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    6. Non uccidere. Gratuità e volto



    Carmine Di Sante

    (NPG 2004-08-38)


    L’evento della nascita introduce in un mondo dove, per l’io, essere è essere incontrato da una pluralità di altri o volti nei quali, con caratteri indelebili, si iscrive il comandamento divino di “non uccidere”: “Vedere un volto è già udire: ‘non ucciderai’, è udire ‘giustizia sociale’. E tutto ciò che posso udire da Dio e attribuire a Dio invisibile deve essermi venuto attraverso la stessa e unica voce” (E. Lévinas, Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, Editrice La Scuola, Brescia 1986, p. 60; la traduzione è stata leggermente ritoccata).
    Quanto più sul volto umano risuona, per la bibbia, l’imperativo divino a “non uccidere”, tanto più però la storia è, di questo imperativo, la smentita persistente, se è vero che essa, dagli inizi ad oggi, è storia fratricida, come insegna già la pagina biblica che pone agli esordi delle vicende umane l’omicidio di Abele da parte di Caino (Gn 4, 1-16), e come vogliono la maggior parte dei miti fondatori delle civiltà e delle culture per i quali l’ordine istituito è l’ordine della forza con cui il più forte (divinità, antenati, eroi) si afferma sul più debole uccidendolo. Può essere per questo difficilmente contestata l’affermazione di R. Caillois per il quale: “Fin dalle sue lontane origini, la cultura dell’Occidente, in tutte le sue forme ed espressioni, parla il linguaggio della guerra” (R. Caillois, La vertigine della guerra, Città aperta edizioni, Troina (EN) 2002, p. 18). Questo linguaggio della guerra, la filosofia – che dell’occidente rivendica di essere la grande sapienza – non solo non è riuscita a contrastare, ma l’ha assunto e soprattutto legittimato: “È la filosofia a ‘dire’ e anche a fondare razionalmente, senza alcuna concessione emotiva, senza compiacimenti apologetici, ma anche senza inutili rimozioni, questa fondamentale funzione produttiva della guerra, questa capacità intensivamente morfogenetica, questa solo apparentemente contraddittoria attitudine a generare forme e a creare nuovi ordini” (ivi; corsivo dell’autore).
    Da una parte l’imperativo divino a non uccidere, dall’altra la storia umana che lo smentisce con le sue guerre, uccisioni e violenze legittimate razionalmente (“La guerra di tutte le cose è padre, di tutto è re”: Eraclito) o realisticamente (“L’uomo è fatto così ed è fargli violenza eliminare la sua violenza”): decidersi per l’imperativo contro la storia, ma così negando la realtà e rifugiandosi nell’illusione dei bei principi delle anime belle e inconcludenti? Oppure decidersi per la storia contro l’imperativo, abbandonandosi all’imperialismo della fatticità, a quell’incatenamento o inchiodamento al corpo e alla situazione – alla fatticità appunto – nei quali Lévinas ha visto anzitempo la radice stessa del nazismo (Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata 1996)?
    Ordinando di non uccidere, il testo biblico non ignora la violenza che fa della storia umana una storia di polemos, di guerra, ma, a differenza di Eraclito e dei realisti, da potenza produttiva e morfogenetica, la denuncia come forza distruttiva, e da momento costituito del reale, la smaschera come malattia decreatrice e potenza illegittima, estranea al progetto creatore, e, osando il possibile dell’impossibile, annuncia un umano o nuovo umano – l’umano del Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù – dove splende una logica altra da quella della forza. L’altezza del comandamento biblico di non uccidere, che riformulato al positivo vuol dire amare l’altro in quanto altro, assumendone la responsabilità e promuovendone la felicità, è nella istituzione di questo umano altro che, per Lévinas, è l’umano inteso come giustizia sociale o fraternità: “Vedere un volto è già udire: ‘non ucciderai’, è udire ‘giustizia sociale’”. Per la bibbia Dio è Dio per la sua volontà di instaurazione della “giustizia sociale”, da intendere non come l’ordine della necessità e del destino che, dentro il Tutto, assegna a ciascuno la sua parte, ma come l’apparizione di un nuovo ordine che della necessità e del destino è il sovvertimento. Se per Eraclito “la giustizia è conflitto” e tutto ciò che accade “accade secondo conflitto e necessità” (citato da R. Caillois, La vertigine della guerra, cit. p. 19), per la bibbia essa è la dichiarazione di fallimento del conflitto come principio ordinatore dell’umano e, oltre la necessità e oltre il destino, è apparizione e affermazione del nuovo ordine della gratuità o disinteressamento: non più l’ordine dove l’io è interessato solo al proprio io disinteressandosi dell’altro, ma l’ordine dove l’io, disinteressandosi di sé e interrompendo così la legge dell’essere, si interessa – unico vero miracolo! – dell’altro. La giustizia biblicamente intesa è il miracolo di questo disinteressamento, e il volto dell’altro è “il luogo” nel quale accade, per l’io, questo evento.
    Il volto infatti è l’unico assoluto che, inconoscibile e impossedibile, si sottrae all’io, alla sua volontà di appropriazione e di conoscenza, opponendogli una resistenza che non proviene dalla forza ma dall’al di là della forza, e che, altra dalla forza, vi si sottrae sovranamente anche quando questa assume la forma estrema dell’omicidio: “Il possesso nega l’indipendenza dell’essere, senza distruggerlo, nega e mantiene. Il volto invece è inviolabile; questi occhi assolutamente senza protezione, la parte più nuda del corpo umano, tuttavia oppongono una resistenza assoluta in cui si iscrive la tentazione dell’omicidio: la tentazione di una negazione assoluta. Altri è il solo essere che si può essere tentati di uccidere. Questa tentazione d’omicidio e insieme la sua impossibilità costituiscono la visione stessa del volto” (E. Lévinas, Difficile libertà, cit. p. 59).
    Messa in discussione della volontà di dominio e di appropriazione come principio di costituzione dell’umano, il volto instaura un io non identitario e autocentrato, per il quale tutto parte dall’io per tornare all’io, ma aperto e relazionale, per il quale essere è rivolgere la parola all’altro, ascoltandolo e rispondendogli. Alla presenza del volto, con i suoi occhi “assolutamente senza protezione” e che “tuttavia oppongono una resistenza assoluta in cui si iscrive la tentazione dell’omicidio”, l’io accede alla scoperta di un umano definito non più dall’essere – secondo la logica animale dell’autoconservazione o del conatus essendi, visione cara al pensiero antico – e neppure dalla conoscenza – secondo la logica del razionalismo per il quale essere è riflettere l’essere pensandolo e comprendendolo, visione cara al pensiero moderno – ma dalla parola con cui l’io esce da sé e risponde all’altro: “‘Non ucciderai’, quindi, non è una semplice regola di condotta, ma appare come il principio stesso del discorso e della vita spirituale. Da ciò deriva che il linguaggio non è soltanto un sistema di segni al servizio di un pensiero preesistente: la parola è dell’ordine della morale prima di appartenere all’ordine della teoria. Non è forse la condizione del pensiero cosciente?” (E. Lévinas, Difficile libertà, cit. p. 60).
    Prima che strumento di conoscenza e di riflessione, con cui l’io riproduce il reale rappresentandolo e comprendendolo, alla presenza del volto l’io si scopre oltre e altro: parola con cui rivolgersi all’altro prima ancora di pensarlo e conoscerne il nome. Con il semplice dirgli: “buon giorno”, “ciao”, “scusami”, “come stai”, l’io si trascende come essere, per il quale essere è persistere nel proprio essere, e si oltrepassa come cogito, per il quale essere è pensare, e si attesta come responsabile, nel senso etimologico di risposta alla voce di chi chiama. Istitutivo dell’umano come responsabilità, il volto ridefinisce e definisce il senso stesso del sapere e della coscienza. Questa se, prima dell’apparizione del volto, invade “la realtà come una vegetazione selvaggia che assorba e spezzi e frantumi tutto quanto la circonda” (E. Lévinas, Difficile libertà, cit. p. 60), all’apparizione del volto si sveglia da questa innocenza “selvaggia” e compie un ritorno su di sé, che più che autocoscienza è cattiva coscienza e nuova coscienza come coscienza etica: “Il ritorno della coscienza su di sé non equivale a una contemplazione di sé, ma al fatto di non esistere in modo violento e naturale, al fatto di parlare agli altri. La morale costruisce la società umana. Giungeremo a misurarne la meraviglia? Ben altro che la coesistenza di una moltitudine, ben altro che un partecipare alle leggi nuove e complesse imposte da questa moltitudine, la società è il miracolo dell’uscita da sé” (E. Lèvinas, Difficile libertà, ivi).
    Istituzione dell’umano come “uscita da sé” e come gratuità, il volto umano è la traccia stessa dell’assoluto, del divino o dell’infinito che, per la bibbia, si dà non come conoscibile ma come comandamento alla giustizia e alla solidarietà. Sempre Lévinas scrive: “L’infinito è dato soltanto nello sguardo morale: esso non è conosciuto, è in società con noi. Il commercio con gli esseri che comincia col ‘tu non ucciderai’ non è conforme allo schema delle nostre abituali relazioni col mondo: soggetto conoscente che assorbe il suo oggetto come un nutrimento, bisogno che si soddisfa. Non ritorna al punto di partenza, mutandosi in soddisfazione, in fruizione di sé, in conoscenza di sé. Esso inizia l’avanzamento spirituale dell’uomo” (E. Lévinas, Difficile libertà, cit. p. 62).
    Vittima della violenza omicida che, prima che su di lui, si era abbattuta sui più inermi del suo popolo, il 23 marzo 1980, 24 ore prima di essere assassinato nel momento in cui alzava il calice dell’offertorio, Oscar Romero si rivolgeva così ai detentori del potere e ai responsabili dei massacri: “Desidero fare un appello speciale agli uomini dell’esercito e in concreto alla base della ‘guardia nazionale’ della Polizia, delle caserme. Fratelli! Siete del nostro stesso popolo! Ammazzate i vostri fratelli campesinos! Davanti all’ordine di ammazzare dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: ‘Non ammazzare!’. Nessun soldato è tenuto ad obbedire a un ordine che va contro la legge di Dio. Una legge immorale, nessuno deve compierla. È tempo che recuperiate la vostra coscienza e che obbediate alla vostra coscienza piuttosto che agli ordini del peccato. La chiesa che difende i diritti di Dio, la legge di Dio, la dignità umana, la persona, non può tacere davanti a tanto orrore… In nome di Dio, allora, in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi chiedo, vi ordino, in nome di Dio: cessi la repressione” (E. Masina, L’arcivescovo deve morire. Oscar Romero e il suo popolo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996, p. 223-224).
    Gridando: “vi supplico, vi chiedo, vi ordino, in nome di Dio” il vescovo martire dell’America Latina dà voce alla voce del volto nella cui impotenza si iscrive la potenza di appello alla fraternità e alla giustizia che si scoprono inestirpabili nello stesso momento in cui le si estirpa: “Poiché, in realtà, l’omicidio è possibile, ma lo è quando non si è guardato l’altro in faccia: l’impossibilità di uccidere non è reale, è morale” (E. Lévinas, Difficile libertà, cit. p. 62). L’uomo può sempre rifiutarsi di ascoltare la voce del volto che comanda di “non uccidere” negandosi alla fraternità e alla giustizia; e la storia umana, come già si è notato, è la documentazione persistente di questa violenza negatrice della giustizia e della fraternità; ma ciò che non può fare è cancellare quella voce che si iscrive nel volto e che mai comanda con tanta forza sovrumana – la forza che della forza è la stessa messa in crisi! – come nel momento stesso in cui è negato con la morte omicida. Se è vero pertanto che la storia umana è storia di violenza, è ancora più vero che essa è soprattutto la storia della sua condanna e del suo giudizio che, ieri come oggi, è proclamato dalle vittime, da coloro i cui volti sono stati cancellati dalla violenza omicida. Se, come ha scritto Metz, “l’autorità di coloro che soffrono” è l’unica autorità “nella quale l’autorità di Dio giudice si manifesta nel mondo per tutti gli uomini”, questo è perché nel volto di chi soffre e di chi patisce ingiustizia e violenza si iscrive il comandamento della giustizia o fraternità che, indeducibile dalla storia, giudica la storia e, ad ogni generazione, si offre come possibilità – la possibilità divina! – da realizzare.
    Annuncio dell’insopprimibile vocazione dell’uomo alla fraternità, il volto in cui si inscrive il comandamento di non uccidere conserva la sua provocante attualità soprattutto in questo momento storico sospeso tra la shoah e i gulag del ventesimo secolo – che ha visto la vergogna degli assassini di massa burocraticamente e scientificamente organizzati – e il nuovo secolo appena iniziato alla presa di cambiamenti epocali posti dalla bioingegneria genetica e dalla potenza tecnologica medica che costringono a ridefinire i confini della vita e della morte, e il potere dell’uomo sull’una e sull’altra. Non si può certo chiedere a questo comandamento biblico la risoluzione dei problemi immani di fronte ai quali oggi ci troviamo e sui quali i singoli parlamenti legiferano spesso contraddittoriamente (a titolo di esempio si può pensare alla interruzione volontaria della gravidanza entro le prime settimane di vita del nascituro, al diritto di sospensione di accanimento terapeutico, alla richiesta di assistenza alla propria morte in caso di malattie irreversibili o terminali, o all’uso di sostanze stupefacenti che alterano l’equilibrio fisico e psichico). Quella che però il comandamento dice e dirà sempre, quale assoluto conficcato nelle profondità della storia umana, è che ciò che rende umano l’umano è il suo essere motivato e intenzionato non dalla volontà di sopraffazione nei confronti degli inermi, dei deboli e degli ultimi, ma dall’attenzione e dalla cura nei loro confronti.
    Nel natale del 1942, a pochi mesi dell’arresto che lo avrebbe portato alla condanna a morte per cospirazione antinazista, facendo il bilancio della sua vita D. Bonhoeffer scrive: “Il rischio di lasciarci spingere al disprezzo degli uomini è molto grande. Sappiamo bene di non avere alcun diritto di farlo e che ciò ci porterebbe ad un rapporto assolutamente sterile con gli uomini… Disprezzando gli uomini cadremmo esattamente nello stesso errore dei nostri avversari. Chi disprezza un uomo non potrà ottenerne mai nulla. Niente di ciò che disprezziamo negli altri ci è completamente estraneo. Spesso ci aspettiamo dagli altri più di quanto noi stessi siamo disposti a dare. Perché finora abbiamo riflettuto in modo così poco obiettivo sulla debolezza dell’uomo, e su quanto sia esposto alla tentazione? Dobbiamo imparare a valutare gli uomini più per quello che soffrono che per quello che fanno e non fanno. L’unico rapporto fruttuoso con gli uomini – e specialmente con i deboli – è l’amore, cioè la volontà di mantenere la comunione con loro. Dio non ha disprezzato gli uomini, ma si è fatto uomo per amor loro” (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Edizioni Paoline, Milano 1988, pp. 66-67).
    L’imperativo divino a “non uccidere”, iscritto nel volto di ogni uomo, denuncia come disumano qualsiasi umano che si edifichi sull’oblio e il disprezzo degli ultimi e dei deboli, e annuncia che solo nel prendersi cura di chi è meno dotato di forza e più sofferente si accede alla percezione di ogni essere umano come prezzo incommensurabile, il contrario appunto del dis-prezzo. E tiene desta l’utopia – la possibilità dell’impossibile – di una umanità dalla quale siano bandite definitivamente le condanne a morte, come avviene già nella maggior parte delle democrazie, e dove al clamore delle guerre e alla logica degli armamenti subentri la forza inerme della pace, secondo quel futuro intravisto da Isaia nel quale finalmente gli uomini e le donne della terra “forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci, un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra” (Is 2, 4).


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