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    I dieci comandamenti sullo schermo


    Eliana Vona

    (NPG 2004-01-29)


    “Non avrai altro Dio all’infuori di me,/ spesso mi ha fatto pensare:/ genti diverse venute dall’est/ dicevan che in fondo era uguale./ Credevano a un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male”.
    Così cantava nel 1970 l’indimenticabile Fabrizio De Andrè ne “Il testamento di Tito” (tratta dall’album “La buona novella”); canzone nella quale disegna un affresco sui dieci comandamenti e, da laico quale era, offre una reinterpretazione attualizzata e problematizzata delle Tavole di Mosè, scritta con lo spirito critico di chi si pone continui interrogativi in merito alla questione senza riuscire a trovare la risposta giusta e soddisfacente. Nel testo, infatti, vengono presi in considerazione tutti i comandamenti, per ognuno dei quali l’artista propone un commento, una sua riflessione in chiave realistica e seguendo una lettura attenta alle contraddizioni del quotidiano. Un cammino di ricerca, anche se non sempre vicino ai canoni religiosi tradizionali, un percorso tracciato nel dubbio, nell’incertezza, nel desiderio di sapere, conoscere, scoprire ciò che non si riesce soltanto ad accettare per fede.
    Se, comunque, il cantautore genovese esaurisce l’argomento nello spazio di una canzone, non così può dirsi da un punto di vista cinematografico. Infatti il regista polacco Kièslowski ha seguito un itinerario analogo nel suo ormai celeberrimo “Decalogo”, un vero e proprio caso nel suo genere. Girato tra il 1988 e il 1989, il film si suddivide, per così dire, in dieci episodi della durata ciascuno di 60’ e sviluppa in ognuno il tema di un comandamento.
    Sorta da una evidente ispirazione di matrice giudaico-cristiana, l’opera omnia non manca, però, di porsi di fronte alle incertezze e difficoltà del vivere quotidiano, all’interno del quale sono inseriti i protagonisti delle dieci storie e, seguendo l’impostazione verghiana, il regista non accompagna i personaggi mano nella mano, ma lascia che vivano liberamente le loro vicissitudini, per le quali non prende una posizione ben precisa, ma resta in disparte, come una persona esterna, a raccontarle.
    Ecco perché non esistono vincitori né vinti, esistono solo i drammi e le crisi dell’uomo, narrati attraverso l’utilizzo dei comandamenti, il cui richiamo è, a seconda dei casi, più o meno esplicito. A volte, anzi, come nel caso del “Decalogo 2. Non nominare il nome di Dio invano” e del “Decalogo 7. Non rubare”, il riferimento risulta del tutto implicito e quasi simbolico. Nel primo infatti, una donna sembra invocare l’intervento di Dio per far morire il marito, malato di cancro; nel secondo il furto in questione è quello di una bambina effettuato dalla sua vera madre nei confronti di quella adottiva. Eppure la presenza divina aleggia nell’aria, si fa sentire, ed è forte soprattutto in alcuni episodi, come nel “Decalogo 1. Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio al di fuori di me” e nel “Decalogo 5. Non uccidere”; in entrambi i quali risulta determinante l’intervento del Destino, di un fatale destino che va tristemente a modificare la vita dei protagonisti. Ma non manca l’intervento della Grazia: “Ma valida / venne una man dal cielo / e in più spirabil aere / pietosa il trasportò”, per dirla con le parole del Manzoni e del suo famoso “5 Maggio”, pronta ad intervenire nei confronti dei suoi figli più bisognosi, come capita, appunto, a Roman, protagonista del “Decalogo 9”, il quale esce miracolosamente illeso (è solo ferito) da una rovinosa caduta con la bicicletta; famosissima, invece, ancora a questo proposito, la scena dell’icona che piange (“Decalogo 1”).
    Eppure ci sono momenti fortemente polemici, dichiaratamente lontani dalla ortodossia cattolica, come nel caso del “Decalogo 4. Onora il padre e la madre” e del “Decalogo 8. Non dire falsa testimonianza”. Nel primo caso ci troviamo di fronte all’amore di una figlia verso colui che crede il padre, nel momento stesso in cui scoprirà la verità, l’imbarazzo continua in un finale che comunque resta aperto; nel secondo film ritorna davanti agli occhi di un’anziana docente universitaria di filosofia uno scomodo episodio del passato legato alle tragiche vicende del popolo ebraico nel corso della Seconda Guerra Mondiale; la signora in questione doveva fingersi madrina per un fittizio battesimo di una bambina ebrea, ma si oppose, allora, in ottemperanza al comandamento, appunto, di “non dire falsa testimonianza”.
    Dieci storie diverse, dieci comandamenti, solo un pretesto per mettere in gioco dieci sfaccettature dell’animo; gli episodi, infatti, apparentemente slegati l’uno dall’altro, presentano invece degli elementi in comune che sembrano volerci comunicare che tutte le vicende sono collegate da un filo conduttore, quello dell’essere umano, alle prese con le piccole, grandi questioni del vivere quotidiano, a volte attese, a volte no, ma comunque sempre presenti e possibili nella realtà di ogni giorno.
    Ecco allora in diversi episodi la presenza ricorrente di un personaggio che assiste, come un estraneo, ma poi mica tanto, all’evolversi delle storie dei protagonisti, cambia continuamente modo di porsi: una volta è un semplice passante, un’altra un uomo in canoa, un’altra un ciclista, ma il suo atteggiamento rimane sempre lo stesso, pronto a fissare i personaggi della storia con i loro drammi e a guardare insistentemente verso la macchina da presa. Forse il regista stesso, nell’atto di controllare da lontano le reazioni delle sue “creature”? Può darsi.
    Un altro elemento che si ripete in molti film è il palazzo, all’interno del quale vivono molti personaggi che incontriamo nei diversi episodi; anzi nel “Decalogo 8”, si fa preciso riferimento alla storia narrata nel “Decalogo 2” e la protagonista dichiara che quelle persone abitano in quello stesso caseggiato. Sono molto frequenti, infatti, le scene in cui questo viene ripreso, sia attraverso panoramiche che ne evidenziano la possente struttura, sia attraverso campi medi che ne mostrano solo una parte; il tutto coronato da una fotografia diurna plumbea, atta ad esaltare un’atmosfera rarefatta, astratta e da un colore notturno livido, cupo, dentro il quale sembrano abitare tutte le miserie dell’essere uomo. Anche le case, all’interno, così poco illuminate, spoglie e strenuamente essenziali nell’arredamento, sembrano sposare questa tesi; non appare diverso il discorso per quanto attiene all’ascensore, anch’esso teatro di molte scene significative e di molti incontri-scambio dei vari personaggi nei diversi episodi. Proprio a testimoniare questo continuum, questo stretto legame tra le vicissitudini raccontate, i personaggi di un determinato episodio fanno capolino in un altro (per esempio nel “Decalogo 2” e nel “Decalogo 4”).
    Ma proviamo a raccontarli uno alla volta.

    * Nel primo comandamento (“Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio al di fuori di me”) viene narrata la storia di padre e figlio, morbosamente attaccati al dio-computer; i due si scambiano opinioni, esperienze, pensieri, in una sola parola, comunicano esclusivamente attraverso il computer, all’interno di una stanza che è una vera e propria centrale informatica. Ma il Destino è in agguato e, come avrebbe detto Cronin nel suo celebre romanzo “La cittadella”, “A Dio non la si fa”. Il bambino, infatti, muore accidentalmente mentre stava pattinando, lasciando il padre incredulo, sgomento, muto nel suo dolore. Torna a casa e trova sul monitor del computer queste presaghe parole “I am ready” (“Sono pronto”), che fanno riecheggiare alla memoria i versi del già citato Manzoni, questa volta tratti dall’“Adelchi” nella celeberrima scena della morte di Ermengarda, “Parlatemi di Dio: sento ch’Ei giunge”. Appartiene a questo episodio la famosa e commovente scena della Madonna in lacrime, in cui grazie alla bravura di Kièslowski si riesce a non banalizzare, né a rendere patetico un momento così intenso da un punto di vista religioso. È l’avvicinamento del protagonista verso le porte del cielo? Non si sa. La grandezza di questa monumentale opera sta proprio qui, nel non dare risposte precise e sicure a questo genere di domande.

    * “Non nominare il nome di Dio invano” è il secondo dei dettami delle Tavole di Mosè, e per rappresentarlo il regista sceglie una storia alquanto cruda e realistica. Una donna, che ha il marito gravemente ammalato in ospedale, si accorge di essere incinta del suo amante e si rende conto che quella potrebbe essere la sua ultima occasione per diventare madre. Anche se non espresso direttamente, si intuisce che la protagonista invochi l’intervento divino per “facilitare” la dipartita del marito. Ma le cose non andranno come lei spera: il marito si salverà e, non si capisce quanto consapevolmente, accetterà la presenza del nuovo arrivo. Significativa, a questo proposito, la scena conclusiva dell’episodio, girata con un effetto di luce ed ombre di rara efficacia, in cui l’uomo comunica al medico che l’ha curato, il quale conosce tutta la spietata verità, di tornare a casa dalla moglie che sta per avere un bambino. Si trova in questo episodio l’immagine della vespa che si dibatte per non cadere nel bicchiere, diventata il simbolo di tutto il Decalogo.

    * Il “Decalogo 3. Ricordati di santificare le feste” è stato concepito secondo la struttura del “cinema on the road”. Girato in una Varsavia da incubo, in cui la scena all’interno della galleria così chiusa e angosciosamente soffocante ne rappresenta la massima espressione, il film racconta il peregrinare di un uomo che lascia moglie e figli, durante i festeggiamenti della notte di Natale, per seguire la sua ex-amante alla ricerca del marito scomparso. In una notte cupa, con una macchina che funge anche da valvola di sfogo alla routine quotidiana, i due si ritrovano dentro stazioni evanescenti, nelle camere mortuarie di ospedali e, solo alla fine lei comunicherà che è stato tutto un bluff, un tentativo fatto per rivedersi ancora; parcheggiata la macchina, ormai malridotta, ognuno ritornerà alla squallida vita di tutti i giorni.

    * Nel “Decalogo 4. Onora il padre e la madre” ci troviamo di fronte forse al più ambiguo degli episodi girati. Mentre Fabrizio De Andrè, nella già citata “Il testamento di Tito”, interpretava lo stesso comandamento con queste dure parole: “Onora il padre, onora la madre/ e onora anche il loro bastone,/ bacia la mano che ruppe il tuo naso/ perché le chiedevi un boccone:/ quando a mio padre si fermò il cuore/ non ho provato dolore”, nel film si sfiora addirittura l’incesto. Una ragazza, infatti, si innamora di colui che crede suo padre. Quando, attraverso una lettera scrittale dalla madre prima della sua morte, viene a sapere la verità, ciò non fa che aumentare la sua inquietudine e il suo turbamento. Kièslowski mette a nudo con grande maestria un tema particolarmente scottante; si noti a proposito i numerosi dettagli della busta e il devastante effetto che la lettera produce nell’animo della ragazza che indispettita la legge al “padre”, nel cui personaggio sembrano simbolicamente esprimersi calma e perseveranza, tipici di una concezione di vita vecchio stampo, aspetti questi che sembrano fungere da contraltare all’irruenza della giovane.

    * “Il Decalogo 5. Non uccidere” è il più celebre dei film e tratta l’argomento scegliendo come tema quello della condanna alla pena di morte. In una città dai colori grigiastri, anonima e distante, un giovane sbandato uccide violentemente un tassista; il suo avvocato si batterà fino allo strenuo per impedirgli, senza riuscirci, la condanna a morte. Con un montaggio parallelo il film segue inizialmente l’arrivo del giovane in città e lo svolgimento dell’esame da procuratore sostenuto dall’avvocato che lo difenderà al processo. Il ragazzo confesserà solo al suo difensore di aver provocato, insieme ad un amico ubriaco, la morte dell’amata sorella di appena undici anni e si considera vittima di un assurdo e triste destino, in quanto è convinto che se quel fatidico episodio non fosse mai accaduto, forse lui non sarebbe lì. Quanto mai intensa e difficilmente dimenticabile la scena dell’esecuzione, tra le strida violente e penetranti del giovane alla rappresentazione cruda, realistica del cosiddetto braccio della morte, più che mai cupo ed inquietante, nella cui strettezza si intravede e, non tanto simbolicamente, ogni limitazione al diritto di vita dell’essere umano.

    * Nel “Decalogo 6. Non commettere atti impuri” viene raccontata la storia di un giovane, solo, che si innamora della dirimpettaia e, come un voyeur, la spia continuamente con un cannocchiale, rimanendo attratto proprio dalla intensa vita sessuale della donna. Anche qui la scena è ambientata nel già noto palazzo che sembra, più di altre occasioni, mettere a nudo la solitudine e la superficialità della vita di oggi. Quando il giovane riesce finalmente ad incontrarla, verrà umiliato dalla sua poca esperienza in materia e tenterà il suicidio; solo allora la donna si renderà conto del male commesso e cercherà di mettersi in contatto con lui. Dopo molti tentativi andati a vuoto, finalmente riesce a vederlo, ma il ragazzo le dirà malinconicamente: “Ho smesso di guardarla”.

    * “Il Decalogo 7. Non rubare” tratta l’argomento in maniera alquanto originale. Una giovane donna ruba la propria figlia alla madre adottiva, che è poi sua madre, cioè la nonna della bambina. Infatti Majka, la protagonista della storia, aveva partorito la piccola, chiamata Ania, ancora minorenne e la madre, per coprire lo scandalo, aveva adottato la nipote. Majka cerca in ogni modo di recuperare il rapporto con la figlia ed è palesemente infastidita e dispiaciuta del fatto che questa chiami mamma la nonna e non lei; nel momento in cui cerca di farglielo capire, la piccola, di appena sei anni, ovviamente non comprende la gravità della cosa e continua a chiamarla per nome. Particolarmente significativa la scena in cui Majka porta la figlia su una giostra abbandonata. Il rapporto tra Majka e sua madre è fortemente compromesso e la giovane si sente continuamente giudicata e non capita da lei; nel finale, infatti, quando i suoi la ritrovano in una stazione ferroviaria e sente che la figlia chiama ancora una volta la nonna, mamma, si renderà conto che lì, all’interno di quell’insolito nucleo familiare, non c’è spazio per lei e prenderà al volo il primo treno, tra lo sguardo attonito e sgomento della piccola Ania. E il film si chiude proprio con l’intenso primo piano della bambina. Questo rapporto così conflittuale tra madre e figlia riporta alla memoria il film di Bergman “Sinfonia d’autunno” (1978), interpretato da Ingrid Bergman (la madre) e Liv Ullman (la figlia), a cui, tra l’altro, l’attrice di Kièslowski sembra stranamente assomigliare.

    * “Il Decalogo 8. Non dire falsa testimonianza” scava nel passato, in quel tragico passato, che si chiama occupazione nazista in Polonia e Seconda Guerra Mondiale. Una giovane ebrea, giunta appositamente in Polonia dall’America, fa rivivere quei drammatici avvenimenti ad una nota insegnante, ormai anziana. Le due donne si incontrano sole per la prima volta, e questo momento è magnificamente rappresentato attraverso un gioco di luce ed ombre, che sembra riportare in evidenza i nefasti ricordi del passato. L’insegnante coraggiosamente accetta di ripercorrere i fatti di quel tempo, quando, come già detto, pur di non dichiarare il falso, si rifiuterà di battezzare la bambina che, come si deduce facilmente, è riuscita a salvarsi ugualmente. Dichiarerà alla sua giovane ospite di essersi rifiutata anche perché qualcuno le aveva precedentemente comunicato che poteva trattarsi di un imbroglio. Sarà vero? Non verrà chiarito esplicitamente nel film; sta di fatto, però, che fra le due donne si crea una grande sintonia che porta entrambe, dopo aver sinceramente parlato, a liberarsi di quell’atroce fardello. Non tutti, infatti, sono disposti a ricordare quel passato, e quando la giovane ebrea si recherà da un sarto che, in quegli anni, le aveva salvato la vita, questi si rifiuta categoricamente di ripensare a quei tempi, lasciando la giovane profondamente amareggiata. Altra scena assai significativa è quella in cui l’insegnante porta la ragazza nel palazzo ove si erano incontrate e si era verificato l‘episodio: la scena è girata a mo’ di incubo, come se fosse un film ambientato in quel periodo, tanto che l’anziana perde di vista la giovane e va a bussare a tutte le porte di quel palazzo, nel quale abita gente strana e particolarmente scostante. Interessante ancora una domanda che la giovane pone all’insegnante: “Perché certe persone possono salvare ed altri soltanto essere salvati?”. La risposta si colloca in perfetta sintonia con l’intera impostazione data all’opera, che è quella di non fornire risposte ed infatti è: “Non lo so”.

    * “Il Decalogo 9. Non desiderare la donna d’altri” evidenzia le difficoltà nei rapporti matrimoniali. Un medico, Roman, si accorge di essere diventato impotente e, pur amando la moglie bella e ancora giovane, si mostra incerto nella posizione da prendere. Scopre che la moglie ha un giovane amante e con un auricolare ne ascolta le telefonate; come il voyeur del “Decalogo 6” spia gli incontri segreti della moglie con il giovane. Quando marito e moglie si accorgono che amore significa anche altro, decidono di ricominciare e di avviare le pratiche per una adozione; nel frattempo la moglie, provata dalla vicenda, si prende una breve vacanza in montagna, dove, a sua insaputa, è raggiunta dal giovane amante. Il marito, venuto casualmente a scoprire l’accaduto, tenta (seguendo ancora le orme del protagonista del “Decalogo 6”) il suicidio. Ma la manzoniana Provvidenza sembra andargli in soccorso e Roman si salverà, pronto per ricominciare una nuova vita, con un diverso concetto di amore, accanto alla moglie. In questo episodio troviamo alcune delle rare scene girate in piena luce solare che funge da elemento di speranza e di rinnovamento per l’essere umano.

    * Eccoci all’epilogo e, come ogni tragedia greca che si rispetti, il finale è realizzato con una commedia. “Il Decalogo 10. Non desiderare la roba d’altri” è un apologo comico sulla cupidigia umana. Due fratelli, completamente diversi l’uno dall’altro, si incontrano in occasione della morte del padre. Questi possedeva una preziosa collezione di francobolli. Da qui la voglia di ottenerne il massimo guadagno, tanto che uno dei due arriverà a vendere persino un rene, per acquistare un raro francobollo che mancava ad una rarissima raccolta. Alla fine, ovviamente, perderanno tutto, a causa di un furto e ognuno dubiterà della buona fede dell’altro. Rimarranno così senza niente, con l’unico francobollo ottenuto grazie alla vendita del rene, ma nascerà in loro il desiderio di iniziare un raccolta filatelica.

    Vorrei concludere questa lunga esposizione sull’opera di Kièslowski con le parole conclusive della canzone di Fabrizio De Andrè, già citata in più di un’occasione, che trovo a riguardo particolarmente significative: “Ma adesso che viene la sera ed il buio/ mi toglie il dolore dagli occhi/e scivola il sole al di là delle dune/a violentare altre notti:/io, nel vedere quest’uomo che muore,/madre, io provo dolore./Nella pietà che non cede al rancore,/madre, ho imparato l’amore”.

    Ci tengo a ricordare, come film che tratta il tema dei dieci comandamenti il kolossal, dal titolo omonimo, girato da Cecil B. De Mille, prima nel 1923 e poi nel 1956. Grandiose scene di massa ed immagini spettacolari costituiscono l’elemento portante di quest’opera. Va ricordata, fra tutte, la celeberrima scena delle acque del Mar Rosso che improvvisamente si aprono, permettendo il passaggio a Mosè (che nel 1956 fu interpretato da Charlton Heston) e a tutti gli Ebrei. La scena fruttò il Premio Oscar per gli effetti speciali.

    Passando dal Vecchio al Nuovo Testamento, prendo in considerazione ancora un’altra opera di Kièslowski, e precisamente “Tre colori. Film Blu” (1993), primo della trilogia dei tre colori (seguiranno “Film Bianco” e “Film Rosso”, entrambi del 1994). Il film racconta il dramma di una donna che, in un incidente automobilistico, perde marito e figlia. Si chiude in un completo isolamento, poi a poco a poco, grazie anche all’aiuto dell’assistente del marito, decide di riprendere a vivere e di terminare il componimento musicale, cui il marito stava lavorando prima di morire. Scopre anche che il marito aveva un’amante, che tra l’altro aspetta un figlio da lui, e questo unisce stranamente le due donne. Il finale del film, con la scena dell’ecografia del nascituro, la coinvolgente musica, a cui sono abbinate le parole della Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo, il famoso Inno all’amore e alla carità, sembra, appunto, esaltare il principio del nuovo comandamento dettato da Gesù agli Apostoli, “Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri”.


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