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    Media ed esperienza religiosa


     

    Giuseppe Morante

    (NPG 2004-07-17)


    IL LINGUAGGIO SPECIFICAMENTE RELIGIOSO

    Il linguaggio è uno strumento dalle multiformi espressioni che serve per comunicare dei messaggi tra persone. Con questa facoltà nativa l’uomo stabilisce un insieme di segni che sono codici attraverso cui comunica.
    Tale comunicazione si realizza a tre condizioni: ci deve essere corrispondenza tra il segno comunicante (linguaggio o codice) e il suo significato; è necessario un accordo vicendevole su tale corrispondenza (convenzione culturale e sociale); si richiede l’uso cosciente e voluto del segno in funzione comunicativa.
    Segni comunicativi diversi della stessa natura si possono concretizzare in un codice comune, se esso viene riconosciuto come tale.
    Vi sono linguaggi che coincidono con un codice e vi sono linguaggi in cui confluiscono contemporaneamente diversi codici (verbale, gestuale, mimico…).
    I linguaggi, allora, sono degli strumenti diversificati di “conoscenza” attraverso i quali si attua il processo di apprendimento di valori-messaggio, comunicati attraverso un codice:
    – si può trattare di comunicazioni (conoscenze da apprendere) che portano ad una esecuzione operativa: tale apprendimento si realizza con l’azione relativa ad una serie specifica di conoscenze;
    – possono essere messaggi trasmessi attraverso codici iconici: qui un apprendimento della conoscenza avviene utilizzando le rappresentazioni sensoriali e percettive della persona che riceve;
    – si può trattare di codici simbolici. In questo caso l’apprendimento del messaggio si realizza attraverso linguaggi formati da segni che rimandano per analogia alla realtà che significano.
    L’educatore deve conoscere le categorie interpretative del cristianesimo che sono “sistemi di significato” che rimandano a concetti organizzatori che servono a decodificare la realtà religiosa stessa come il mito, il rito, il simbolo, il segno…
    La conoscenza di queste categorie favorisce la qualità della comprensione, sollecitando il passaggio dal segno al significato, aprendo agli universi di significato che consentono una corretta interpretazione di ogni realtà religiosa trascendente.
    Perciò l’educazione religiosa deve abilitare a comunicare messaggi religiosi acquisendo una competenza religiosa comunicativa ed espressiva; deve far socializzare con la dimensione religiosa “umana” (perché appartiene alla sua esperienza personale) fatta scoprire dentro la propria persona e nell’ambiente come interazione, conoscenza, scambio; deve sviluppare quella creatività personale correttamente intesa come potenzialità della persona e quindi come tale educabile nello specifico del “religioso”.

    LA DIMENSIONE COMUNICATIVA DELLE VERITÀ CRISTIANE

    L’educazione religiosa, aperta alla dimensione trascendente della vita e alle esperienze delle varie religioni, fa riferimento ad un tipo di linguaggio che non deve ingenerare confusione circa la comprensione dei fatti religiosi storicamente connotati.
    Il cristianesimo ha come fondamento la rivelazione biblica detta comunemente “Parola di Dio”. È un’espressione usata per intendere un fatto: il linguaggio globale di cui Dio si serve nel comunicare all’uomo il suo progetto di vita.

    Un “parlar per simboli”

    Il termine simbolo ha vari significati (latino symbolus = segno di riconoscimento; symbola = contributo in danaro per un banchetto; symbolum = il credo del linguaggio della fede). Esistono anche differenze fra segno e simbolo, anche se si riscontra sempre una certa correlazione fra i due termini. Il segno è statico indicatore di riconoscimento e legame; il simbolo è dinamico perché mostra esperienze di contraddizione e/o attività di riunificazione, cogliendone il senso profondo.
    Nel mondo antico, il simbolo e la sua interpretazione sono collegati al mito e alla sua ermeneutica. La simbolica cristiana è un patrimonio di simboli (letterari, iconografici, gestuali) in cui si condensano i significati e attraverso cui si esprime il senso profondo dell’esperienza cristiana.
    La moderna ricerca ha origine normativa, come reazione al razionalismo illuministico; l’approccio al problema del simbolismo è diversificato, e si avvale del contributo delle molte scienze della comunicazione. [1]
    Il simbolo è parola chiave del linguaggio religioso, espressione di linguaggio relazionale che interpella l’uomo in prima persona. Nella storia delle religioni il simbolo è lo strumento che, per la sua funzione di immagine rappresentativa della realtà, risulta adeguato ad esprimere sensibilmente il non visibile, cioè il divino. Storicamente, basti riferirsi a questa tipologia progressiva:
    – per le religioni primitive, che tendono a dare alle idee e valori religiosi una visibilità concreta, il simbolo giunge quasi a identificarsi con la realtà;
    – per le antiche religioni misteriche, la cui dottrina ha per oggetto una realtà trascendente espressa con concetti astratti, il simbolo ha significati fondamentalmente reali; il rito di iniziazione, che congiunge l’uomo al dio, avviene attraverso un atto sensibile che si realizza attraverso i sensi: il toccare un oggetto ritenuto sacro, il porre un gesto, il fare una degustazione sacra… sono modalità che mettono in relazione al “divino”;
    – per le religioni evolute verso forme più spirituali, il simbolo perde il senso della sua materialità, esprimendo, al di fuori degli schemi conoscitivi usuali, la realtà valoriale dell’infinito. Rappresenta così in modo non descrittivo ma evocativo una realtà misteriosa, che è inaccessibile all’analisi razionale;
    – per la religione cristiana, il simbolo è un linguaggio totale: entra nella professione di fede esigita per l’ammissione al battesimo e come segno di riconoscimento dell’appartenenza alla comunità; rappresenta, nell’approccio ai testi sacri, quella categoria essenziale senza la quale sarebbe impossibile attribuire senso agli aspetti religiosi; favorisce l’approccio ai testi biblici per comprenderne la ricchezza del messaggio che appare come una semplice narrazione simbolica; rende comprensibile il patrimonio artistico che nella scrittura e nei suoi simboli espressivi ha avuto il suo repertorio iconografico fondamentale, il suo vocabolario linguistico.
    Per la moderna riflessione sul linguaggio, anche su quello più specificamente religioso, il simbolo acquisisce alcune caratteristiche che potrebbero essere così riassunte:
    – è un’immagine di cui ci si serve per esprimere l’interiore con l’esteriore, l’astratto con il concreto, l’infinito con il finito;
    – è la suprema espressione della capacità immaginativa. A differenza dell’allegoria, esso si apre sempre con un fondamento: l’idea, che trascende il suo rivestimento concreto.
    I suoi caratteri sono: l’inesauribilità, l’instantaneità, la totalità; non può mai essere decifrato e interpretato una volta per tutte;
    – interessa soprattutto la sua funzione sociale, perché la esprime in unità materiale, la rende cioè più percepibile a tutti. Il simbolo è un aspetto costitutivo del fatto sociale non solo perché permette a un gruppo di prendere coscienza di sé; ma anche perché nella riproduzione simbolica si assicura la continuità di questa coscienza e della comunità che vi si identifica;
    – costituisce il mezzo di comunicazione privilegiata dei sogni, il principale veicolo attraverso cui l’inconscio comunica con il conscio;
    – non è un’allegoria né un segno, ma un’immagine adatta per designare nel modo migliore possibile la natura, oscuramente intuita, dello spirito;
    – non è un investimento occidentale del pensiero, riproduzione o copia dell’essere; è una forma spirituale di espressione, un modo di comunicazione;
    – è consustanziale all’essere umano. Precede il linguaggio e la ragione perché rivela gli aspetti più profondi della realtà. È un modo autonomo di conoscenza.
    Porta in sé la nostalgia delle origini. Il simbolo per eccellenza è il simbolo religioso. Esso trasmette le manifestazioni del sacro. Il simbolo rivela una realtà sacra e cosmogonica che nessun’altra manifestazione è capace di rivelare (M. Eliade).
    Dal punto di vista della rivelazione biblica i simboli hanno il loro vertice proprio in Cristo, il massimo simbolo possibile: egli infatti unisce in sé i due poli estremi in dialogo (Dio il trascendente e l’Uomo storicizzato) e tutti i significati possibili relativi all’essere “uomo” e al suo essere contemporaneamente “figlio di Dio”.
    I simboli sono pregni di istanze psicologiche, etico sociali, culturali in senso lato, ma anche in senso profondo: aprono lo spazio del vissuto alla conoscenza e alla ricerca, all’esplorazione dell’ignoto e alla scoperta; rafforzano l’identità nella diversità, la stabilizzazione del carattere, il senso di appartenenza a una determinata cultura; creano mondi fantastici e inventano mondi possibili, alternativi a quelli della realtà sperimentata; saldano la rete relazionale nel processo di socializzazione comunitaria.
    Per questi motivi il linguaggio simbolico entra a pieno titolo nel panorama pedagogico religioso.
    Le attività di chiarificazione e di decodificazione, di ricerca e di interpretazione, di confronto e di organizzazione dei vissuti secondo i parametri cognitivi, logico formali, estetici, operativi ed etico sociali della conoscenza, se sono realizzate attraverso relazioni e connessioni significative e aperte, costituiscono l’asse portante dello svilupparsi e dell’ampliarsi delle possibilità di comunicazione comprensione di ogni tipo di realtà.
    Perché queste attività, se sono correttamente interpretate, si centrano davvero sulla persona nella sua essenzialità, nella sua interiorità, ossia nelle sue articolate dimensioni.
    Il linguaggio simbolico quindi fa riferimento “a Dio che non si vede e non si tocca”. Perciò di lui si può parlare per allusioni e rinvii, facendo riferimento a realtà che “si vedono e si toccano”.
    È il concetto di “analogia”. Il simbolo è il tramite privilegiato per parlare di Dio, tant’è vero che in Matteo si legge che ‘Gesù fuori delle parabole non diceva nulla’ (13,34) e la parabola non è che un simbolo narrato. [2] La bibbia stessa è piena di simboli, di paragoni, di allegorie, di immagini poetiche, di metafore…
    Diventa quindi decisivo per l’educatore religioso ritornare alla forza dei simboli, perché per la bibbia, tutto è simbolo di Dio: le cose, gli animali, l’uomo:
    – chi non conosce la simbologia non può sapere di teologia in modo completo, perché essa è nient’altro che riflessione ermeneutica (interpretazione-spiegazione) del linguaggio simbolico della rivelazione;
    – il Dio che emerge dalle pagine bibliche è un Dio rivolto all’uomo e alla sua storia; un Dio che si esprime nel modo e nel linguaggio dell’uomo. Per cui la bibbia non solo è il fondamento rivelato della Religione Cattolica, ma è anche in certa misura un testo di aggiornata metodologia: difende dalla smania di riempire le menti con idee astratte, incomprensibili ed evita il pericolo di avere persone con teste piene di contenuti più che con teste ben fatte; diventa un linguaggio adatto alle persone di oggi impregnate più di stimoli visivi che uditivi.
    Allora la conclusione didattica potrebbe esprimersi in queste linee operative:
    – comunicare è naturale. L’uomo nasce dialogico. Da sempre, il bambino brama guardare tutto e tutti ed essere guardato da qualcuno;
    – comunicare bene è da imparare. L’uomo impara a parlare da qualcuno che gli parla; impara spontaneamente, anche senza averne coscienza;
    – comunicare da professionisti è da studiare. Ogni scienza, ogni sapere ha un suo linguaggio proprio: linguaggio che va studiato. Anche l’insegnante di religione ha bisogno di professionalità; ed in questa prospettiva diventa importante la conoscenza dei linguaggi religiosi nell’IRC.

    Le caratteristiche della Parola rivelata

    Il testo conciliare “Dei Verbum” evidenzia tre caratteristiche della “Parola di Dio” che ogni comunicazione religiosa dovrebbe poter realizzare:
    – la “Parola di Dio” ha una dimensione interpersonale (perché Dio è persona e vuole parlare agli uomini come amici). La comunicazione del messaggio richiede un procedimento che realizzi un “dialogo relazionale” che va da persona a persona; che intende la rivelazione di Dio come comunicazione tra persone; che aiuti a interpretare la rivelazione come parola che rivela l’identità di Dio che vuole parlare agli uomini come ad amici. Conseguenza: ogni comunicazione della parola da Dio deve evitare ogni forma di comunicazione impersonale, ogni messaggio anonimo;
    – la “Parola di Dio” ha una dimensione storica (perché Dio é Spirito, ma vuole parlare agli uomini, che sono spiriti incarnati nel tempo e nello spazio del mondo).
    “Questa economia della rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi” (DV 2). Tale concreta comunicazione viene realizzata da Dio attraverso la storia del popolo eletto e la presenza del Figlio di Dio nella storia dell’umanità; nonché con l’esperienza (= storia personale) di ogni uomo, esperienza come “storia da salvare”. Conseguenza: ogni comunicazione della parola di Dio deve rispettare il principio della concretezza storica: una persona concreta in un ambiente preciso, in un tempo determinato, per evitare frasi fatte, contesti astratti, linguaggi aerei ed anacronistici…;
    – la “Parola di Dio” ha una dimensione dinamica (perché vita è dinamismo di crescita verso la maturità).
    La rivelazione è parola continuamente detta, e suppone il suo svelamento attraverso una provvida e progressiva gradualità dentro la storia umana, mediante una sua traduzione culturale, un suo parlare adattandosi alle persone.
    Il che si traduce in un rapporto personalizzato che porti progressivamente l’uomo verso la sua piena maturata relazionale con Dio. Conseguenza: il nostro insegnamento religioso rispetta le caratteristiche delle persone in ogni età della loro vita…
    Dalla dimensione interpersonale, storica, dinamica della Rivelazione consegue un primo compito didattico: interpretare in modo coerente il messaggio comunicato attraverso un linguaggio specifico che esprime relazionalità tra le persone, si riferisce alla concretezza della esistenza umana, suscita una forza dinamica che porta a trasformare la vita.

    La sintonia comunicativa

    Perché nella comunicazione ci sia sintonia tra chi “parla-comunica” (educatore) e chi “riceve-ascolta” (educando) è necessaria una sintonia, che si realizza a determinate condizioni:
    – ci vuole una motivazione comune sia al comunicatore (l’educatore) che al destinatario. Devono cioè essere motivati ad interagire tra loro, sulla base di una reciproca stima e di un comune interesse per l’argomento trattato. Quando si verifica questa condizione, il comunicatore è attento sia alle condizioni concrete in cui avviene il dialogo, sia alle attese dei destinatari. Da parte loro, questi partecipano con creatività all’incontro tutte le volte che si sentono accolti e rispettati, e riconoscono nel messaggio che viene loro offerto una possibile risposta ai propri interrogativi;
    – è necessaria una codificazione e decodificazione corretta. Il processo si realizza se si usano gli stessi codici e se il ricevente dispone di tutte le informazioni necessarie per la comprensione del messaggio. La comunicazione è tanto più facile quanto più il codice è costituito da esperienze comuni;
    – bisogna assicurare una parità di potere nel processo della comunicazione. Quando ambedue i dialoganti sono garantiti da una adeguata elaborazione dei significati, attraverso il confronto si fanno emergere gli errori e si svelano possibili malintesi a livello di utilizzazione dei codici e a livello di meta-messaggio.
    Non si deve sottovalutare il fatto che la riconosciuta parità evita o riduce le eventuali tensioni a livello di relazione;
    – occorre far spazio al mistero del messaggio. Comunicatori e destinatari non devono imporre una loro verità, ma collaborano per giungere alla comprensione di un messaggio più ricco di quanto non lo sia inteso dagli uni e dagli altri.

    L’USO SPECIFICO DELLE CATEGORIE INTERPRETATIVE DELLA RELIGIONE

    L’educazione religiosa deve trovare nelle forme espressive la sua pregnanza formativa, nell’uso di un linguaggio che fa da orientatore dell’esistenza, capace di interpretare e superare le esperienze del quotidiano, per collocarle nell’ambito più vasto dei valori trascendenti.
    Non si tratta di utilizzare in modo adeguato i termini, ma di utilizzare il tipo di linguaggio che è più adatto a spiegare fatti e fenomeni religiosi. L’uso corretto della parola è importante, in quanto, nella misura in cui fa penetrare nella realtà descritta, consente una rappresentazione, una formalizzazione, e si afferma nella coscienza umana.
    Oltre al linguaggio simbolico espresso nelle forme di segno e di significato, le parole più specifiche del linguaggio tipicamente religioso sono anche il mito, il rito di cui si offrono degli elementi interpretativi fondamentali.

    Il linguaggio simbolico

    Un’indicazione di metodo riguarda il linguaggio simbolico che nei media costituisce il perno centrale della stessa comunicazione. Ogni mezzo ha un suo codice ed un suo linguaggio; sarà necessario confrontare questo linguaggio con quello simbolico che dell’educazione religiosa è quello più autenticamente significativo.
    Da questo punto di vista, l’uso di linguaggi appropriati rappresenta l’aspetto più rilevante per la comprensione di un messaggio specifico di cui l’educazione religiosa deve essere garantita. E questo perché la religione cristiana, come pure altre religioni, ha come oggetto d’indagine una realtà ineffabile espressa con mediazioni linguistiche la cui comprensione necessita di una decodifica-codifica dei fatti e fenomeni religiosi narrati, per essere compresi e attualizzati.
    Il linguaggio religioso è un linguaggio di contrasto che non fotografa la realtà nella sua oggettività, ma evoca attraverso contrasti che si illuminano vicendevolmente. I riti come forma tipica di linguaggio religioso stabilizzano e riducono la complessità del mondo in cui viviamo e permettono di fare l’esperienza di ordine e di senso. Il mito è una forma specifica di linguaggio religioso che proietta sull’origine la verità e il senso fondamentale dell’esistenza. Le parabole sono costituite da un nucleo forte di linguaggio religioso. L’interpretazione del linguaggio delle parabole si è modificata notevolmente negli ultimi tempi. Non si tratta di un linguaggio di immagini per descrivere una situazione di fatto, ma di un linguaggio simbolico-evocativo.
    Certo si incontrano difficoltà nel contesto culturale attuale per comprendere il linguaggio religioso.
    In seguito alle teorie cognitiviste di Piaget si pone il problema se e come siano costitutivi essenziali del linguaggio religioso, non solo i tratti del simbolo, della metafora e della narrazione, ma anche la comprensione razionale della realtà.
    L’idea di progresso della conoscenza riguarda sia la dimensione verbale che simbolica del comprendere, a cui bisogna aggiungere come terza dimensione la crescita del sapere razionale quale segno di maturità religiosa, espressione anzi di tale maturità. Ne deriva in ambito di pedagogia religiosa che non basta dotare il soggetto di linguaggio religioso, ma di aiutarlo a rendersene conto criticamente.
    Pedagogicamente parlando l’educatore si serve di “esperienze fondamentali”, come l’essere perduto o l’essere salvato, per esplorare il linguaggio religioso in cui si trova. Bisogna tener conto del contesto di vita nella riflessione sul linguaggio religioso, proprio perché esso ne viene intaccato. Il progresso sul sapere religioso e la continuità rinnovatrice di esso si rendono possibili attraverso una continua attenzione alle modificazioni socioculturali apportate dalla vita.
    Spesso il linguaggio religioso è accusato di estraneità e incomunicabilità. Occorre elaborare un linguaggio adeguato all’oggi. Abbiamo a disposizione diversi livelli di linguaggio. Ne vanno evidenziati tre, che sono presenti nella comunicazione mediale: il linguaggio fattuale (informativo-descrittivo); il linguaggio principale (universale); il linguaggio esistenziale (situazionale storico).
    La religione ha bisogno di una pluralità di linguaggi per definirsi, strutturarsi, identificarsi. Per esprimere tutta la ricchezza dei fatti e fenomeni religiosi occorre arrivare ad un linguaggio totale, cioè che metta in dialogo tutti i linguaggi di cui l’uomo può servirsi per comunicare.
    Pur tuttavia oggi si dà molta importanza al linguaggio simbolico-narrativo in quanto riesce a coinvolgere tutta la realtà esistenziale dell’uomo. Soprattutto la scuola rivendica una serietà e un rigore scientifico e si avvale di un linguaggio accattivante nell’elaborazione dei processi educativi. In essa la religione usa un linguaggio che può apparire irreale, perché debole quando privilegia la dimensione allegorica, evocativa e quando utilizza il mito, il rito e l’allegoria.
    A confronto con il rigore di un linguaggio scientifico il linguaggio religioso rischia di perdere di credibilità e accettabilità. L’attuale ricerca ermeneutica rivolge il suo interesse ai temi dell’esistenza, la cui esplorazione viene preclusa alla scienza e pertanto richiede un linguaggio alternativo religioso-esistenziale, ma non per questo il suo valore non contraddice quello della scienza.
    Nella situazione attuale di pensiero debole (capace di consacrare la fine della verità) e pur continuando ad utilizzare il pensiero forte della metafisica classica (costruita per buona parte dalla teologia cattolica) il cristianesimo ha una sua autonomia di comunicazione dei contenuti che offrono stimoli speculativi ad ogni forma di pensiero. Il linguaggio non è solo mediazione strumentale, ma valorizza un contesto più ampio: dà cittadinanza alle esperienze non linguistiche e riconosce quell’intreccio che di fatto costituisce il mondo della vita. In questo senso il linguaggio religioso costituisce una possibilità concreta per arricchire il dibattito filosofico sul linguaggio in atto, anche se per un diffuso pregiudizio la dimensione razionale della fede trova una difficile e problematica accoglienza nella riflessione attuale.
    Ponendosi oltre il principio di causa-effetto il linguaggio religioso non ignora il limite al quale ogni ricerca conduce, ma lo carica di significato, portandolo all’incontro con la “verità” anche dove le spiegazioni razionali si arrestano.
    Il linguaggio simbolico è un universale, anzi l’unico linguaggio universale che l’umanità abbia creato e di cui abbiamo quotidiana esperienza. Esso potrebbe essere inteso come qualcosa che dietro un senso oggettivo, visibile, ne nasconde uno più profondo e invisibile. In esso le esperienze interiori, i sentimenti, i pensieri vengono espressi come se fossero esperienze sensoriali, avvenimenti del mondo esterno. Possono avere più di un significato, anche significati opposti tra loro, in relazione ai diversi tipi di esperienza che possono essere connessi al medesimo fenomeno naturale.
    L’esperienza soggettiva può essere determinante nel caratterizzare il valore simbolico di un evento. Il significato particolare del simbolo può essere quindi determinato attraverso il contesto globale in cui appare e tenendo presenti le caratteristiche predominanti della persona. Il fatto che un oggetto sia o no un simbolo dipende in primo luogo dall’atteggiamento della coscienza che osserva, ossia dal fatto che un uomo abbia la possibilità e la capacità di guardare un oggetto non solo nella sua manifestazione concreta in quanto tale (atteggiamento descrittivo) ma come espressione, simbolo appunto, di qualcosa di ignoto o di non meglio esprimibile.
    Quindi è possibile che uno stesso oggetto rappresenti per un uomo un segno e per un altro un simbolo. La storia del simbolismo dice che qualsiasi cosa può assumere un significato simbolico: gli oggetti naturali (pietre, piante, animali, esseri umani, montagne, valli, sole, luna, vento, acqua, fuoco); le cose artificiali (case, barche, veicoli); persino le forme astratte (i numeri e le figure geometriche). L’uomo, con la sua tendenza all’attività simbolizzante, trasforma inconsciamente in simboli le forme o gli oggetti, e li esprime per mezzo del sogno, del mito, della religione e delle arti.
    Un simbolo viene spesso definito come qualcosa che sta al posto di qualcos’altro. Questa definizione potrebbe apparire piuttosto deludente; ma diventa più interessante se consideriamo quei simboli in cui espressioni sensoriali come il vedere, l’udire, l’odorare e il toccare stanno al posto di un’esperienza interiore, un sentimento o un pensiero. Un simbolo di questo genere è qualcosa che sta al di fuori di noi stessi e ciò che esso simbolizza è qualcosa che sta dentro di noi.
    Possiamo stabilire una differenza tra tre tipi di simboli che stanno al posto di un’esperienza interiore, di un sentimento o di un pensiero. Un simbolo di questo genere è qualcosa che sta al di fuori di noi stessi e ciò che esso simboleggia è qualcosa che sta dentro di noi. Possiamo stabilire una differenza tra tre tipi di simboli:
    – i simboli convenzionali sono quelli, dei tre, i più conosciuti, dato che si usano nel vita comunicativa di tutti i giorni (es. linguaggio, bandiera, croce ecc.);
    – i simboli accidentali costituiscono l’opposto dei simboli convenzionali. Sono i simboli che possiamo definire accidentali, sebbene in entrambi non esista alcuna correlazione intrinseca tra il simbolo e ciò che esso rappresenta. Supponiamo che una persona abbia avuto una triste esperienza in una certa città; ogni qualvolta sentirà il nome di questa città, associerà facilmente tale parola con uno stato di tristezza, proprio come l’associerebbe a uno stato di gaiezza se vi avesse avuto un’esperienza piacevole. É evidente che la città di per se stessa non ha niente di triste o di allegro: è l’esperienza individuale collegata con quella città che la rende simbolo di un determinato stato d’animo. Al contrario del simbolo convenzionale, il simbolo accidentale non può essere condiviso da nessun altro, a meno che non si espongano gli eventi connessi con il simbolo stesso. Per questa ragione i simboli accidentali hanno un impiego limitato nei miti, nelle favole o nelle opere d’arte scritte in linguaggio simbolico. Nei sogni invece i simboli accidentali sono frequenti;
    – i simboli universali sono quelli in cui esiste una relazione intrinseca tra il simbolo e ciò che esso rappresenta. Alcuni simboli universali sono radicati nell’esperienza di ogni essere umano. Prendiamo ad esempio il simbolo del fuoco: si rimane affascinati da certe caratteristiche del fuoco; prima di tutto dalla sua vitalità: esso cambia continuamente, si muove continuamente, eppure in esso vi è stabilità; rimane sempre lo stesso pur senza essere lo stesso. Dà una sensazione di potenza, di energia, di grazia e di leggerezza; è come se danzasse e racchiudesse in sè un’inesauribile sorgente di energia. Quando si usa il fuoco come simbolo, si vuole esprimere l’esperienza interiore caratterizzata da quegli stessi elementi che si notano nell’esperienza sensoriale del fuoco: l’energia, la leggerezza, il movimento, la grazia, la gaiezza; e a volte l’uno a volte l’altro di questi elementi predomina in tale stato d’animo. Simile sotto certi aspetti e diverso per altri è il simbolo dell’acqua (il mare o un corso d’acqua). Anche qui si trova la fusione di mutamento e di permanenza, di costante movimento e pure di stabilità; come anche si ha la sensazione di vitalità, continuità ed energia, ma mentre il fuoco è avventuroso, rapido ed eccitante, l’acqua è tranquilla, lenta e calma. Il fuoco contiene un elemento di sorpresa, l’acqua un elemento di prevedibilità.
    Solo negli ultimi due tipi di simboli si esprimono le esperienze interiori come se fossero “sensoriali” e solo essi posseggono gli elementi del linguaggio simbolico.
    Il fatto che il mondo fisico possa costituire un’espressione adeguata di un’esperienza interiore non deve sorprendere.

    Il linguaggio del “mito”

    Mito è un termine sia filosofico che religioso, perché enuncia in forme immaginative fantastiche alcune verità morali, storico sociali, religiose. Nelle varie espressioni culturali assume progressivamente significati quali il parlare, il dire, il narrare, l’enunciare un progetto nativo della storia religiosa dell’umanità.
    Sia nel mondo greco che in quello di altri popoli dell’antichità, il mito ha talora valenze esistenziali e non solo teologiche, cioè centrate sulla divinità, in quanto interessano l’uomo e il suo destino e narrano dell’origine del dolore e della morte.
    I miti hanno due tratti distintivi: sono organizzati in una logica diversa rispetto al linguaggio razionale perché contengono una profonda verità interna alla persona; hanno poi delle conseguenze sulla strutturazione della cultura religiosa di una società.
    L’elaborazione scientifica del mito, come linguaggio simbolico religioso, lo considera come concetto organizzatore caratterizzato da un aspetto narrativo e da alcuni elementi di verità profonda. Queste verità, sempre presenti nel mito, non sono certamente intese in senso storico, ma come verità vissute che rappresentano la fonte di una particolare identità religiosa e culturale.
    Perciò, nella sua interpretazione, il mito non è pura invenzione, ma è fondamentalmente una “storia” vera per il suo contenuto: è espresso nel racconto di fatti realmente accaduti, a cominciare da quello delle origini della vita e della morte, delle specie umane e vegetali, della caccia e dell’agricoltura, del fuoco, dei riti iniziatici; di eventi lontani nel tempo, dai quali ebbe principio e fondamento la vita presente e dai quali procede anche la struttura attuale della società e tuttora ne dipende.
    I personaggi super umani, attori del mito, le loro imprese straordinarie, le loro singolari avventure rappresentano una realtà trascendente che non può essere messa in dubbio in quanto antecedente e condizione dell’esistenza della realtà attuale. Perciò esso si colloca come storia vera perché è “storia sacra”: cioè verità intesa non in senso logico né storico, ma religioso, ossia verità che è tale perché “rivelata”.
    Il mito narra una storia sacra e riferisce un avvenimento che ha avuto luogo nel Tempo Primordiale, quello favoloso delle origini. Funziona da ponte fra passato e futuro: esso è narrazione di un evento accaduto alle origini, il cui scopo è quello di fondare un evento analogo da inaugurare nel presente e che si manifesta, in quanto sporgenza sul futuro. Il mito dell’eterno ritorno che, attraverso riti di rigenerazione, propone e accentua la ripetizione della creazione.
    Con questo schema si vuole rappresentare il processo che l’uomo, tramite il mito, realizza a livello di religiosità: il pensiero mitico, presente nella religiosità dell’uomo di ogni cultura, viene appunto rappresentato con una freccia che parte dall’uomo stesso; l’uomo proietta nell’aldilà una divinità (mito), e attraverso il rito si sforza di avere potere su di essa per metterla al suo servizio.
    Il pensiero religioso dell’uomo della Bibbia si può rappresentare, al contrario, con una freccia che va in senso inverso: Dio interpella l’uomo attraverso la parola e la rivelazione, e l’uomo risponde attraverso il rito, che diventa espressione di fede gratuita e disinteressata.
    A volte si confonde il mito con i generi letterari quali la leggenda, la fiaba, la favola, la saga: non è un’interpretazione corretta, in quanto, pur contenendo il mito elementi di ciascuno di essi, non se ne identifica. Mentre il mito è portavoce di contenuti di verità coinvolgenti sul piano esistenziale e religioso, non si può affermare altrettanto per i generi letterari richiamati, che rappresentano ciascuno particolari aspetti.
    Così, la leggenda è un racconto estrapolato dalla storia con aggiunta di elementi fantastici, volti a idealizzare vicende o personaggi di un’epoca lontana, sovente determinabile sul piano storico; la fiaba è un racconto fantastico senza intenzioni edificanti perché i suoi personaggi sono sovente figure dalle capacità magiche (fate, gnomi, maghe...); la favola è una fiaba il cui scopo è di mostrare la vittoria delle forze del bene su quelle del male; la saga è analoga alla leggenda mentre narra le vicende epiche di un popolo attraverso una lunga concatenazione di fatti; è tipica delle culture nordiche.
    In questi generi letterari si possono cogliere elementi frantumati di miti precedenti i quali, una volta dissolto l’universo religioso di cui erano portatori, sono sopravvissuti nelle tradizioni popolari e folkloristiche.
    Il linguaggio mitologico ha anche applicazione nel contesto attuale.
    I suoi moderni usi hanno in comune con la sua funzione originaria il carattere di coinvolgimento esistenziale ed emotivo; sono però prive di ogni referente religioso.
    Oggi assumono spessore mitologico anche esperienze umane come i miti della libertà come indipendenza, del progresso, della razza, del globalismo, del pacifismo.
    Possono presentarsi come fattori di conservazione sociale o come utopie volte a far compiere un salto di qualità alla situazione politica e culturale del presente, ma non sono certo dei valori mitologici radicati nell’esperienza religiosa dell’uomo.

    Il linguaggio del “rito”

    Il termine indica un complesso di norme che regolano le cerimonie di un particolare culto religioso, anche se è collegato ad eventi non religiosi.
    I riti sono sempre in rapporto con i miti religiosi o sociali che simboleggiano e mantengono in vita, mentre questi sostengono, spiegano e giustificano il rito stesso.
    Il rito richiede alcuni comportamenti visibili esteriormente e destinati a coinvolgere più di una persona; si caratterizza per un insieme di norme che ne regolano la sequenza procedurale, a cui i partecipanti debbono attenersi con scrupolo; ha un carattere ripetitivo, costituito da segmenti la cui sequenza non è soggetta a varianti.
    Non esiste una religione senza riti in quanto alla teologia di riferimento subentra la necessità di strutture liturgico culturali che non hanno valore utilitario, ma essenzialmente di simbolo.
    Un insieme strutturale dei riti costituisce il culto.
    E comunque c’è sempre un rapporto tra rito e mito: il rito religioso è un insieme di azioni simboliche mediante le quali l’uomo coltiva i propri ‘dei’, manifestando in tal modo la sua sottomissione nei loro confronti.
    La ripetitività del rito rimanda sovente a un mito: l’evento descritto dal mito viene riutilizzato nei gesti e nelle parole che concorrono alla strutturazione del rito stesso. Il mito dà vita e contenuto al rito.
    Ogni rito richiede una giustificazione ideologica che ne esprima il quadro di riferimento e le finalità.
    Ad esempio, nella religione cristiana il rito eucaristico non è comprensibile, da parte di un credente, se non in relazione alla morte e alla risurrezione di Gesù Cristo: in questo evento “mitico” risiede la sua validità teologica ed esistenziale.
    Esistono riti positivi (con carattere commemorativo e propiziatorio) che possono essere distinti in:
    – riti manuali, nei quali il comportamento e l’uso degli oggetti sono finalizzati a stabilire un rapporto tra mondo e meta mondo; di essi fanno parte i riti legati al tempo (festa, consacrazione dell’anno...);
    – riti sacrificali a carattere cruento, durante i quali viene versato sangue di animali o di uomini e si stabiliscono così dei contatti con le divinità attraverso il fumo che sale dal luogo sacrificale;
    – riti di passaggio, consistenti in una serie di prove condivise e fissate dalla tradizione alle quali viene sottoposto l’individuo, che gli permettono di passare da uno stato a un altro (come il matrimonio, le cerimonie di iniziazione...).
    Esistono anche riti negativi che si fondano essenzialmente sui divieti, sui tabù, sulle azioni da compiere (digiuno quaresimale; togliersi le scarpe entrando in una moschea...); tra di essi ci sono anche da collocare i cosiddetti riti magici, che si propongono di ottenere risultati immediati e che contengono elementi ben differenziati dai riti religiosi, perché fanno riferimento all’immanenza, alla manipolazione a la privato.
    I riti sono riscontrabili anche nella vita quotidiana, con comportamenti ripetitivi, quali le celebrazioni della nascita e della morte di persone importanti, le commemorazioni di eventi fondamentali della storia (la liberazione, la costituzione ...); i passaggi di status (maggiore età, festa delle matricole, le consuetudini dell’apparato burocratico, le buone maniere a tavola, le mode di massa, gli atteggiamenti che contraddistinguono l’appartenenza a certi ceti…), i quali si presentano semplicemente come aspetti legati alla vita quotidiana, privi di ogni caratterizzazione religiosa.
    I riti hanno forte capacità di coinvolgimento delle masse; sono momenti od occasioni in cui la comunità ritrova la propria unità e identità.
    Il rito rappresenta uno dei modi con cui una comunità si pone al riparo dall’angoscia, dall’incertezza e dal timore di ciò che minaccia l’ordine della propria esistenza.
    Tuttavia, quando i riti si manifestano come meccanismi di routine, cioè privi di un contenuto di verità, perdono il motivo del loro stesso esistere. Al massimo, per alcuni di essi, si può dire che sono osservati religiosamente, volendo in ciò sottolineare la scrupolosità e la fedeltà al modello tradizionale che presiede alla loro esecuzione: la tradizione, infatti, tende, per sua natura, a fissare i comportamenti, a istituire liturgie. Quindi, poiché si manifestano come meccanismi di azioni regolate da norme e fondate sulla ripetizione o sul ciclo, vengono chiamati riti, seppur in modo improprio.

    L’USO DELLE MODERNE CATEGORIE DEL LINGUAGGIO

    È chiaro a questo punto che la comunicazione si realizza attraverso un linguaggio. Ma nella cultura il linguaggio è soggetto ad un logoramento con perdita di significato; e questo oggi è molto più accentuato che in passato.
    Le parole che esprimono la realtà si trasformano e si logorano rapidamente fino a non fornire più informazioni; in tal caso l’invecchiamento del codice linguistico non offre più le chiavi della decodificazione.
    Non pensiamo immediatamente ai linguaggi in senso didattico (che pure necessitano di un arricchimento, in sintonia con l’espressività e la cultura della comunicazione sociale, come il linguaggio dei gesti, delle immagini, del suono, delle parole, della narrazione...). Ma sarà bene riflettere sui linguaggi che scaturiscono proprio antropologicamente dalla cultura sociale entro cui pure dobbiamo collocare la comunicazione del messaggio cristiano.

    Il linguaggio delle relazioni interpersonali

    Se la persona è “relazione”; se la rivelazione parla della comunicazione in Dio (il mistero trinitario), della comunicazione su Dio (la storia della salvezza), della comunicazione secondo Dio (la vita della chiesa nello spirito delle beatitudini), il suo linguaggio non può che essere il linguaggio della comunicazione interpersonale.
    Perciò didatticamente può risultare inefficace o poco comunicativo quel linguaggio che racconti la verità rivelata in termini dottrinali o dogmatici, o la presenti con un linguaggio filosofico o teologico.
    Il linguaggio della relazione si esprime sempre in termini di incontro, comunione, dialogo, confronto, accoglienza o rifiuto, amore, fedeltà o infedeltà, tiepidezza o generosità, gratuità... che sono i tipici linguaggi biblici della relazione. La comunicazione religiosa, in questo modo, deve far respirare quell’atmosfera che mette l’educando a proprio agio.

    Il linguaggio della libertà

    Se è vero che sia dal punto di vista psicologico (la crescita verso la propria autonomia e indipendenza), che da un punto di vista socio-culturale l’uomo di oggi tende al mito della libertà e spesso ne celebra un culto assolutistico, anche la verità rivelata non può essere espressa se non con i termini della libertà.
    Prima di tutto perché la risposta di fede richiesta all’uomo è fondamentalmente libera e poi perché la comunicazione religiosa deve rispettare questa coscienza acuta della libertà di cui l’uomo è profondamente geloso. Se l’uomo non tollera di essere forzato, attraverso il linguaggio della libertà è necessario portarlo a riflettere sul suo valore più profondo.
    La comunicazione religiosa deve mostrare un linguaggio estremamente rispettoso della libertà; per il credente stesso l’atto di fede è espressione massima di libertà. Infatti più una risposta è di ordine spirituale, più esige di essere scelta. E senza libertà non ci può essere scelta.
    Anche nella comunità cristiana si deve respirare il clima maturativo della libertà, il cui linguaggio favorisce la crescita di autonomia contro il conformismo e l’infantilismo.

    Il linguaggio della creatività

    Se c’è una parola che meglio esprime la mentalità dell’uomo moderno è quella di essere costruttore di se stesso. Da un punto di vista psicologico l’uomo vive l’esperienza dell’autonomia in cui individua i termini del proprio futuro...
    Per rispondere a questa dinamica esistenziale, la comunicazione religiosa non può usare il linguaggio del dogma e della tradizione fissata storicamente, salvo recuperarla successivamente come momento di confronto culturale e di dimensione di fede personale.
    Del resto la creatività si riscontra nel mistero di Dio: la creazione, l’incarnazione, la comunità cristiana. È chiaro che la creatività non può ridursi a forme di riduzione e di spontaneismo, ma è necessario non limitarla a compiti solamente terreni, per essere aperti anche ai possibili doni della trascendenza rivelata. Solo così il linguaggio religioso globale diventa veicolo di un messaggio che è capace di umanizzare l’universo e di liberare l’uomo da tutte le sue schiavitù e alienazioni.

    Il linguaggio della solidarietà e della partecipazione

    L’uomo oggi viaggia su una direttrice planetaria e impara a proprie spese che non può risolvere i problemi culturali, economici, tecnici... individualisticamente: gruppi, sindacati, partiti, organismi nazionali e internazionali... Il mondo oggi avverte fortemente il bisogno della solidarietà.
    Non ci può essere solidarietà nella folla anonima e l’uomo ne sperimenta un’acuta coscienza personale. La solidarietà è assente da tutto ciò che ostacola la personalità del singolo.
    La solidarietà umana e cristiana è il frutto di una coscienza libera e responsabile. La vera solidarietà per il cristiano è la carità che si esprime con il linguaggio tipico della gratuità e della oblatività. La solidarietà (= alleanza tra Dio e l’uomo) è la molla di tutta la storia della salvezza.
    A proposito della solidarietà si deve dire la stessa cosa che si è detta del linguaggio della partecipazione: la conseguenza dell’essere insieme è parte di una comunità.
    Ogni insegnamento deve appropriarsi di questo linguaggio, perché mira a fare vere esperienze di comunità mirando a consolidarsi dal basso, nella serena coscienza che ogni membro attivo di un gruppo deve portare il suo contributo.

    Il linguaggio del futuro e della speranza

    L’uomo moderno appare sempre più come “progetto”; è rivolto verso il futuro, rifiuta una tradizione concepita come riproduzione o copia del passato. Una tale realtà evidenzia subito un atteggiamento di chiusura e di rifiuto di ogni offerta che appare stantia e quindi poco appetibile.
    D’altra parte la verità cristiana non è dietro al credente... ma in lui e avanti a lui. La bibbia non narra belle storie del passato, ma impegna in un processo di interpretazione e di attualizzazione del messaggio salvifico.
    Il linguaggio della comunicazione religiosa non può che essere perciò un linguaggio molto concreto e umano, fortemente radicato nella vita e rivolto alla ricerca di quei valori che avanzano all’orizzonte, ma di cui non si ha ancora il pieno possesso.
    Ogni insegnamento religioso si fa, in questo modo, proposta da verificare, ricerca che conquista, scoperta che rinforza; il suo modello si confronta con i veri modelli senza fissismi e senza conformismi: la sua verità si fa ricerca di valori che rispondono ai bisogni autentici ed ai desideri più duraturi.

    Il linguaggio dell’esperienza

    La cultura del nostro tempo vede l’uomo sempre più attestato sui valori concreti dei fatti e dell’esperienza umana. Quante volte si sente dire: più fatti, meno parole. Ma la vera esperienza umana totale dice relazione ai diversi livelli, per non imprigionarsi in allenamenti da piccolo cabotaggio. Dice relazione agli altri per arricchirsi di una varietà di esperienze; dice relazione all’universo per sentirsi dentro il respiro del mondo; propone relazione a Dio per dare uno sbocco di liberazione ai limiti spesso insuperabili della ristrettezza della vita dentro il ristretto limite storico.
    L’educazione religiosa non può prescindere da questa esperienza globale, anche perché la vita cristiana è soprattutto esperienza di testimonianza. E la testimonianza è la rivelazione di una esperienza. Il linguaggio dell’esperienza è allora il linguaggio del quotidiano, del concreto, del limitato, eppure linguaggio capace di dare uno sbocco alla vita oltre il quotidiano, oltre il concreto, oltre il limitato.

    Conclusione

    Che rapporto c’è tra questi tratti del linguaggio religioso radicalmente incarnato nel contesto ed i moderni mezzi di comunicazione di massa? A nessuno può sfuggire che proprio questi linguaggi sono sottesi all’affermazione culturale dell’uomo “mediale”. L’educazione religiosa deve tentarne una sintesi per “essere nella verità” e per “collocarsi nel contesto”.
    Si deve affermare che il messaggio rivelato, pur essendo trascendente perché dono gratuito di Dio all’uomo, viene comunicato attraverso un linguaggio che può essere comprensibile. Perciò nella comunicazione religiosa, se il linguaggio non si colloca nel piano della sintonia tra chi trasmette (cioè Dio attraverso le sue mediazioni) e chi riceve (cioè l’uomo, aiutato dagli strumenti del linguaggio comunicativo), il suo messaggio non viene veicolato e non può essere recepito. Il messaggio salvifico deve incarnarsi nel tempo. Solo incarnandosi in esso salva l’uomo. Ed il linguaggio ne diventa una mediazione essenziale.


    NOTE

    [1] Lever F.– Rivoltella P. C. Zanacchi a.. (edd.), La comunicazione. Il dizionario di scienze e tecniche, Leuman (To) Elle Di Ci– Roma, Rai-ERI– Roma LAS, 2002.

    [2] Ravasi G., Nell’Introduzione a “Dizionario delle immagini e dei simboli”, di M. Lurker, Milano, Edizioni Paoline, 1990.


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