(NPG 1988-08-44)
Negli ultimi giorni abbiamo assistito ad un rinfocolarsi delle polemiche in merito alla emancipazione ed alla parità femminile. La cosa va segnalata non in se stessa, perché di tali polemiche è stato pieno l'ultimo quindicennio, ma perché per la prima volta le posizioni femministe non sono state recepite senza discussione, per convinta condivisione o per infastidita indifferenza. Sono state anzi puntigliosamente richiamate a non esaurirsi in sé stesse, ma a collegarsi con i grandi problemi e le grandi evoluzioni del Paese.
Basterebbero a comprova due recenti articoli sul Corriere: quello di Gennaro Acquaviva, che cerca di raccordare la tematica femminista alle trasformazioni della famiglia e del mercato del lavoro; e quello di Giuliano Zinco-ne, che cerca un raccordo con la trasformazione della morale collettiva e della cultura della sinistra italiana.
Sarebbe un'occasione perduta se la leadership dell'emancipazione femminile cadesse nella tentazione di riproporre la identità storica del movimento, senza raccogliere la cortese sollecitazione a ragionare, da donne naturalmente, sui grandi problemi in cui esse si trovano a vivere ed operare. Anche perché tali problemi sono pesantemente influenti sulla stessa identità delle donne e del loro movimento di emancipazione.
Si pensi al più importante fra i tanti problemi, quello della crescente saturazione della soggettività come riferimento dei valori e dei comportamenti. Tutte le grandi trasformazioni degli ultimi venti anni sono state segnate dall'affermarsi della soggettività: sia le trasformazioni di comportamento economico (la soggettività nei consumi, nella tensione al lavoro indipendente, nell'uso del tempo libero, della gestione del risparmio, ecc.); sia le trasformazioni nei valori sociali (la soggettività che sta sotto l'obiezione di coscienza, il divorzio, l'aborto, ecc.); sia le trasformazioni nella cultura individuale (la soggettività nei rapporti con il proprio corpo, con la propria malattia, con la propria fede religiosa, ecc.). E non c'è dubbio che l'emancipazione femminile ha fortemente lavorato in sinergia con queste diverse trasformazioni.
Oggi però la soggettività comincia a dar segni di esaurimento della sua forza di spinta come fattore di modernizzazione: non solo perché si avverte un crescente bisogno di solidarietà e di senso collettivo; non solo perché si pongono problemi umani e sociali sempre più complessi, dove la soggettività non ha nulla da dire (si pensi alle nuove povertà post-materiali); non solo perché bisogna fare i conti con fenomeni, quali quelli affrontati da Acqua-viva, di nuovo rapporto fra soggetti e famiglia e fra soggetti e lavoro; non solo perché molte esperienze ad alta soggettività (dal facile misticismo religioso al «viaggio» dei tossicodipendenti) cominciano a richiamare la vecchia frase di Kafka che nella soggettività «dopo mille soglie e mille sbarre si trova il nulla».
Ma anche e forse specialmente perché far troppo riferimento a se stessi come centro del mondo (il corpo è mio e lo gestisco come voglio, la moglie è mia e la cambio quando non mi dice più nulla, il peccato è mio e lo giudico solo io, ecc.) produce in fondo un tale impoverimento dell'attenzione verso l'esterno e verso gli altri, da indurre un impoverimento totale di input culturali e di valore. Al massimo si resta quel che si era, certo non si cresce, visto che si può crescere solo assimilando e metabolizzando le cose che avvengono fuori di noi.
L'identità diventa un qualcosa di immutabile, quasi una maschera, per i soggetti malati di soggettività. E questa situazione comincia ad essere avvertita, spesso come disagio diffuso, cui non basta come rimedio l'entrare in identità collettive (movimenti ed associazioni) che facciano da somma o da compensazione delle sempre più fragili identità individuali.
Anzi spesso tali identità collettive diventano dei «gruppi di pari» così omogenei ed impermeabili da risultare ulteriormente penalizzanti per l'emancipazione degli «adepti». Non è il caso evidentemente del movimento femminista, che ha limitata fenomenologia da setta di adepte. Ma è evidente che esso può correre il pericolo di diventare gruppo di pari e di parità, dove la parità è non solo bandiera di emancipazione ma anche fattore di facile identità sociale e di impermeabilità culturale.
Si rischia di negare l'ambivalenza (connaturata alla realtà ed all'anima di tutti noi) in nome dell'equivalenza; di negare la diversità (l'unica cosa che dobbiamo accettare per crescere) in nome dell'omologazione paritaria; di negare la crescita e la dialettica in nome dell'identità già acquisita o addirittura di partenza.
La società italiana, dopo la grande stagione della soggettività livellatrice, sta entrando in processi sociali più complessi, più ambivalenti, più dialettici, più orientati a valorizzare le diversità. È sperabile che tali processi si possa gestirli insieme, donne e uomini, in libertà rispetto alle tentazioni antiche e recenti (e comuni) di egocentrismo settario.
(Giuseppe De Rita, Corriere della sera, 18 maggio 1988)