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    I paradossi del nuovo conformismo


     

    (NPG 1988-08-46)

    Nella sua Vita di Don Chisciotte, Miguel de Unamuno cita un proverbio spagnolo che spiega bene l'arcano del conformismo, o almeno una buona metà del suo mistero familiare. È un proverbio con la rima, un proverbio popolare, di quelli che affidano alla consonanza di due parole il compito di catturare l'ombra di una verità complicata, riasssumendola nello schiocco malizioso di un bacio. Il proverbio simula un dialogo telegrafico, una domanda e una risposta laconiche e insignificanti. Ma la rima baciata gli accende sulla coda la lucciola improvvisa di una verità elementare, che subito si spegne. Qualcuno chiede a un tale: «Donde vas Vicente?». E Vicente risponde: «Adonde va la gente».
    Unamuno, che è vissuto in una società contadina, si ferma qui. Andiamo dove vanno tutti. Il gregge segue il branco, che segue la mandria.
    Niente di nuovo, dunque; a parte la spilla sonora che ha infilzato un esile giudizio e lo ha inchiodato alla bacheca delle ovvietà, come le ali di una farfalla. Il proverbio spiega solo metà dell'arcano. Infatti rimane da chiedere: «Y donde va la gente?». Ma l'altra metà è implicita nella reversibilità della rima. Le parole possono baciarsi al contrario, e la simmetria rovesciata può chiudere il cerchio dell'enigma, svelandolo per intero, ma rendendolo anche impenetrabile. Oggi che viviamo in una società di conformismo maturo, pienamente sviluppato, laico, e quindi senza appello, abbiamo imparato a leggere il couplet nei due sensi. Oggi sappiamo che chiedere alla gente «donde va», significa sentirsi rispondere: «Adonde va Vicente».
    Unamuno crede ancora che le processioni del conformismo siano rettilinee, che qualcuno o qualcosa le guidi. Noi abbiamo scoperto che sono circolari e che non le guida nessuno. Per Unamuno l'individuo crede di seguire la massa, in virtù dell'ascendente che il più ha sul meno. Per noi la massa crede di seguire l'individuo in virtù della maggiore visibilità dell'uno rispetto ai molti. Senonché, quel Vicente, che una volta è in coda e una volta è in testa alla processione, non esiste; come non esiste la gente, che è solo un'astrazione grammaticale. Vicente è il fantasma della singolarità e della moltitudine, al quale gli individui che compongono la folla hanno delegato i loro gusti e le loro volontà. Proprio perché Vicente e la moltitudine hanno abdicato in favore del proprio spettro, la somma del potere è passata alla maestà dell'Aritmetica, e soprattutto al Gran Vizir della Statistica, che conosce i segreti delle medie ponderate. Unamuno è morto troppo presto, ma oggi si accorgerebbe che Vicente e la gente non vanno da nessuna parte, e segnano il passo in tondo, come elefanti in un circo, sotto la sferza del Grande Numero.
    Vediamo. Chi è entrato per primo alla mostra di Van Gogh, trascinandosi dietro maree di visitatori preoccupati di posare lo sguardo dove lo hanno posato i predecessori, orma su orma, magari senza vedere Van Gogh? È stato Vicente o la gente? E chi ci fa sapere quali donne o quali uomini ci piacciono quest'anno, e quali ci piaceranno nel primo semestre dell'anno venturo? Chi decide sulla scelta del complesso (di Edipo, di castrazione, di colpa) più adatto a un divorzio o a un fidanzamento?
    Chi ci informa sulle nostre abitudini sessuali, sui ricordi della nostra infanzia, sulle lamette da barba più amate, sui nostri viaggi, sui nostri tic? Chi mi assicura che io sono io e non un altro? Chi trasforma i porci comodi personali in ideali universali? Chi impone il pudore o la spudoratezza come forme intercambiabili di bigotteria? Chi decide quando dedicarsi alla fedeltà, quando all'adulterio e quando alle partouze?
    È Vicente o la gente?
    Sappiamo, sospettiamo che Vicente siamo noi, tutti quanti noi. Ma con qualcosa in più e in meno. Siamo noi, meno la nostra testa. Siamo noi, più la sapienza degli altri. Siamo noi in quella versione universale, in quella terra neutrale dove non resta più nessuno. Siamo noi come percettori dei ricchissimi assegni culturali che i mass media fanno circolare in milioni di mani ma che nessuno potrà mandare all'incasso, perché nessuno li ha emessi. Siamo noi come media ponderata.
    Ecco forse Vicente è la vulgata sociologica che, eliminato il terzo incomodo di Dio, ci ha abituati a risolvere alla buona i nostri problemi, facendoci credere che «pensare» significhi sapere cosa pensano gli altri. La vulgata sociologica (non la sociologia) ha fatto sparire la materia prima, perché se tutti sanno solo quel che pensano gli altri, non c'è più niente da sapere né da pensare. La vulgata sociologica è la copertina dei rotocalchi in cui naufraghiamo ogni settimana. Forse Vicente è l'Auditel.
    Il conformismo laico, radicale, che ci fa girare in tondo come elefanti legati per la coda (anziché avanzare in processione per genufletterci agli altari delle superstizioni contadine) si fonda indubbiamente sulla visione sociologica del mondo, che non è un'ideologia come le altre, ma lo sfondo culturale di tutto ciò che sappiamo.
    Dopo Saint Simon, Montesquieu, Tocqueville, ma soprattutto dopo Comte e Durkheim, la sorgente ignota della nostra vita è diventata la foce familiare delle nostre indagini. Da allora la spada della scienza cerca di impugnare il braccio che l'ha forgiata, e il cavaliere razionale, che si lasciava trasportare dalle robuste zampe degli impulsi naturali (accontentandosi di guidarli), si è preso in spalle il cavallo.
    Parte di questa inversione va equamente attribuita alla psicanalisi, che è l'altro grande tentativo di chiudere l'anello della conoscenza usando la testa per scandagliare la coda (e viceversa); ossia usando la coscienza, e anche l'incoscienza, per smascherare l'inconscio: se si vuole, il fuoco di una torcia per illuminare il sole. Bergson ha descritto la nostra impotenza quando ha detto: «La ragione cerca cose che non troverà mai; queste cose l'istinto le troverebbe, ma non le cercherà mai».
    Né la sociologia né la psicanalisi sono invenzioni di Comte e di Freud. Piuttosto, caduti i sostegni esterni (i terzi incomodi) era inevitabile che tutto finisse per ricadere sui sostegni interni, sul soggetto individuale e su quello collettivo, sulla persona e sulla società. I quali non sono punti di appoggio ma punti da appoggiare, cose che cercano un senso e un sostegno. Investite della terribile responsabilità di fondare scienze capaci di garantire un fondamento alla nostra vita, la sociologia e la psicanalisi hanno fatto la fine di un soprabito condannato a sostenere l'attaccapanni, e ci sono crollate addosso, trascinandosi dietro il resto. Oggi ci muoviamo tra i loro rottami, sicché è difficile dire se viviamo in una società o in una sociologia, se abbiamo una psiche o una psicologia, se esercitiamo sesso o sessuologia.
    Come in tanti altri campi, anche in quello culturale le vittorie meritate producono trionfi immeritati, e i trionfi preparano il ridicolo. Nel gran disordine, Vicente è diventato un vigile urbano, e smista allegramente il traffico tra mostre, dibattiti, concerti, sex-shop, rotocalchi, videoclip, rete Uno, Due e Tre, Canale Quattro e Cinque, per far sapere alla gente cosa pensa la gente, vale a dire per farci sapere cosa pensa lui; che in fondo non esiste neppure ed è solo una allucinazione.

    (Saverio Vertone, Corriere della sera, 21 marzo 1988).


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