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    La terra amata e abitata da Dio



    Nazzareno Marconi

    (NPG 2004-08-54)


    Nella Bibbia la storia dell’umanità è profondamente legata al tema della terra, fin dal racconto della creazione dell’uomo che è chiamato Adam (Gn 1,26; 2,7) perché è tratto dalla terra ‘adamah (Gn 2,7; 3,19; cf Is 64,7; Ger 18,6), intesa soprattutto nella sua caratteristica di terreno coltivabile, che produce e sostiene la vita. Se la Bibbia è il racconto dell’uomo, è dunque anche il racconto della terra che egli coltiva e sulla quale vive. Quando poi quest’uomo diventa un uomo specifico, come Abramo (Gn 12,1), o un popolo specifico come quello israelita, anche la terra non è più soltanto il suolo coltivabile, ma un paese ben definito, con suolo e deserto, lago e montagne: la terra di Israele, ‘erez Israel.
    Ma soprattutto poiché la Bibbia è il racconto di Dio in relazione con l’uomo, questa relazione passa necessariamente attraverso un rapporto di Dio con la terra e con questo paese particolare, che diventa il cuore di tutta la terra, il luogo della sua presenza. La Bibbia è allora il racconto di una terra amata ed abitata da Dio. Il Dio biblico infatti, a differenza degli dei dell’Olimpo greco, non vive lontano dall’uomo e dal mondo. Fin dal racconto del giardino di Eden la Bibbia presenta un Dio che passeggia con l’uomo (Gn 3,8) e questo cammino di Dio sulla terra degli uomini continua ben oltre il racconto del peccato di Adamo (Gn 5,22).
    Seguire il cammino di Dio e dell’uomo sulla terra, permette perciò di comprendere come la Bibbia tracci le tappe di un cammino interiore destinato a condurre ogni uomo alla pienezza della relazione con Dio, col mondo e con gli altri. Non si tratta infatti soltanto di scorrere lungo le pieghe di una storia particolare e lontana, ma di comprendere una storia sacra, capace cioè di parlarci ancora oggi del mistero di Dio e di quello dell’uomo che gli è profondamente legato.

    La terra, creazione di Dio per l’uomo

    Il racconto della storia primordiale (Gn 1-11), una vera introduzione alla storia della salvezza, fonda le condizioni e le relazioni tra tutti i protagonisti delle narrazioni seguenti. In esso la relazione di creazione tra Dio e l’uomo fa da perno alla relazione tra Dio e la terra e tra l’uomo e la terra. Il messaggio della creazione, in ambedue i racconti (Gn 1 e Gn 2), afferma con chiarezza che la terra dipende interamente da Dio, è cosa sua: “a lui appartiene la terra” (Sal 23,1; 88,12; cf Lev 25,23).
    Nella visione di un Dio creatore, presentato con le caratteristiche di un artista che plasma dall’argilla la sua opera (Gn 2,7; 2,9; Rm 9,20), appare una relazione molto profonda tra Dio e la terra. Come ogni artista Egli si rispecchia nella sua opera, al punto da creare l’uomo prendendo se stesso come modello. Il possesso che Dio ha della terra è quindi fin da subito non soltanto giuridico, ma anche affettivo.
    La relazione di dominio del Creatore con la terra si esprime in molti modi. Egli ha su di essa un diritto assoluto perché è il solo a disporre dei suoi beni (Gn 2,16 ss) e a stabilire le sue leggi (Es 23,l0). Per questo è il Creatore che la fa fruttificare (Sal 64; 103) portando avanti l’opera meravigliosa della creazione verso un perpetuo annuale compimento. In una parola il Creatore è anche il Signore della terra, ha con essa una relazione di dominio che dura nel tempo (Giob 38,4.7; Is 40,12.21-26) ed essa è lo sgabello dei suoi piedi (Is 66,1; At 7,49). Per questo l’uomo sperimenta continuamente nella contemplazione del creato i segni della presenza viva del suo creatore (Rm 1,18ss).
    E come ogni artista si esprime per un pubblico che contempli la sua opera, così la creazione viene offerta al “pubblico intelligente” costituito dalla prima umanità perché ne faccia oggetto di contemplazione e quindi di lode al Creatore.
    Come tutta la creazione anche la terra deve rendergli lode (Sal 65,1-4; 95; 97,4; Dan 3,74), ma ciò si compie soltanto quando l’uomo le presta la sua voce (Sal 103).
    L’uomo e la terra sono dunque profondamente vincolati. Fin dall’inizio la loro storia scorre assieme. Se infatti l’uomo deriva dalla terra, Dio gliela consegna altresì come compito: egli deve dominarla (Gn 1,28 ss), essa è come un giardino di cui egli è costituito amministratore (Gn 2,8.15; Sir 17,1-4).
    Ma nel corso della storia e fin dai primordi l’umanità sperimenta anche un rapporto difficile con la terra, la natura gli appare ingrata. Perché, sempre secondo la storia primordiale, è stata segnata dal peccato dell’uomo, perciò essa non è più un paradiso, ma un luogo di spine e cardi (Gn 3,17s). Certo la terra rimane attualmente governata dalle stesse leggi provvidenziali che Dio ha stabilito alle origini (Gn 8,22), e quest’ordine del mondo continua a rendere testimonianza al creatore (Rm 1,19s; At 14,17). Tuttavia essa è ora un luogo di prova, in cui l’uomo soffre fino a che ritorni infine al suolo da cui è stato tratto (Gn 3,19; Sap 15,8).
    Il racconto emblematico di questo difficile rapporto è soprattutto quello di Caino (Gn 4). Egli come Adamo è l’uomo della terra, il coltivatore legato al suolo, ancor più del fratello Abele che come pastore cammina sulla terra, ma non si china su di essa per ararla, piantarla e mieterla. È proprio questa profonda relazione che viene infranta dal peccato in maniera tragica, è lo stesso suolo che ha accolto il sangue di Abele a gridare a Dio la colpa di Caino (Gn 4,10) e la sua punizione è diventare un vagabondo (Na’) e un fuggiasco (Nad) (Gn 4,14) che corre sulla faccia della terra, ma non ha più una relazione positiva con essa: abita il paese di Nod (Nôd) (lett. “terra del vagabondaggio”), lontano dal Signore e dall’Eden.
    Continua cosi ad affermarsi la profonda solidarietà dell’uomo con la terra, sia nel bene che nel male.

    La terra, dono promesso

    Nella Bibbia, dopo la grande introduzione della storia primordiale, la storia della salvezza comincia con la vocazione di Abramo, e questa si connota come un cammino verso una “terra particolare e definita”, una terra che gli viene promessa insieme alla posterità, come condizione di vita di questa stessa posterità (Gn 12,1-2). La Benedizione di Abramo riguarda una nuova vita che inizia, ma anche una nuova relazione con la terra dopo le conseguenze del peccato. Il testo biblico è passato attraverso una storia molto complessa di fonti, rielaborazioni, riletture e redazioni; il risultato finale è comunque coerente e come tale è stato letto dagli autori del NT. Il messaggio teologico che emerge con chiarezza è che il dono di una nuova vita che Dio fa ad Abramo comprende una relazione benedetta con una terra particolare: la terra della promessa.
    Quando Abramo entra in quella che era allora la terra di Canaan e si ferma a Sichem, nel centro del paese, Dio gli dichiara: “Alla tua discendenza io darò questa terra” e la promessa si ripete più volte e in maniera solenne (Gn 12,7; 13,14-16; 15,7ss), anche ai discendenti del patriarca (Gn 28,13-15; 35,10-12). La rilettura neotestamentaria fatta dalla Lettera agli Ebrei sottolinea la coerenza di questo tema: la terra che Dio fedelmente promette e che i padri accolgono con fede/fedeltà a Dio (Eb 11,8-9). Anche quando sono costretti a lasciarla, seppur momentaneamente come Giacobbe e i suoi figli (Gn 50,24).
    La storia patriarcale è dunque storia della terra: promessa, accolta nella fede, ma non posseduta.
    La terra diventa per loro il segno concreto della benedizione, della positiva relazione con Dio e con gli altri. Anche per questo una terra mai definitivamente posseduta è un segno efficace del cammino dell’uomo sulla terra, un cammino che non ha qui la sua meta definitiva.
    Se però la relazione dei patriarchi con la terra è problematica, non lo è altrettanto quella di Dio con la stessa terra. La sua presenza sulla terra della promessa comincia ad essere visibile nei luoghi dove gli si elevano altari o strutture commemorative a ricordo di queste esperienze mistiche (Gn 12,7; 18; 28,17s; 32,31). Anzi, cruciale nel racconto di Giacobbe a Betel (Gn 28) è proprio questo tema della presenza di Dio sulla terra. Questo racconto che diventa centrale nel racconto della terra in epoca patriarcale, con l’immagine della scala che unisce cielo e terra, sintetizza la fede dei padri nelle comprensione della vicinanza di Dio all’uomo che si affida a lui con fede, continuando il suo cammino sulla terra.
    Le parole conclusive di Giacobbe assumono così il significato pregnante di una scoperta fondamentale: “Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo” (Gn 28,6).
    La terra della promessa comincia così a portare, ben visibili, anche le tracce del passaggio di Dio.

    La terra, condizione di vita libera

    L’intera epopea dell’Esodo, che occupa in maniera preponderante il Pentateuco, la Torah, cioè il cuore della rivelazione antico-testamentaria, è sostenuta da una tensione basilare: il cammino verso la terra della promessa come terra della vita libera e pienamente realizzata.
    Questa tensione rimane però inaspettatamente irrisolta, perché la Torah si chiude alle soglie dell’ingresso nella Terra, sospesa su una domanda piena di significato: Dio manterrà la sua promessa? O piuttosto, il popolo avrà fede sufficiente per accogliere questo dono? Ed ancora: con l’ingresso nella terra si compirà la pienezza di liberazione e benedizione promessa?
    Come la vocazione di Abramo, anche quella di Mosè ha una connessione fortissima con il tema della terra. Egli dovrà condurre il popolo verso la “terra buona e vasta, una terra dove scorre latte e miele” (Es 3,8), quella stessa terra promessa ai padri (Es 6,41).
    La tematica si apre con la forte connotazione negativa della terra d’Egitto che ha ricchezze e benessere, ma non può essere più una terra di benedizione per il popolo perché il nuovo Faraone non conosceva Giuseppe e tanto meno riconosceva il Signore (At 7,18). La terra d’Egitto non può più essere perciò una terra dove pregare e fare sacrifici a Dio. Il popolo dovrà andare nel deserto, nella terra di nessuno, per servire liturgicamente il suo Signore (Es 3,18). Questa richiesta iniziale, più volte ripetuta a faraone, e che mette in moto tutto il confronto tra Mosè e l’Egitto, si compirà nella grande liturgia del Sinai, quando il popolo stringerà una alleanza con il suo Dio. Si è sintetizzato questo percorso come il passaggio dalla schiavitù al servizio di Dio. L’uomo ideale, secondo l’Esodo e l’intero pentateuco, non sta sulla terra come Signore e padrone della sua libertà, ma viene affrancato da una schiavitù umana, per legarsi liberamente in un vincolo di amore con il suo Dio. Anche la terra dove questo vincolo viene celebrato e prende inizio deve dunque essere una terra libera, non legata a domini umani, come solo il deserto può essere.
    La terra promessa non viene stranamente raggiunta alla fine del pentateuco dalla generazione di Mosè, proprio perché è stata incapace di accogliere liberamente e con fedeltà il legame dell’alleanza. Nell’attuale racconto della Bibbia la terra è costantemente nella prospettiva dell’Esodo (Es 15,13-17), ma siccome la promessa divina è condizionata alla fedeltà all’alleanza (Dt 4,15; 8,7-18), la generazione dell’esodo, che era stata in vari modi infedele e ribelle, dovrà perire nel deserto (Dt 4,24-28; 28,58-69). Non basta una terra dove essere liberi, ma bisogna anche essere diventati capaci di vivere in vera libertà, è questo il senso della lunga educazione del popolo che Dio attua nel deserto attraverso le “prove” a cui lo sottopone e le leggi che gli dona per guidarne il cammino.
    La terra della libertà non è solo una terra libera dai vincoli di un dominio straniero, ma sulla quale anche lo stesso popolo sappia vivere libero dai vincoli del peccato e ben saldo nei vincoli che lo legano a Dio.
    Ancora una volta la terra è simbolo di un dono generoso e gratuito che è però anche un compito da vivere, è insieme promessa e vocazione!

    La terra nell’ottica del Deuteronomio e della storia deuteronomista

    Il libro del Deuteronomio chiude la storia dell’esodo ed apre la storia seguente: la storia deuteronomista che racconta la conquista, il possesso e la perdita della terra. Da Giosuè all’esilio si sviluppa un’opera storica che, pur utilizzando materiali diversi, li inquadra in una visione teologica unitaria: la teologia deuteronomista.
    Nell’ottica teologica del Deuteronomio “la terra della promessa” è un tema importante, che ritorna almeno una trentina di volte nel testo. Dt 26,5-9, che è stato definito la più antica professione di fede d’Israele, ed ha certamente un posto importante nella redazione finale e nella teologia del Deuteronomio, fa proclamare ad ogni israelita nell’offerta delle primizie: “Dichiaro oggi al Signore mio Dio di essere arrivato alla terra che il Signore ha giurato ai nostri padri di darci”.
    La terra diventa così segno della fedeltà di Dio e compito per la fedeltà dell’uomo chiamato sopra di essa a realizzare il disegno di Dio. Perciò dopo la conquista anche il possesso della terra sarà condizionato alla fedeltà all’alleanza (Dt 4,1-2; 8,9-18), affinché Israele sia effettivamente il popolo di Dio (4,20). Tale fedeltà sarà necessaria per la prosperità stessa del paese (6,10ss; 11,10-17) e del popolo (6,2-3), altrimenti esso sarà estromesso dalla terra e disperso tra le nazioni (4,24-28; 28,58-69). Non si potrà impunemente tradire l’amore con il quale Dio ha scelto di liberare dall’Egitto e far suo “il più piccolo dei popoli” (7,6-9); a questa elezione infatti era ordinato il giuramento fatto ai padri (9,4-6).

    La terra, obiettivo da conquistare

    La storia del popolo e della terra narrata dalla storiografia deuteronomista si apre con l’epopea della conquista narrata dal libro di Giosuè. Il racconto della conquista, che raccoglie tradizioni particolari e diverse lette e riscritte in epoche più recenti formando nel testo attuale una versione semplificata e unificata, è impregnato dell’idea che non è la forza militare che permette al popolo di impadronirsi della terra.
    Fin dall’inizio il testo annuncia che Giosuè potrà riuscire nella sua impresa solo se sarà docile alla volontà di Dio (Gs 1,6-9). L’impostazione della teologia deuternomica e deuteronomistica, che lega indissolubilmente il possesso della terra alla fede in Dio, non viene smentita.
    Fin dall’ingresso nella terra promessa il protagonismo divino è chiaro ed evocato anche facendo riferimento ai grandi eventi della passata storia di salvezza.
    Infatti il passaggio del Giordano all’altezza di Gerico presenta vari parallelismi con l’Esodo e il passaggio del Mar Rosso. Il fiume è attraversato dal popolo al seguito di una processione dei sacerdoti che portano l’arca dell’alleanza; il tutto si svolge secondo gli ordini di Dio, perché sia chiaro che egli è in mezzo al suo popolo per compiere meraviglie. Come memoriale di queste meraviglie, dodici stele in rappresentanza delle dodici tribù di Israele vengono erette sia nel letto del Giordano (Gs 4,9) che a Galgala, prima tappa nella terra promessa (4,20).
    Se apparentemente il racconto della conquista della terra sembra sottolineare soprattutto il tema della fede come impegno e come lotta, una lettura più attenta di questi racconti mette in maggiore evidenza il primato del dono e della grazia.
    Ciò è chiarissimo nel racconto della conquista di Gerico che è “data in mano” a Giosuè da Dio stesso (6,1). Le sue mura crollano non per artifizi militari, ma per una solenne liturgia protratta per sette giorni, nella quale è protagonista l’arca dell’alleanza (Gs 3,1). La lettera agli Ebrei legge con chiarezza il valore simbolico del racconto proclamando che fu la fede a far crollare le mura di Gerico (Eb 11,30).
    Secondo lo stesso schema teologico la mancanza di fede impedisce di conquistare la terra, così il primo tentativo per la conquista di Ai fallisce perché Israele aveva “trasgredito l’alleanza” violando l’interdetto che era stato posto sul bottino conquistato a Gerico (Gs 7,11). Soltanto quando viene individuato e punito il colpevole della trasgressione anche Ai cade in mano israelita (Gs 7,25).
    Nella seconda parte del libro di Gs (cc. 13-19), che è poco influenzata dalla teologia deuteronomistica, il racconto si interrompe per presentare una lunga lista con le frontiere del territorio e le città assegnate a ciascuna delle dodici tribù. Di fatto l’occupazione totale della terra avverrà a partire dal tempo di Davide, almeno 200 anni più tardi, come ricorda l’apertura del libro dei Giudici. Nel contesto canonico attuale questo antico catasto della terra promessa appare come un atto di fede nella promessa divina e stabilisce il principio che la terra di Dio è, nello stesso tempo, concessa e da conquistare, non soltanto con le armi, ma soprattutto con l’obbedienza all’alleanza animata dalla fede.
    Il testamento di Giosuè (Gs 23,2-10) che chiude sostanzialmente il messaggio del libro nei confronti della terra, riassume l’epopea della conquista nel segno della teologia della terra appena ricordata. Egli ricorda all’Israele di ogni epoca che la terra su cui abitano è testimonianza viva di come nessuna promessa di Dio sia caduta nel vuoto (Gs 23,14). Egli stesso ha combattuto per Israele come aveva promesso (Gs 23,10). Se la terra è testimonianza sul passato, è anche garanzia sul futuro della relazione di benedizione tra Dio e il suo popolo. Infatti Giosuè ammonisce che come nel passato anche nel futuro si avvereranno le promesse e le minacce divine per le infedeltà del popolo: “... E rapidamente voi sparirete da questa buona terra che vi ha dato” (Gs 23,16).

    Una terra da difendere con la fede

    Il periodo dei Giudici, che segue all’epoca di Giosuè, vede l’esistenza stessa d’Israele nella sua terra minacciata dalla popolazione cananea, ancora rimasta nelle sue cittadelle fortificate sparse nel territorio delle tribù. Fin dall’inizio (Gdc 2,11-23) compare con chiarezza lo schema teologico tipico di tutta la storia deuteronomista: il popolo, per aver abbandonato il Signore servendo agli dèi della popolazione indigena, è a sua volta abbandonato nelle mani dei nemici che circondano le tribù.
    Quando però Israele, pentito, invoca il soccorso di Dio, questi suscita capi carismatici per liberarlo: i Giudici. Emblematica è la vicenda del giudice Sansone, che, quando è fedele al Signore cui si è votato, sbaraglia da solo i più irriducibili nemici d’Israele, i filistei (13,7; 16,17.22-28). Il racconto della terra, nel libro dei Giudici, prepara quella storia di speranza e di delusione che sarà narrata nel resto della storia deuteronomista dai libri di Samuele e dei Re.
    Il periodo monarchico unitario inaugurato da Saul, che ebbe come successori Davide e il figlio Salomone (1030-933 a.C.), si concluse alla morte di costui, quando le tribù del nord della Palestina si costituirono in regno autonomo – il regno d’Israele – separandosi dalle tribù del sud, rimaste fedeli alla dinastia davidica nel regno detto di Giuda.
    La terra, appena conquistata, iniziava a conoscere la divisione e il confine. Il segno di una separazione del popolo tracciato sulla terra, sull’unica terra della promessa, diventa in questi racconti particolarmente evidente e traumatico attraverso la costruzione di due santuari a Dan e a Betel (1Re 12,29) in contrasto con l’unico tempio legittimo di Jhwh, costruito a Gerusalemme da Salomone.
    Se la costruzione dell’unico santuario era stato il segno più chiaro della benedizione divina, che scendeva sulla terra come presenza forte e ben visibile, questa divisione diventa il segno del peccato, della maledizione, dell’allontanamento da Dio.
    La storia della terra, che nella costruzione del tempio di Salomone aveva incontrato la promessa di un nuovo Eden (Dio che abita sulla terra tra gli uomini), sperimenta di nuovo la divisione e il dubbio. “È su questo monte o in Gerusalemme il luogo in cui dobbiamo adorare?” (Gv 4,20) si chiedeva ancora al tempo di Gesù la samaritana!
    La storia dei regni è dunque storia di una terra divisa, di un popolo che segue guide cieche, di una presenza divina oscurata dal dubbio, di un culto asservito alla politica e all’interesse di parte. Su tutto questo si leva di nuovo la luce della parola di Dio, che è ora parola profetica. Non è da sottovalutare il fatto che questa parola venga fin dall’inizio da uomini della terra, come Amos: “Amos rispose ad Amasia: Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sicomori; Il Signore mi prese di dietro al bestiame e il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele” (Am 7,14-15).
    È lo stesso Amos che accusa Israele di ingratitudine verso il Signore che ha liberato il suo popolo e lo ha condotto nel deserto perché ereditasse la terra dei cananei (Am 2,10). Ma l’attenzione si sposta soprattutto su Gerusalemme, dove regna la dinastia davidica alla quale Dio ha fatto nuove promesse messianiche, relative anche alla stabilità e sicurezza del popolo nella sua terra (2Sam 7,10s) e sul tempio (Mi 3,12), dove è centralizzato il culto. I profeti rimproverano in maniera quasi ossessiva i re e il popolo per le pratiche idolatriche e le ingiustizie sociali, che documentano l’infedeltà all’alleanza e giustificano i castighi di Dio.

    Una terra perduta e ritrovata

    La letteratura profetica integrata con i libri dei Re porta avanti il racconto della terra nell’ultima parte dell’AT. Il racconto si fa tragico perché tutte le certezze faticosamente conquistate nel cammino precedente vengono rimesse pesantemente in discussione. Non basta la fede di pochi a garantire il possesso della terra. La promessa di Dio sembra svanire. La certezza del culto a Gerusalemme, nell’unico tempio del Signore, che la distruzione di Samaria (nel 721) e dei suoi templi scismatici sembrava avere rafforzato, è messa in forse.
    Con la fine del regno di Giuda, la distruzione di Gerusalemme e del tempio (587 a.C.) e la deportazione in Babilonia della popolazione più qualificata, si pone drasticamente l’angoscioso interrogativo: Dio ha smentito la promessa giurata ai patriarchi di dare ai loro discendenti una patria? Grazie a queste promesse, infatti, gli israeliti ostentavano la loro sicurezza anche nell’imminenza della catastrofe, convinti soprattutto dell’indistruttibilità del tempio, dimora di Dio nella sua terra (Ger 7; 26,2-6).
    Eppure la parola profetica prepara una comprensione della catastrofe come opera di purificazione, anche teologica. Il popolo, perdendo questa terra e questo tempio, imparerà a comprendere il senso più vero e più pieno della promessa divina sulla vera terra e sul vero tempio. Sarà proprio il profeta della condanna, Geremia, che avrà il compito di annunciare questo inaspettato futuro.
    Quando Gerusalemme è già nella morsa dell’assedio, Dio ordina a Geremia di compiere un gesto all’apparenza insensato: il profeta deve acquistare un campo, per significare che “ancora si compreranno case e campi e vigne in questo paese” (Ger 32,15). Eppure gli israeliti ne saranno espulsi. Ma per l’avvenire vengono formulate nuove promesse: il paese che temporaneamente è devastato e in possesso dei nemici sarà restituito al popolo purificato; dice il Signore: “Li pianterò in questo paese stabilmente, con tutto il mio cuore e con tutta la mia anima” (Ger 32,40-41). Israele avrà da Dio, che ad esso si unirà con un’alleanza eterna, un cuore nuovo affinché possa servirlo con stabile fedeltà, per il bene suo e dei suoi discendenti (Ger 32,39).
    La novità della terra e del tempio non sarà geografica o architettonica, ma sarà determinata dal cuore nuovo con cui il popolo li abiterà entrambi.
    La tragedia dell’esilio apre ad una nuova e più ricca comprensione del senso della terra e di quella “terra molto particolare” che è il tempio. La terra in cui Dio vuol abitare è il cuore dell’uomo rinnovato dal soffio del suo Spirito.
    È soprattutto Ezechiele che porta avanti questa riflessione sul senso della vera “terra promessa”, di fondamentale importanza per evitare ogni idolatria della terra come luogo fisico piuttosto che spirituale. Il racconto della terra fa con lui un passo avanti significativo, che troverà nel NT la sua conferma e chiarificazione, mentre all’interno dell’ebraismo porterà all’equivoco di consegnare il messia alla croce dei Romani, per tentare conservare un tempio e una terra fatti di pietre morte (Gv 11,48).
    Ezechiele, infatti, durante il tempo dell’esilio usa in maniera caratteristica il termine ebraico ‘adamah per indicare la terra d’Israele come semplice “suolo”, essendo la terra privata del suo popolo e della presenza di Dio. Solo quando parla della restaurazione, la chiama di nuovo ‘eres, “terra”, nella pienezza del suo significato teologico. Gli ebrei lasciati a Gerusalemme dai conquistatori babilonesi si appellavano alla promessa divina per vantare un privilegio: “Abramo era addirittura solo quando ereditò la terra, ed è a noi, che siamo molti, che è stata data la terra in possesso ereditario” (Ez 33,24). Il possesso di quel “suolo” che era stato la terra della promessa e della presenza divina li illudeva di essere privilegiati possessori della benedizione, ma la presenza divina, la sua “gloria”, dice il profeta, aveva invece seguito il popolo esiliato.
    La terra e il tempio, dice Ezechiele, sono più vivi e presenti nei loro cuori sofferenti e umiliati, ma pieni di fede, che nei confini materiali di ciò che fu la terra della promessa e il tempio di Gerusalemme. Un messaggio che ha ancora oggi profonda rilevanza teologica e umana.
    Il “suolo” di Israele resterà desolato per le sue abominazioni (Ez 33,29). L’avvenire è degli esiliati perché il loro ritorno sarà opera esclusiva di Dio, egli li purificherà intimamente mettendo in essi il suo spirito, affinché possano ritrovare lui nel paese destinato ai loro padri (Ez 36,28). In realtà il profeta si proietta in un avvenire non precisato, escatologico, perché vede la restaurazione d’Israele in funzione di una distribuzione evidentemente simbolica della terra. Essa infatti sarà distinta in tredici strisce rigorosamente parallele, di cui dodici destinate alle tribù del popolo, mentre una parte sarà riservata come “tributo sacro” a Jhwh (Ez 47,13-23; 48,1-29). Il profeta mira a un mondo nuovo, non a quello della geografia e della storia, e il popolo è concepito come una comunità liturgica, che attinge al tempio una forza capace di purificare l’universo (Ez 47,1-12).
    Il ritorno al “suolo” di Israele diventa quindi semplicemente un segno ed un anticipazione di un ritorno alla vera terra che i profeti seguenti vedono compiersi in un remoto futuro e riguardare non soltanto il popolo di Israele, ma tutti i popoli. Già nella prima parte di Isaia il ritorno dall’esilio è previsto come un ristabilimento d’Israele nella sua terra, ma in compagnia dei popoli che ad esso si uniranno (Is 14,1-2). Il trionfale messaggio di consolazione del Secondo Isaia (Is 40-55) annunzia un nuovo esodo, nel quale Dio si metterà a capo del nuovo popolo (Is 40,3-4). La terza parte (Is 56-66) è infine un interminabile inno di gioia per il ritorno in patria, al quale parteciperanno anche i rimasti a Gerusalemme. Il ritorno nella terra dei padri segnerà un tempo di prosperità e di pace. La restaurazione nazionale preannunzia un’altra trasformazione che investirà tutte le genti, perché il ritorno è in realtà il trionfo spirituale del Signore, che nel suo progetto include anche i popoli pagani. Il misterioso Servo di Jhwh – il messia – avrà la missione di “rialzare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele” e di essere la luce delle nazioni, affinché la salvezza che viene da Dio raggiunga le estremità della terra (Is 49,6). I popoli pagani saranno così aggregati al popolo eletto (Is 44,3-5).
    In maniera sempre più chiara il racconto della terra diventa racconto non del “suolo” di Israele, ma di tutta la terra destinata a diventare “Regno di Dio”, luogo della sua presenza in mezzo agli uomini.

    Dalla terra promessa al Regno di Dio

    L’ultimo capitolo del racconto della terra è narrato dai Vangeli, con il loro annuncio della venuta del regno di Dio sulla terra.
    In piena continuità con l’annuncio profetico, il tema del Regno di Dio si distanzia da ogni visione politica e limitante della venuta di Dio sulla terra. Non è la riconquista del “suolo” di Israele che interessa Gesù. Fin dal programmatico annuncio fatto dalle Beatitudini, saranno i miti e non i guerrieri che “erediteranno la terra” (Mt 5,5). La novità di questa visione dovrà scontrarsi con molte incomprensioni, sia delle folle che degli stessi discepoli, ma Gesù rifuggirà sempre con chiarezza da ogni tentativo di ridurre la speranza del Regno ad una speranza puramente politica e militare.
    Quando la folla, trascinata dall’entusiasmo, tenta di offrirgli la corona di re, Gesù fugge tutto solo sulla montagna (Gv 6,15). Egli si rifiuta di confondere il piano divino di salvezza con il problema politico della sua patria. Il suo progetto riguarda il popolo di Dio, spinto a convertirsi (Mt 4,17), cioè ad adeguarsi ai pensieri e alla volontà di Dio, quando viene a compimento il millenario disegno salvifico con la fondazione del regno di Dio. Gesù, che sarà artefice di tale compimento in qualità di Figlio di Dio, è alieno da ogni volontà di potenza, è modello di mitezza (Mt 11,19; 21,5). Se gli apostoli esprimono in qualche modo la speranza di una restaurazione nazionale d’Israele, ben presto si renderanno conto che “i tempi e i momenti” del disegno di Dio li indirizzeranno verso ideali e conquiste del tutto diversi. Essi dovranno essere “testimoni” di Cristo e non solo nella terra d’Israele, ma fino agli estremi confini della terra (At 1,6-8). Gesù morirà “non per la nazione soltanto, ma anche per radunare insieme nell’unità i figli di Dio dispersi” (Gv 11,52). Il raduno dei tempi avvenire, predetto dai profeti, non è la ricomposizione d’Israele nella terra dei padri; i figli di Dio sono i credenti in Cristo (Gv 1,12), che saranno radunati nell’unità del Padre e del Figlio mediante la morte redentrice sulla croce. Il regno di Dio non si può confondere con nessun regno terreno, fosse anche il regno d’Israele ricostituito nei suoi confini, perché esso non è di questo mondo: prova ne sia che “le guardie” di Cristo non combattono per sottrarlo alla condanna e alla morte (Gv 18,36).
    L’ultimo capitolo, aperto dalla resurrezione, parla con l’ascensione di un abbandono del “suolo” per condurre il nuovo popolo verso la terra definitiva, che non ha più alcuna separazione dal cielo.
    Il cammino dell’uomo sulla terra insieme con Dio si mescola nel mistero della promessa escatologica con il cammino di Dio che dal cielo scende sulla terra e da questa torna al cielo aprendo la strada dell’ultimo esodo.

    Tematiche e sottolineature per la pastorale giovanile

    * Il primo racconto della terra: “La terra, creazione di Dio per l’uomo”, propone suggestivi spunti di attualizzazione e di confronto.
    – Il recupero della coscienza creaturale fonda una nuova visione della nostra relazione con Dio e col mondo. La vita non è un possesso assoluto, ma un dono ricevuto.
    Questo comporta il dovere della gratitudine che si esprime nella preghiera di lode, ma anche nel vivere la vita come vocazione, come risposta matura e responsabile che mette a frutto per il bene comune i talenti ricevuti.
    – Il rapporto difficile con la terra segnata dal peccato smonta le visioni buoniste, che promettono il successo facile e un ideale di vittoria e di progresso illimitato. Il racconto della terra invita a “stare con i piedi per terra” nel costruire il bene possibile, ben attenti alle scorciatoie che costruiscono l’illusione del bene facile sulla sofferenza degli altri, sul rinunciare a sentirsi custodi del proprio fratello più debole.
    * Il secondo racconto della terra: “La terra, dono promesso”, invita a conquistare la coscienza della vita nella benedizione.
    – La terra dove abitiamo è il segno concreto della benedizione, della positiva relazione con Dio e con gli altri. Ma la provvisorietà perenne di questo abitare, fortemente presente nello stile di vita “nomadico” dell’uomo contemporaneo, è un segno efficace del significato del cammino dell’uomo sulla terra, un cammino che non ha qui la sua meta definitiva.
    * Il terzo racconto della terra: “La terra, condizione di vita libera”, invita a riflettere sul grande valore della libertà.
    – La terra d’Egitto, pur se piena di ricchezze, non può essere una terra di benedizione perché manca della fondamentale ricchezza della libertà. Ma il popolo deve scoprire gradualmente che la libertà non è arbitrio e vizio, non c’è benedizione in una libertà che non sia anche scelta di servizio a Dio e agli altri. Il cammino per la vera liberazione è una sfida nuovamente posta ad ogni generazione sulla terra.
    * Il quarto racconto della terra: “La terra, obiettivo da conquistare”, conduce a comprendere che il Signore è la nostra vera forza.
    – Nel mondo contemporaneo il culto della forza, del potere e del successo può portare a pensare che la via da seguire sia quella della violenza e della prepotenza. Il racconto della conquista mette invece in luce come la vera forza sia la fede e la comunione con Dio e con i fratelli.
    * Il quinto racconto della terra: “Una terra da difendere con la fede”, ribadisce il valore del rispetto dell’alleanza come unica condizione della benedizione.
    – La legge divina quando è percepita, come spesso capita oggi, come imposizione e norma esterna, appare un peso che allontana dalla gioia. L’esperienza di Israele lo ha gradualmente portato a riconoscere la benedizione della legge, come luce per fare passi diritti verso la pienezza della vita.
    * Il sesto racconto della terra: “Una terra perduta e ritrovata”, ci mette a confronto col messaggio profetico.
    – Il mondo contemporaneo si lascia spesso conquistare da falsi profeti, che propongono strade facili e obiettivi allettanti. L’esperienza di Israele invita a riflettere sulla veridicità delle promesse e proposte che riceviamo. Spesso il cammino verso la vera terra è faticoso ed attraversa esilio e persecuzione. Più che un cammino fuori di noi siamo chiamati ad un cammino di rinnovamento del cuore.
    * Il settimo racconto della terra: “Dalla terra promessa al Regno di Dio”, invita a guardare al futuro che ci attende.
    – Il messaggio del Regno di Dio proclamato da Gesù è ancora oggi misterioso ed esigente. Richiede la disponibilità a perdere una certa vita per accogliere come dono la vera vita della grazia. In una parola, è un invito alla conversione perenne del cuore e della vita seguendo Gesù, Signore del cielo e della terra.


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