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    Ripensare l’oratorio a partire dalla strada



    Paolo Gambini

    (NPG 2004-02-65)


    Lo scopo di questo articolo è quello di offrire un piccolo apporto all’attuale riflessione sull’oratorio. Rifacendosi all’esperienza di don Bosco, che ha i suoi inizi proprio sulla strada, cerca di indicare alcuni elementi essenziali da riscoprire e valorizzare perché l’oratorio, sia esso salesiano o no, possa riprendere vitalità. L’ipotesi da cui parte è che proprio “sulla strada” don Bosco abbia appreso un particolare modo di rapportarsi ai giovani tutt’oggi indispensabile a chi voglia incontrasi con gli stessi. Sullo sfondo sta l’idea che l’attuale crisi educativa non sia solo questione di mancanza di riferimenti valoriali. Se educare significa accompagnare la persona verso il cambiamento, oggi sembra essersi fatta incerta non solo la “direzione” del percorso ma anche la “modalità dell’accompagnare”. Ci riferiamo alla difficoltà degli adulti di oggi a costruire relazioni educative nelle quali i giovani siano riconosciuti come risorsa, possano esprimersi con protagonismo e al cui interno si instauri una vera e propria circolarità educativa.
    Per chi volesse approfondire queste tematiche può farlo attraverso il testo L’animazione di strada.[1]

    Agli inizi dell’opera di don Bosco

    L’azione educativa di don Bosco si sviluppa attraverso tre tappe fondamentali:
    – comincia con la sua scelta di dedicarsi ai giovani e specialmente ai più poveri;
    – continua con l’incontro personale di don Bosco con i ragazzi di strada che dà origine ad un primo gruppo;
    – matura con la necessità di trovare un ambiente adatto dove accogliere e animare quel gruppo di amici che col tempo si è fatto sempre più numeroso.
    Cronologicamente questi tre passaggi corrispondono:
    – agli anni di formazione di don Bosco nel convitto ecclesiastico (1841-1843);
    – a quelli di itineranza dell’oratorio (1843-1846);
    – alla nascita dell’Oratorio di Valdocco sino al momento in cui don Bosco, preso dagli impegni di fondatore di congregazioni, avrà meno tempo per stare in mezzo ai giovani (1846-1860 circa).
    È specialmente nei primi anni che l’attività educativa di don Bosco trova nella strada un riferimento costante. Qui il prete torinese ha l’opportunità di conoscere i bisogni dei giovani, di appassionarsi ancor di più alla loro causa e di incontrare nuovi amici ai quali proporre il proprio progetto di costruire un Oratorio. Ma sulla strada don Bosco continua ad andare anche quando quest’ultimo sarà realizzato.
    Al Convitto Ecclesiastico, da poco prete, si domanda cosa Dio voglia da lui. Per questo inizia a guardarsi attorno. Gira per le strade di Torino, da Porta Palazzo sino alle periferie. È dall’osservazione della realtà giovanile percorrendo quotidianamente i diversi quartieri della città, visitando le carceri, le soffitte e gli ospedali che nasce l’idea preventiva di don Bosco.
    Avvia quindi un catechismo festivo per garzoni. Ma non aspetta che i giovani vengano. Li va lui stesso a cercare. Col suo modo di fare furbo ed allegro gira la città ed incontra ragazzi e giovani, parla con loro, si interessa dei loro bisogni, gli propone il suo catechismo.
    Intanto il gruppo dei ragazzi che segue don Bosco cresce sempre di più. Diventa così sempre più urgente trovare un posto dove poter radunare gli stessi. Don Bosco cerca ma, prima di arrivare all’esperienza di Valdocco, sarà costretto ad itinerare con i suoi giovani per due anni da un luogo all’altro della città. Addirittura, seppur per un breve arco di tempo, la strada sarà il luogo di riferimento. È l’esperienza dell’Oratorio itinerante. Ogni domenica mattina raduna i ragazzi in una piazza diversa per portarli ad un vicino santuario dove pregare e giocare insieme. Finalmente, dopo varie peripezie, Pancrazio Soave affitta al prete la sua “tettoia” addossata alla casa Pinardi che sarà la sede definitiva dell’Oratorio.
    È interessante comunque notare come don Bosco, anche dopo aver finalmente realizzato l’Oratorio di Valdocco, continua a frequentare i quartieri di Torino per incontrare altri giovani perché l’Oratorio possa rimanere il più possibile aperto a tutti.

    Un oratorio fondato con i giovani sulla strada

    Ma se la strada è per don Bosco una risorsa, deve accettarne anche le sue regole. La prima e più importante deriva dal fatto di essere un spazio aperto, un luogo di tutti. Ciò significa che don Bosco andando sulla strada non può avvalersi dei privilegi che ha mentre insegna catechismo all’Oratorio. In questo spazio all’educatore non è consentito un tipo di rapporto direttivo. L’unica possibilità che ha è quella di instaurare una relazione paritaria nella quale, col tempo, in un clima di reciproca fiducia, possa ottenere lo spazio che gli è concesso.
    Don Bosco accetta questa sfida proprio per il suo desiderio di incontrare i giovani. È importante cogliere questo passaggio perché, a nostro parere, è qui che ha l’opportunità di approfondire il proprio stile di rapportarsi ai giovani, è qui che apprende i segreti della relazione educativa. Ci piace pensare che è proprio in questo periodo che il mestiere di educatore gli entra nel sangue.
    Sulla strada don Bosco impara che la relazione non gli è dovuta perché è un prete, un educatore o un adulto, ma deve guadagnarsela. È sulla strada che don Bosco ha l’opportunità di superare quell’immagine di prete conosciuta negli anni di seminario dove, come scriverà nelle sue memorie, quando “qualche superiore passava in mezzo ai seminaristi, era un fuggi fuggi generale, come se passasse una bestia nera”.[2] Da una figura di sacerdote austera e poco disponibile a mescolarsi fra la gente, don Bosco fin dai primi anni della sua opera è stimolato a realizzare un metodo educativo e un rapporto con i giovani basato sull’amicizia piuttosto che sul timore.
    La strada, poi, gli impone anche di contrattare il suo progetto con i giovani. In questo contesto, infatti, quanto realizzare lo si decide e lo si fa insieme. Così l’oratorio diviene sempre più un progetto comune. È il prete torinese che intenzionalmente si domanda cosa fare, ma è solo grazie all’assenso/dissenso dei suoi giovani che il suo ideale prende una sua forma specifica. Secondo una vera e propria circolarità, mentre don Bosco si propone di formare i giovani attraverso la catechesi, la proposta di valori e d’impegno sono gli stessi che con i loro bisogni, le loro richieste e la loro iniziativa plasmano il giovane prete e il suo sogno.
    Don Bosco si dimostra poi particolarmente abile nel far sentire ciascun ragazzo protagonista in questa avventura così trasgressiva per il tempo. Prete e ragazzi si sentono legati nello stesso progetto. Guai e gioie divengono in qualche modo comuni. È facile pensare come don Bosco nelle tante sventure abbia trovato proprio nei suoi giovani la forza per non arrendersi. Quando i parroci e le autorità municipali cercano di ostacolarlo, la Marchesa Barolo lo licenzia e non trova un luogo adatto per l’Oratorio, don Bosco rimane assolutamente solo con i suoi ragazzi. “La voce che don Bosco era diventato matto – racconta lo stesso prete – si diffondeva sempre di più. I miei amici soffrivano. Gli altri ridevano. Tutti stavano lontano da me. L’arcivescovo non interveniva. Don Cafasso consigliava di aspettare. Don Borel taceva. Tutti i miei collaboratori mi lasciavano solo in mezzo a quattrocento ragazzi”.[3]
    Di fronte a questo difficile piano da realizzare, ogni ragazzo si sente responsabile e mette a disposizione le proprie energie e il proprio entusiasmo. È interessante il clima che unisce i ragazzi. Sfrattati da un luogo, tutti gli oratoriani si danno da fare per raggiungere il nuovo quartiere generale. “Ognuno – racconta don Bosco – portava ciò che poteva, tra risate, tonfi, schiamazzi. Per il quartiere sfilavano bambini, ragazzi, panche, inginocchiatoi, candelieri, sedie, croci, quadri e quadretti. Una vera emigrazione fatta in allegria”.[4]
    Tutti sono legati in questa grande avventura, in questo sogno che la gente giudica una pazzia. La precarietà e gli insuccessi invece di allontanare i ragazzi sembrano cementarli ancor più. Parlando dei tempi dell’Oratorio itinerante, don Bosco dice: “Sembrava che questa posizione critica dovesse mandare in fumo ogni idea di Oratorio, e invece aumentò in modo straordinario il numero dei ragazzi”.[5]
    Al termine del cammino, quando ormai uno luogo fisico è stato trovato nella tettoia Pinardi, uno spazio mentale ed affettivo ben definito è già presente ed era rappresentato dalla forte relazione che si era stabilita tra don Bosco e i suoi giovani e questi tra di loro. Esiste già una comunità dove i giovani piuttosto che fruitori sono i veri protagonisti. Così sulla strada, all’interno di relazioni di autentica reciprocità, col tempo, il prete e i suoi giovani scrivono una storia e definiscono un’identità alla quale tutt’oggi ci ispiriamo. Così l’oratorio, più che essere un’istituzione o un luogo fisico, è anzitutto uno spazio aperto, all’interno del quale l’educatore cerca ed incontra i giovani per accoglierli in una relazione che, valorizzando i bisogni e le potenzialità degli stessi, procede verso il conseguimento di un progetto comune ricco di significati nel quale i giovani abbiano un ruolo di protagonismo. A questo proposito è interessante ricordare quanto don Rua dirà ad un salesiano che stava inviando ad aprire un oratorio: “Colà non vi è nulla, neppure il terreno e il locale per radunare i giovani, ma l’Oratorio è in te: sei tu! Se sei vero figlio di don Bosco, troverai bene dove poterlo piantare e far crescere un albero magnifico e ricco di bei frutti”.[6] L’oratorio, per esistere, ha piuttosto bisogno di una persona che abbia un “cuore oratoriano”.[7] Per questo anche la strada può divenire un’autentica esperienza di oratorio.

    Ritornare in mezzo ai giovani

    In poche parole, è quel tipo particolare di relazione che si stabilisce tra don Bosco e i giovani, legata al contesto “della strada”, a dare una forma del tutto speciale all’oratorio. Quel tipo di incontro che lo stesso don Bosco chiede ai salesiani di ristabilire quando nel 1884, a quasi quarant’anni dalla sua fondazione, all’oratorio di Valdocco si fa sempre più evidente la distanza tra questi e i giovani. Quando i salesiani – come scrive lo stesso don Bosco – “erano considerati come superiori e non più come padri, fratelli, amici”.[8]
    A questo punto, volendo offrire degli spunti di maggiore concretezza alla nostra riflessione, espliciteremo quali a nostro avviso sono le caratteristiche che connotano l’incontro tra don Bosco e i giovani. Dimensioni da rivalutare per poter superare la crisi che molti dei nostri oratori stanno attraversando. Vedremo in particolare come per poter tornare in mezzo ai giovani non sia sufficiente la semplice presenza fisica accanto a loro, ma occorra una rinnovata capacità relazionale in grado di riconoscere le loro risorse, renderli protagonisti e di stabilire una circolarità educativa. Tre aspetti strettamente interconnessi che, richiamandosi vicendevolmente, vanno a realizzare un unico percorso educativo. Tre dimensioni da curare a tutti i livelli: nel rapporto col singolo giovane, in quello col gruppo e in quello istituzionale (interscambio tra i gruppi e le culture appartenenti all’oratorio).
    Visti i nostri limiti di spazio, a mo’ di esempio, scegliamo di approfondire per ogni esigenza relazionale uno dei tre diversi livelli.

    Riconoscere i giovani come risorsa

    Come scrive Lévinas, il filosofo dell’alterità, non sono io a svelare l’altro ma è lui a manifestarsi come dato di fatto. S’impone da sé. Non posso definirlo e catalogarlo con i miei ragionamenti, così come si fa con le cose. La sua presenza è un’esigenza di reciprocità. L’unica cosa che posso fare è quella di accoglierlo e riconoscerlo. Perché ciò si realizzi “non si tratta – scrive l’autore – di pensare l’altro, né di pensarlo come altro; ma di rivolgersi a lui, di dirgli tu”.[9] È il contatto immediato io-tu a non rendere l’altro un oggetto e a fare in modo che l’altro si costruisca, si compia. Pensando o parlando di lui, invece, interrompo il contatto.
    Don Bosco vuol conoscere la realtà giovanile, ma non si limita a studiare e a parlare dei giovani: va ad incontrali là dove sono, stabilendo con loro un contatto, una comunicazione diretta, faccia a faccia. Spesso gli adulti di oggi, invece, si pongono la domanda su cosa pensino i giovani, ma quasi sempre non rivolgono il quesito ai diretti interessati: preferiscono interpellare gli esperti (sociologi, psicologi, pedagogisti, ecc.) o gli addetti ai lavori (educatori, insegnanti, animatori, operatori pastorali, ecc.). Così vengono fatte ricerche, indagini, sondaggi, tavole rotonde sui giovani, ma si è poco disposti ad ascoltare e ad interagire direttamente con gli stessi per sapere da loro cosa pensano o cercano. In questo modo gli adolescenti e i giovani diventano oggetto di studio, categoria sociale, problema da risolvere piuttosto che persone da incontrare.
    Tutto ciò, oltre che rappresentare un grande controsenso, è per tutti un impoverimento. Lo è per gli adulti e la società in genere, che viene a privarsi delle risorse contenute nell’incontro con le nuove generazioni. Lo è per i giovani, che in questo modo non vengono sostenuti nel superamento del compito evolutivo tipico della loro età relativo alla ricerca di identità e di senso, al discernimento dei valori sui quali progettare il proprio futuro e se stessi. L’identità, infatti, per essere incentivata occorre che sia riconosciuta.

    A livello del rapporto col singolo
    È l’incontro e la relazione personale a riconoscere l’altro come portatore di significato, oltre che di significati.
    L’ascolto in particolare fa sentire il giovane apprezzato offrendogli la possibilità di credere ancor più in quanto lui stesso dice. L’ascolto ha poi anche una capacità contenitiva rispetto al disagio. Spesso si ha l’impressione che il giovane chieda, più che consiglio e spiegazioni, un’occasione di ascolto dove possa esprimersi liberamente, quasi con la speranza di chiarire anzitutto a se stesso quali possano essere i motivi del proprio malessere. Per questo è necessario ascoltare il giovane escludendo ogni giudizio e colpevolizzazione perché sia aiutato a comprendersi e ad individuarsi. Non dimentichiamo, infatti, che l’adolescenza e la giovinezza non sono caratterizzate solamente da un grande bisogno di originalità, ma anche di accettazione.
    Oltre la funzione contenitiva che l’ascolto esplica, non deve comunque mancare, nel dialogo, anche l’intervento verbale diretto dell’adulto. Quando infatti il ragazzo si è sentito contenuto e riconosciuto dall’adulto, perché ascoltato, è in grado di realizzare dentro di sé uno spazio mentale ed affettivo dove può riconoscere l’importanza del pensiero altrui, utilizzandolo come elemento organizzatore della propria ricerca o del proprio disagio.
    Oltre a tutto questo è importante che l’adulto sappia esprimere nei confronti del giovane un atteggiamento di interesse e di vicinanza, funzione così profonda per la quale lo stesso silenzio può bastare. Per i ragazzi e le ragazze il semplice “stare” l’uno accanto all’altro, in una vicinanza gratuita, non funzionale ad alcuno scopo, ha una grande importanza.
    Il riconoscimento dell’altro, dice Lévinas, richiede anche una accoglienza incondizionata della persona come capacità di cogliere nella sua unicità e diversità un valore e un appello alla propria coscienza. Cosa non facile, perché richiede il superamento dei propri naturali pregiudizi come la ricerca degli elementi di risorsa che sono presenti in ciascun individuo. Così accanto all’accoglienza occorre la disponibilità a credere e a scommettere nelle capacità che sono nel giovane, anche solo a livello potenziale. Una fiducia che l’adulto deve manifestare visibilmente anzitutto riconoscendo gli interessi propri dei ragazzi e delle ragazze. Ogni interesse, infatti, anche quello giudicato dall’adulto come infantile, rappresenta un potenziale tema generatore del processo di maturazione. Ciò richiede all’adulto di andare al di là dei propri gusti e delle proprie aspettative. Riconoscere i giovani significa, infatti, scegliere di partire dal loro livello di maturazione e di interesse iniziando ad affrontare anzitutto i bisogni più immediati o a provocare l’impiego delle risorse attuali.

    Favorire il protagonismo dei giovani

    Per Lévinas l’altro rappresenta una dimensione sacra non assoggettabile ai propri bisogni e alla propria realizzazione. Una caratteristica dell’alterità sta proprio nell’impossibilità dell’io di catturare il tu dentro il proprio progetto. In altre parole, riconoscere l’altro significa evitare ogni sua manipolazione perché possa esprimere la propria originalità. Più concretamente, l’accoglienza e la fiducia, nel nostro caso, dovranno tradursi nel riconoscimento della libertà del giovane di progettare il proprio futuro in modo personale.
    Se si pensa all’intervento educativo come ad un aiuto discreto, di cooperazione e di proposta, questo deve essere ancor più vero quando si ha a che fare, come nell’adolescenza e nella giovinezza, con soggetti in ricerca della propria identità e dei significati della vita. La rilevanza delle soggettività in formazione deve essere in queste fasi evolutive più che evidente. Gli adulti che operano con gli adolescenti e i giovani devono favorire in questi ultimi una presa di posizione attiva rispetto alla propria crescita, agli stimoli interni ed esterni, perché possano così passare, sempre più consapevolmente e sempre più integralmente, dall’etero-educazione all’auto-educazione.
    I giovani non possono che essere intesi come i primi responsabili della propria formazione. Non devono essere considerati solo oggetti o recettori di norme o proposte. La loro maturazione avviene solo se con l’educatore si stabilisce una collaborazione attiva e consapevole. L’adulto da parte sua per favorire il protagonismo del giovane dovrà impegnarsi a scoprire e a valorizzare la sua originalità, le sue potenzialità ed attitudini, nella consapevolezza che il fine del cammino educativo sta appunto nel portare il giovane ad una propria autonomia, a camminare da solo, a fare proprie scelte.
    La ricerca d’identità e di senso è un processo per tentativi. Il giovane non è in grado di articolare di colpo un suo progetto personale. Per farlo ha bisogno di sperimentarsi e fare esperienze. Solo così può capire chi è e cosa vuole. Per questo, pur continuando ad essere affiancato con discrezione dagli adulti, il sentirsi protagonista gli permette di vivere ciò che fa come frutto delle proprie capacità e della propria originalità piuttosto che del condizionamento che gli adulti esercitano su di lui. La possibilità di provare a realizzare propri sogni, di progettare proprie iniziative, di agire in prima persona per trasformare la realtà, di negoziare con le altrui diversità, di assumere proprie responsabilità permette all’adolescente e al giovane di costruire una biografia sentita veramente come propria.
    Perché tutto ciò sia possibile, come faceva don Bosco, occorre favorire le nuove generazioni nella sperimentazione di ruoli e compiti all’interno della propria comunità. Occorre che la società civile ed ecclesiale offra alle stesse maggiori possibilità di espressione e di interazione, perché possano impegnarsi e compromettersi responsabilmente. Diciamo questo perché ci sembra ancora attuale la categoria della marginalità con la quale Milanesi [10] anni fa connotava la realtà giovanile. Una definizione che esprime bene il meccanismo strutturale di esclusione degli adolescenti e dei giovani dal godimento delle risorse, dei diritti e delle opportunità che il sistema offre invece agli adulti. Intendiamo parlare non solo del ritardato ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, ma anche delle quasi inesistenti possibilità che questi possano partecipare con più protagonismo alla vita politica, delle poche occasioni di autogestione loro offerte, della scarsa considerazione in riferimento alle loro capacità espressive ed innovative utili a tutta la comunità. La conseguenza è che la nostra società, non offrendo alle nuove generazioni sufficienti possibilità per sviluppare le proprie possibilità e le proprie qualità, non solo si priva di una forza viva ma non aiuta le stesse a crescere e a portare a piena maturazione le proprie potenzialità, rischiando che tali energie vengano stornate verso strade sbagliate.
    Anche i luoghi educativi a loro destinati non poche volte si presentano come rigidi e direttivi, incapaci di offrire possibilità di protagonismo e di esercitare la propria autonomia. Il problema centrale non sta tanto nella quantità delle opportunità offerte, ma nel fatto che tali occasioni siano realizzate dagli adulti secondo quell’immagine di gioventù deviante, in crisi e turbolenta che essi si portano dentro. In altre parole, un’idea di ragazzi e di ragazze bisognosi di qualcuno che dica loro che cosa fare, come farlo e quando farlo. Così si diffondono sempre più servizi, centri di aggregazione e oratori assai preoccupati di guidare e contenere, e assai diversi dagli adolescenti e dai giovani per poter interessare gli stessi. Spazi nei quali i destinatari hanno una posizione periferica e di semplice utenza rispetto a chi al centro decide e progetta.
    Non poche volte ci si ferma a ritenere i giovani un insieme di bisogni a cui la società deve dare una risposta offrendo servizi “preconfezionati”. È la logica dell’intrattenimento e dell’offerta di prestazioni in risposta ai bisogni quotidiani (sport, divertimento, musica, teatro, ecc.) piuttosto che una logica che veda i giovani come soggetti in grado di co-produrre piccoli e grandi beni collettivi, che scommetta sulla loro capacità/desiderio di inserimento e di partecipazione, che sollecita il loro protagonismo perché possa crescere il loro senso di appartenenza. La scommessa sta nell’offrire ai giovani degli spazi per partecipare in prima persona e non solo per lasciarsi passivamente coinvolgere. Una partecipazione democratica che percorra trasversalmente tutti i livelli, da quello della relazione educativa, a quello dell’interazione all’interno del gruppo sino a quello che coinvolge tutti i gruppi nella realizzazione della comunità.

    A livello dell’interazione col gruppo
    Gli adolescenti e i giovani realizzano la propria ricerca di identità e di senso confrontandosi con la cultura e la società a cui appartengono. In questo cammino i ragazzi e le ragazze, più o meno sommessamente, mettono in discussione i modelli di vita sui quali sono stati educati verso la composizione di un proprio originale disegno. È una ricerca fatta in modo del tutto speciale col proprio gruppo di amici che a questa età si trasforma in un vero e proprio laboratorio sociale e culturale dove poter riconoscere nuovi significati utili alla propria autodefinizione.
    Nel gruppo l’immaturità e l’incompiutezza di ciascuno possono, in un confronto paritario, generare quei processi creativi che aiutano i ragazzi e le ragazze nella loro ricerca e crescita. Le attività comuni rappresentano la possibilità di sperimentare e conoscere i propri limiti e le proprie risorse. Le relazioni amicali offrono loro l’opportunità di conoscere le strategie che gli altri usano per fronteggiare problemi simili ai propri.
    Il gruppo dei pari, importante agente di socializzazione, rappresenta un vero e proprio ponte tra l’individuo e la società. È al suo interno che l’adolescente e il giovane, in una dinamica interattiva tra eguali, negozia un proprio spazio di autonomia, rinuncia al proprio narcisismo assumendo proprie responsabilità, sperimenta norme e nuovi valori, può guadagnare la propria affermazione.
    Se il gruppo è indispensabile per la crescita dell’adolescente e del giovane, è importante che al suo interno e attraverso di esso questi ultimi possano esprimere il proprio protagonismo.
    In questo paragrafo ci riferiamo ai gruppi educativi dell’oratorio (aggregazioni guidate da un preciso progetto formativo e seguite da uno o più animatori), approfondendo quale tipo di rapporto di potere debba stabilirsi tra i ragazzi e l’educatore.
    Perché i giovani possano vivere il proprio gruppo con senso di protagonismo, occorre che l’animatore non assuma ruoli deteriori come quello di un “padre padrone” che decide sugli altri, o di un “mammone” che evita ogni difficoltà ai propri piccoli, o di un “compagnone” che non è disposto ad andare contro i propri destinatari per la paura di essere rifiutato.
    Il tipo di animatore a cui pensiamo è, invece, quello di un facilitatore in grado di suscitare e far emergere le potenzialità dei giovani, capace di incoraggiare e sostenere ma anche di provocare. Un “adulto di riferimento” preoccupato di animare e promuovere le risorse, di favorire la riflessività, di informare e orientare piuttosto che decidere e organizzare lui in prima persona. Un educatore che lavora per la sua progressiva inutilità, che quando il gruppo tende a delegargli troppo potere non accetta tale lusinga, ma è disposto a fare un passo indietro perché siano i giovani ad appropriarsi dello stesso.
    È bene chiarire a questo proposito, scacciando ogni possibile fantasma, che favorire il protagonismo non significa lasciare che i giovani facciano quello che vogliono. Tutt’altro. Pensiamo al protagonismo come ad una precisa modalità di mettere alla prova i giovani e il gruppo affinché possano sperimentare le proprie capacità e i propri limiti, possano saggiare il sacrificio che il conseguimento di un proprio progetto comporta, possano tra prove ed errori smussare il proprio idealismo scendendo a patti con la realtà. Significa fare in modo che i giovani e il gruppo possano confrontarsi con i vari punti di vista. Per questo l’animatore non deve nascondere le proprie idee e i conflitti presenti nella relazione educativa. Un passo che naturalmente, affinché non assuma i caratteri di una profonda lacerazione, richiede che quest’ultimo contratti fin dal principio con i suoi giovani le regole del gioco a cui essere reciprocamente fedeli. Il cammino verso l’autonomia altro non è, infatti, che un percorso attraverso il quale il gruppo si dà delle regole al fine di conseguire con più efficacia gli scopi comuni.
    In ultimo è necessario che l’oratorio offra spazi e tempi ai gruppi per rendere visibile alla comunità quanto hanno realizzato. Questo permetterà agli stessi di compromettersi fino in fondo e di essere riconosciuti. In questo modo l’Ooratorio, attribuendo significato alle esperienze degli adolescenti e dei giovani, integrerà quanto realizzato dagli stessi nel proprio patrimonio culturale.

    Favorire la circolarità educativa

    Conseguenza di tutto ciò è che l’incontro dell’adulto con il giovane si realizzi nella consapevolezza che l’intervento educativo richiede sempre una circolarità. A questo proposito Lévinas parla dell’altro come rivelazione dell’io.[11] È l’altro che ci pone nella condizione di scoprire la nostra identità. Con la sua presenza appellante ci risveglia ad una nuova realtà. Tutto ciò vale non solo per l’educando ma per lo stesso educatore. La ricerca, infatti, non è solo una caratteristica dell’adolescenza e della giovinezza, ma una dimensione trasversale a tutto l’arco della vita. In questo quadro la relazione educativa, pur nel rispetto delle diversità di situazioni vitali e di bisogni formativi, spinge gli individui a vedersi in un comune processo di sviluppo e di formazione. Nell’incontro per il solo fatto di esserci, al di là della propria età, dell’esperienza e della formazione acquisita, ciascuno è risorsa per l’altro. Il pedagogista Freire diceva: “Nessuno libera nessuno; nessuno è liberato da nessuno; ci si libera insieme”. Come dire che mentre l’oratorio aiuta i giovani a cambiare, questi ultimi contribuiranno a modificare il primo. Il risultato non può che consistere in un arricchimento reciproco. Nello scambio ciascuno porta qualcosa di sé ed accetta qualcosa dell’altro. Gli adolescenti e i giovani crescono rimodellando i propri orizzonti in dialogo con quelli dell’oratorio e modificano lo stesso grazie al loro contributo innovativo. Il criterio sotteso è evidente: costruiscono se stessi partecipando attivamente alla costruzione dell’ambiente al quale appartengono.

    A livello dell’interazione tra i gruppi
    All’interno dell’oratorio oltre ai gruppi educativi, di cui abbiamo già parlato, ve ne sono altri che, a vari livelli, non si sentono parte dello stesso e che, a loro volta, sono percepiti come un intralcio verso la creazione di un ambiente connotato educativamente. Sono giovani e gruppi collocabili metaforicamente alla soglia dell’oratorio. Stanno fisicamente dentro il suo spazio ma mentalmente e affettivamente fuori. Se con la loro presenza è come se chiedessero di essere riconosciuti e, quindi, di appartenere, con il loro comportamento non si lasciano coinvolgere più di tanto. Non sono, infatti, disposti ad adeguarsi fino in fondo alle regole e alle proposte dell’ambiente, ritenendo troppo alto il costo del tesseramento rispetto alle proprie esigenze di autonomia. Sono i ragazzi che vengono solo per tirare due calci al pallone, quelli che utilizzano l’oratorio per ottenere il permesso di uscita dai propri genitori, quelli che semplicemente frequentano il suo bar, quelli parcheggiati sui motorini, quelli seduti sulle gradinate della chiesa, quelli che compongono una vera e propria baby-gang e taglieggiano i più piccoli, distruggono le cose e cercano di fare del cortile la propria piazza. Ragazzi e ragazze solitamente descritti da chi guida l’Oratorio come perditempo, vuoti, a disagio, pericolosi.
    Non poche volte vengono così a costituirsi due grandi partiti contrapposti: quello di chi si identifica con la cultura oratoriana, formato dal sacerdote, dalla suora, dagli animatori, dai giovani dei gruppi educativi, ecc., e quello di chi rappresenta la cultura alternativa, costituito dai giovani e dai gruppi di cui abbiamo appena parlato. Tra le due fazioni è facile che si verifichino delle reciproche scaramucce che col tempo vengono a consolidare i ruoli e a irrigidire i punti di vista. Una distanza che, inconsapevolmente, come avviene nella costruzione di un capro espiatorio, aumenta proprio nei momenti di crisi della stessa cultura oratoriana, quando si fa più debole la capacità propositiva e aggregativa dell’ambiente.
    La caratteristica di don Bosco è stata, invece, quella di credere che anche in chi rappresenta una cultura alternativa vi sia un punto di accesso verso il bene,[12] vi siano, in altre parole, delle risorse e si possano trovare elementi comuni sui quali poter costruire un dialogo. Per questo è disposto a mescolarsi con questi ragazzi. Rispetto ai giovane con i quali un prete dell’Ottocento aveva a che fare in chiesa o al catechismo o nella scuola, quelli che stavano sulla strada costituivano sicuramente una novità. Come abbiamo visto, è proprio ponendosi in relazione con loro che don Bosco, oltre a dar corpo ad una nuova immagine di prete capace di divenire padre, fratello ed amico di qualsiasi giovane, modella il suo progetto di oratorio.
    Similmente alle sue origini, forse anche oggi sono proprio i giovani o i gruppi che mettono in crisi l’oratorio a rappresentare la sua risorsa. È, in altre parole, importante il riconoscimento di questi stessi ragazzi e dei loro gruppi perché portatori di una domanda di senso, nei confronti dello stesso oratorio, che necessita di essere compresa e valorizzata. È solo costruendo con gli stessi un rapporto di reciprocità, e non una condotta fluttuante tra l’evitamento e lo scontro, che l’oratorio può riscoprire la sua identità. Un riconoscimento che chiede di guardare alla reciproca distanza e al disagio che questa provoca, non come ad una minaccia ma come ad un’autentica possibilità di cambiamento. La paradossale sfida sta proprio nel pensare il disagio o il conflitto come ad una potenzialità che, se bene affrontata e ben gestita, può favorire e accelerare il cambiamento di ciascuna delle parti.[13]
    Dalla circolarità relazionale e comunicativa tra le due culture non potranno che emergere specifiche domande e specifici feedback che concorrono ad orientare il mutuo cambiamento. I giovani e i gruppi, sentendosi riconosciuti e potendo accedere agli spazi dell’oratorio, confrontandosi con la comunità, avvieranno un percorso che gli permetterà di prendere coscienza di sé e delle proprie risorse. Allo stesso tempo l’oratorio sarà costretto a ripensare se stesso progettando e sperimentando strade diverse per dialogare anche con chi si mostra indifferente nei confronti della fede, chi deve ancora ascoltare il primo annuncio, chi è culturalmente e socialmente emarginato e a disagio.
    A questo proposito avendo a che fare con giovani e gruppi culturalmente distanti dall’oratorio, può essere utile adottare i criteri dell’animazione di strada. È comunque importante, in questo caso, accogliere i ragazzi partendo da ciò che a loro piace e interessa. Non è possibile infatti incentivare un cambiamento in qualcuno se non dando spazio in primo luogo ai vantaggi personali che lo stesso può comportare, e solo successivamente proporre i vantaggi, per esempio, dell’oratorio. Se ci pensiamo bene, don Bosco non ha fatto altro che offrire opportunità di cambiamento ai suoi giovani nelle direzioni da questi avvertite come positive per se stessi. Partire dalla prospettiva dell’oratorio significa, al contrario, operare in modo impositivo o autoritario, calando sui giovani le prerogative dell’istituzione senza coinvolgerli sulle scelte del cambiamento o sulle modalità d’attuazione. Tale impostazione, oltre che essere inefficace, è antitetica ai principi del riconoscimento, del protagonismo e della corresponsabilità di cui abbiamo sino ad ora parlato.


    NOTE

    [1] P. Gambini, L’animazione di strada. Incontrare i giovani là dove sono (Elledici, Leumann–TO, 2002).
    [2] G. Bosco, Memorie, Trascrizione in lingua corrente di Teresio Bosco (Elledici, Leumann-TO, 1985), p. 74.
    [3] Ivi, p. 133.
    [4] Ivi, p. 119.
    [5] Ivi, p. 119.
    [6] Testimonianza di don Albera, secondo successore di don Bosco.
    [7] E. Viganò, Un “cuore” oratoriano, in “Note di Pastorale Giovanile”, (1988) 5, pp. 19-22.
    [8] Atti del Capitolo Superiore della Pia Società Salesiana 1, (1920), n. 1, 24 Giugno, pp. 40-48. Il corsivo è nostro.
    [9] E. Lévinas, Nomi propri, (Marietti Casale, Monferrato, 1984), p. 22.
    [10] G. Milanesi, Giovani (voce in ) Dizionario di Pastorale Giovanile, (Elledici, Leumann-TO, 1989).
    [11] E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, (Jaca Book, Milano, 1983) p. 143.
    [12] G.B. Lemoyne, Memorie biografiche di don Giovanni Bosco, vol. 5 (Scuola Tip. Salesiana, S. Benigno Canavese, 1906), p. 367.
    [13] Chiaramente ammettiamo che vi siano casi estremi in cui l’Oratorio, in quanto struttura educativa, non può venire a patti. Casi di particolare devianza che interpellano comunque la comunità oratoriana sul senso del proprio servizio nel territorio.


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