la creazione di un Consiglio Mondiale per la Sicurezza Economica e Finanziaria (o Consiglio Mondiale per la Sicurezza dell’Esistenza) con il compito di vegliare ed assicurare che la finanza sia messa al servizio della promozione del Welfare sociale mondiale.

    - Un ruolo maggiore deve, parimenti, essere assolto da un’altra politica dell’innovazione tecnologica non più subordinata agli interessi delle imprese private ma messa al servizio del Welfare sociale mondiale grazie, fra l’altro, alla ri appropriazione del controllo collettivo del tempo e dello spazio.o
    Come abbiamo visto, l’uso attuale della tecnologia solleva un problema strutturale maggiore riguardo all’occupazione e al tempo. La tecnologia, in larga misura, determina il volume della domanda di lavoro umano necessario per produrre i beni e i servizi che ci circondano. Il volume totale del tempo di lavoro umano richiesto è diventato un risultato “residuale” della tecnologia. Nel 1971, erano necessarie più di 110 ore di lavoro umano per produrre un’auto. Oggi, sono necessarie solo 14 ore, e forse fra dieci anni solo 8 9 ore.
    Fino a quando e come le nostre società potranno lasciare che il volume totale del tempo di lavoro umano sia una variabile dipendente della tecnologia e, nello stesso tempo, continuare a considerare che il lavoro remunerato costituisce per l’individuo il biglietto d’ingresso principale nella società (accesso al reddito, posizione sociale, utilità sociale, auto-realizzazione, accesso ai beni sociali)?
    Una delle ragioni fondamentali dello stato di incertezza e di insicurezza insediatosi in seno alle nostre società, risiede precisamente nel fatto che tutti noi, pur continuando a sostenere la centralità di un impiego remunerato, lasciamo alla tecnologia la possibilità di rendere altamente precario il mercato del lavoro, di ridurre la durata di vita delle competenze, di accentuare la flessibilità dei modi di produzione, di svuotare di significato il legame fra produzione, impiego e territorio, riservando ad un numero sempre più ridotto di persone l’accesso ad un lavoro relativamente stabile, ben remunerato e “produttivo”.
    Siamo sicuri che la riduzione del tempo di lavoro, in assenza di una ri-appropriazione pubblica – cioè comune e democratica – delle finalità della scienza, della conoscenza e dell’innovazione tecnologica, sia una buona strada? Non bisognerebbe piuttosto riflettere e ridefinire il ruolo che diamo alla tecnologia, l’uso che ne facciamo e le finalità di redistribuzione degli incrementi di produttività?
    Invece di utilizzare la tecnologia per conquistare delle quote di mercato nei mercati solvibili saturi dei paesi sviluppati – una scelta “politica” cui hanno anche largamente aderito i sindacati – è urgente mettere in opera una politica di innovazione tecnologica che miri a soddisfare, prioritariamente – i bisogni non o mal soddisfatti di tutte le popolazioni. Ridare vigore all’economia locale (ad esempio ad una agricoltura messa al servizio della produzione locale destinata innanzitutto non all’esportazione ma ai bisogni alimentari delle popolazioni locali) costituisce una necessità sempre più evidente per le politiche tecnologiche attuali.
    Invece di negoziare la riduzione delle barriere e delle tariffe doganali, i dirigenti del mondo dovrebbero lavorare ad un negoziato mondiale sul cambiamento tecnologico per il Welfare poiché, finché il lavoro remunerato resta e rimarrà per molte generazioni ancora il mezzo principale d’accesso al reddito, le nostre società hanno l’obbligo di garantire il pieno impiego per tutti su scala mondiale. Tale è il significato profondo della sfida della produttività di questo inizio secolo.

    Verso la “Prima planetaria”

    Chi può rendere possibile la realizzazione del contratto sociale mondiale, elemento centrale dell’“altra mondializzazione”? Dove sono gli attori che si battono per far riconoscere l’acqua come bene comune patrimoniale dell’umanità e realizzare l’obiettivo di distribuire l’acqua potabile a tutti? Chi è pronto ad agire per disarmare il potere attuale della finanza? Quali attori prenderanno l’iniziativa di un negoziato mondiale sul cambiamento tecnologico per la piena occupazione?
    La questione è fondamentale anche perché, se questi attori ci fossero, la situazione attuale mostra in ogni modo, almeno apparentemente, la loro debolezza. Infatti, se il mondo ha conosciuto il ritorno delle ineguaglianze nell’ambito di un’economia capitalista del mercato mondiale trionfante, è perché gli attori capaci di influenzare l’evoluzione delle nostre società nel corso degli ultimi trent’anni hanno ragionato ed agito in favore di tale trionfo e non in favore di “un altro mondo”.
    Ad un’analisi più approfondita si può dire che gli attori capaci di agire per un’altra mondializzazione esistono e sono più forti di quanto i dominanti ed i loro media riescono a far credere quando dicono che i difensori di un’altra mondializzazione sono una piccola, sparuta minoranza di agitatori di retorica.
    Questi attori sono articolati principalmente in quattro gruppi: i resistenti, gli innovatori/sperimentatori, gli illuminati, i militanti.

    I resistenti

    I resistenti si trovano in modo particolare presso le vittime, principalmente presso i contadini e gli operai latino americani, asiatici, africani, ma anche presso i contadini, gli operai e gli impiegati dei paesi sviluppati.
    Sono loro che danno corpo alle mobilitazioni politiche e sociali delle lotte per le riforme agrarie, contro la privatizzazione dell’acqua, contro gli Organismi Geneticamente Modificati. Se le manifestazioni di Seattle sono riuscite a far saltare quello che sarebbe dovuto essere il “Negoziato del Millennio”, è anche perché per la prima volta in trent’anni i sindacati operai americani sono usciti dal loro sonno conservatore e corporativo, ed hanno ripreso il gusto delle rivendicazioni sociali.
    I resistenti li troviamo presso le popolazioni indigene autoctone dell’America del Nord e del Sud, come anche presso gli immigrati in Europa occidentale. Li troviamo presso le donne la cui “marcia mondiale” del 2000 è stata l’affermazione di successo della mondialità della condizione femminile e della volontà delle donne di rovesciare le realtà presenti per costruire un’“altra globalizzazione”. Li troviamo presso i disoccupati dei paesi ricchi come anche presso i “senza lavoro” permanenti delle grandi megalopoli dei paesi del Sud, i senza tetto del Nord e i “sans papiers” del Sud venuti a cercare lavoro e benessere al Nord. Li troviamo presso gli addetti ai servizi ospedalieri e presso gli insegnanti che sono tra le prime vittime dello smantellamento del welfare.
    I focolai di resistenza sono numerosi. Alcuni sono forti e durevoli. La resistenza è anche una difesa dei diritti umani e sociali. In questi ultimi anni i focolai di resistenza si sono moltiplicati, sono diventati più consistenti, più collegati tra di essi, al di là e attraverso le frontiere. Il primo “Forum Sociale Mondiale” a Porto Alegre, in Brasile, all’inizio del 2001, e la decisione di dargli continuità e permanenza con la moltiplicazione di forme nazionali di “Forum Sociali”, sono un segno particolarmente incoraggiante.

    Gli sperimentatori/innovatori

    È significativo il fatto che in molti casi i focolai di resistenza siano diventati dei focolai di sperimentazione di soluzioni alternative, nuove. I resistenti hanno voluto abbandonare lo stadio della protesta e della denuncia per costruire un altro divenire. È la categoria degli sperimentatori/innovatori.
    Nei paesi del Nord abbiamo ad esempio i promotori dei SEL (Systèmes d’Echange Local), delle monete locali, delle reti di conoscenza, delle nuove forme di educazione popolare, dei gruppi artistici e teatrali, della finanza etica, del commercio equo, della democrazia partecipata, dell’economia sociale, delle imprese sociali e così via.
    Nei paesi del Sud gli innovatori/sperimentatori sono ancora più numerosi: in Messico come in Perù, in Corea del Sud come in Senegal, in Bangladesh come in India. I media del Nord ne parlano poco. Le loro sperimentazioni e innovazioni non fanno parte delle “success stories” di cui si avvalgono i giovani impresari di 28 anni usciti dalla Harvard Business School, dall’INSEAD o dal “vivaio” della Silicon Valley e che sono diventati, in pochi anni, “piccoli miliardari” poiché hanno saputo emergere nel mondo dei “networks” dell’immagine, della comunicazione e della finanza. Nel Sud c’è il “bilancio partecipativo” di Porto Alegre, la gestione ambientale di Villa Sanflora presso Lima, delle comunità agricole nel Burkina Faso, dei contadini in lotta contro Monsanto in India.
    Gli innovatori/sperimentatori stanno costruendo nuovi campi del “vivere assieme”, nuove maniere di fare agricoltura, di costruire quartieri cittadini, di mettere in piedi società di mutuo, di fondare scuole o una nuova pedagogia, di valorizzare Internet. Anch’essi cominciano a stabilire dei legami tra di loro, benché le loro esperienze rimangano ancora locali, e specifiche del loro contesto.
    Gli innovatori/sperimentatori che riescono a “fare storia” e a “costruire memoria”, anche presso gli altri attori negli altri paesi, sono spesso coloro che hanno trovato un’eco favorevole e un sostegno, seppure indiretto, presso i membri e i gruppi della società dei dominanti che potremmo chiamare gli illuminati, cioè coloro che, pur da una posizione privilegiata, si rendono conto dei mali strutturali del sistema e hanno deciso di agire allo scopo di correggerlo, di modificarlo.

    Gli illuminati

    Una buona parte degli illuminati è presente fra i burocrati, soprattutto in seno alle organizzazioni internazionali e mondiali (anche se si ha l’impressione che in questi ultimi anni il numero di illuminati in seno alle istituzioni dell’Unione Europea sia diminuito). Il grosso degli illuminati si trova presso i “lavoratori sociali”, gli insegnanti, i professori universitari, gli intellettuali. La situazione è piuttosto ambigua nel mondo dei media: si possono certo incontrare anche persone “illuminate” sulle quali i resistenti e gli innovatori/sperimentatori possono, in parte, contare. Ma la forza di influenza e di controllo sulle opinioni esercitata dai media dominanti è tale che questi pochi illuminati riescono difficilmente a far modificare di un pollice le linee editoriali delle loro testate.
    In molti paesi gli illuminati provengono principalmente dal mondo delle chiese, delle comunità religiose (non parlo di sette). Essi occupano un posto sempre più innovativo e stimolante. Senza dubbio, il ritorno dello spirituale fa beneficiare coloro che, in seno alle grandi confessioni religiose mondiali, sono portatori (portatrici) di valori umani e sociali. È il caso, in America latina ed in Africa, dei cristiani cattolici.
    Gli illuminati si trovano anche nel mondo degli imprenditori. Gli “imprenditori illuminati” sono, beninteso, una esigua minoranza ma esistono, specie nelle piccole e medie imprese. Per gli imprenditori delle grandi imprese multinazionali qualsiasi visione contraria alla politica di conquista competitiva e di reddito massimale del capitale è presto scartata, penalizzata. Ecco perché non è possibile un dialogo con tale categoria di imprenditori. Un tale dialogo è solo un “tranello” da dove coloro che cercano di promuovere un’“altra mondializzazione” escono come minimo perdenti e strumentalizzati. Molti degli illuminati si comportano da testimoni militanti. Giungiamo così al gruppo delle militanti e dei militanti.

    I militanti

    I ranghi dei militanti si sono ingrossati negli ultimi anni a mano a mano che i partiti politici e i sindacati perdevano forza mobilitante, credibilità e capacità d’azione innovatrice. Portati piuttosto a posizioni di difesa dei poteri e dei diritti acquisiti, i partiti politici e i sindacati hanno lasciato un vuoto considerevole al livello di impegno cittadino e delle lotte di rivendicazione. Questo spazio – cresciuto a causa del ritorno delle ineguaglianze – è occupato sempre più dai militanti della società civile. Un esempio illustra in maniera chiara la situazione descritta. L’opposizione all’AMI – Accordo Multilaterale sugli Investimenti (o MAI, secondo l’acronimo inglese) non è stata opera dei partiti politici progressisti né, tanto meno, dei sindacati dei lavoratori. È stata concepita e portata avanti con successo dalle organizzazioni della società civile con la partecipazione attiva dei resistenti, degli innovatori/sperimentatori e degli illuminati. Lo stesso vale per la mobilitazione condotta con successo da più di 1200 organizzazioni della società civile contro le politiche seguite dal WTO.
    La crisi esplosa negli anni ’70 in seno alla grande nebulosa delle associazioni dette umanitarie – diventate consapevoli dei limiti dell’azione umanitaria che non cerca di posizionarsi rispetto alle cause dei fenomeni di miseria, di esclusione e di ingiustizia contro i quali lottano con grande impegno – è un fatto nuovo, incoraggiante, perché ha condotto all’ermergere di nuove pratiche di mobilitazione politica e sociale dei cittadini su scala internazionale. Il successo sorprendente dell’associazione ATTAC in Francia ed in tanti altri paesi del mondo attorno alla proposta di una tassa mondiale sui movimenti finanziari speculativi, ne è una dimostrazione eclatante. L’esistenza del fax, del corriere elettronico e di Internet ha contributo molto al successo delle nuove forme di lotta contro l’attuale globalizzazione.
    A mio avviso, assistiamo alla nascita di quello che, durante i lavori preparatori dell’“altra Davos”, nel febbraio 2000, chiamai (proponendo di promuoverla) la “Prima planetaria”. Il successo del Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre (25-30 gennaio 2001) mostra che un primo importante passo è stato compiuto nella direzione della “Prima planetaria”, confermato dal Forum successivo del gennaio 2002 sempre a Porto Alegre.
    La “Prima planetaria” significa un processo attraverso il quale le centinaia e centinaia d’organizzazioni che lottano nel mondo per un’“altra globalizzazione plurale” si incontrano ed agiscono in modo sempre più coordinato e regolare e, così facendo, costruiscono una capacità comune di mobilitazione “politica” dei cittadini su scala planetaria per far avanzare la realizzazione di nuove realtà sociali, economiche, culturali e ambientali. Non a caso il secondo Forum sociale mondiale è stato convocato all’insegna del motto: “Un altro mondo in costruzione”.
    La mobilitazione globalizzata è nata. Oramai essa è presente, attiva. Essa fa parte dei dibattiti, dei progetti, dell’ordine del giorno di un numero sempre crescente di organizzazioni e di sindacati. La “Prima planetaria” si sta definendo e si sta costituendo nella coscienza e nell’azione quotidiana dei resistenti, degli illuminati, degli innovatori e dei militanti.
    Non credo che i dibattiti nati dopo le violenze che hanno accompagnato le manifestazioni contro la globalizzazione attuale a Göteborg, a Praga ed in particolare a Genova, abbiano indebolito o interrotto la dinamica della “Prima planetaria”. È vero che il dibattito attorno alla violenza ha fatto emergere in piena luce le diversità di opinione, di scelte politiche e di finalità che erano state annullate o attenuate negli anni ’90, nella prima fase della nascita e dello sviluppo dei movimenti di opposizione contro gli effetti negativi della globalizzazione della finanza, del commercio, delle imprese, delle tecnologie.
    Ora che la lotta contro la globalizzazione attuale è passata dalla fase della protesta alla fase della costruzione delle alternative (che richiede il passaggio della riforma radicale della globalizzazione attuale), una parte delle forze sociali “illuminate” ma moderatamente riformiste che facevano parte del movimento, incapaci di compiere questo passo, non si trovano più a loro agio nel movimento.
    Si tratta di un fenomeno comune a tutte le lotte politiche e sociali. La divisione tra riformatori veri e fasulli, tra riformatori caldi e tiepidi, tra riformatori e rivoluzionari, tra i seguaci dell’azione “legalista” e “illegale”, tra quelli che si usa definire “non-violenti” e coloro che sono pronti, se obbligati, a ricorrere a forme di “violenza illegale”, c’è sempre stata. Prima o poi questa divisione doveva emergere con vigore anche all’interno del movimento contro questa globalizzazione. Centocinquanta anni di lotte dei lavoratori lo hanno dimostrato a sufficienza.
    Si tratta di un’evoluzione positiva, anche se al momento si traduce in un indebolimento che aiuta i globalizzatori dell’economia capitalista di mercato. Ma non riuscirà ad indebolire le fondamenta del movimento, anche perché le ragioni che hanno condotto alla formazione e ai successi di questo movimento, non sono sparite.
    E di certo non spariranno nei prossimi quindici, venti anni.
    Ormai si tratta di un dato storico evidente: coloro che si battono per un’altra mondializzazione sono forti perché rappresentano la coscienza morale della società “mondiale” contemporanea, perché sono non solo “gli strillatori” dei principi di fraternità, di libertà, di giustizia, di eguaglianza per tutti e con tutti, ma anche e soprattutto perché sono i portatori di una nuova immunologia cittadina.
    L’immunologia cittadina è oggi piuttosto indebolita. Gli oppositori della globalizzazione attuale mantengono vivi gli anticorpi immunologici, e in questo senso conservano, in seno alle nostre società, la capacità di non tollerare le attuali forme, le attuali logiche dell’esclusione e della violenza divenute sistematiche nei confronti degli esseri umani, della Natura, del futuro.

    (Tratto dagli Atti del Seminario Internazionale “Economia solidale. Percorsi comuni tra nord e sud del mondo per uno sviluppo umano sostenibile”, Cachoeira do Campo, Brasile, 7-13 agosto 2001, organizzato dall’Istituto delle FMA – Roma, Editrice EMI, Bologna 2002, 33-57. Per gentile concessione)


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