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    Che cosa può dire il silenzio?


     

    Gian Paolo Caprettini

    (NPG 1989-07-53)


    Se volessimo attribuire al silenzio la prerogativa che attualmente sembra non potersi negare ad alcun evento o fenomeno dotato di un qualche grado di socialità, vale a dire il carattere comunicativo, ci troveremmo pregiudizialmente precluse alcune vie per comprendere il tema in questionein tutti i suoi aspetti. Ciò nonostante, in questo contributo ci si propone semplicemente di esporre, in maniera schematica, le linee di una possibile tipologia del silenzio a partire dal modello della comunicazione di Jakobson (Saggi linguistici, Feltrinelli, Milano 1966).

    53

    Si presentano dunque sulla scena sei possibilità di silenzio, che corrispondono ai fattori insopprimibili della comunicazione verbale:
    1. il silenzio del mittente;
    2. il silenzio del destinatario;
    3. il silenzio del contesto;
    4. il silenzio del messaggio;
    5. il silenzio del contatto (o del canale);
    6. il silenzio del codice.
    Accanto a ognuna di queste possibilità andrebbe indicata la corrispondente «funzione base».
    Avremmo allora:
    1. il silenzio emotivo;
    2. il silenzio conativo;
    3. il silenzio referenziale;
    4. il silenzio poetico (o autoriflessivo);
    5. il silenzio fàtico;
    6. il silenzio metalinguistico.Il silenzio del mittente

    Il silenzio del mittente

    Il silenzio del mittente (con conseguente funzione emotiva) è con molta probabilità il silenzio che presenta il più alto potenziale comunicativo. Se diciamo infatti che vi è un «mittente» (di un messaggio), nonostante egli taccia, allora finiamo per credere alla stessa impossibilità di non-comunicare, a una sorta di prigione, di stato di necessità in cui attualmente ci troviamo tutti coinvolti. Non si può decidere di non dire.
    E questo per molti motivi:
    a) il nostro volto, il nostro corpo, il nostro collocarci in un atteggiamento di minor o maggior disponibilità comunicherebbero in luogo della parola;
    b) saremmo anche «mittenti» perché, pur nel silenzio della parola e di ogni altro codice, ci verrebbe attribuita un'intenzione: e allora ci troveremmo assegnato ciò che il nostro destinatario crede che stiamo pensando (il silenzio produce sintomi, oltreché segnali);
    c) siccome l'atto comunicativo difficilmente parte da zero, il silenzio del mittente verrebbe colto nelle sue allusioni, nel suo presupporre, nel suo implicare, e dunque all'interno di uno scambio comunicativo che è cominciato già prima e che andrà ben oltre: il silenzio è una risposta, il mittente che tace è sempre in un atteggiamento di replica;
    d) il silenzio sta sempre in una cornice di parola, di rumore: come può annunziare se stesso? Il silenzio è considerato così come una sospensione del dire, come se il mittente si fosse interrotto, avesse alterato qualcosa, anche se in realtà non ha detto nulla;
    e) il silenzio del mittente può essere un invito: alla concentrazione, alla riflessione, ad attingere a quella «lingua semantica» profonda che non tutto può dire ma di cui nulla sapremmo se la «lingua naturale», cosiddetta superficiale, sempre fosse silente;
    O e ancora: il silenzio del mittente può essere reticenza, distacco, partecipazione, sorpresa, condivisione, repulsa, perfino menzogna; solo l'intervento di altri fattori, di altre funzioni riusciranno a svelarcene le potenzialità.
    Il silenzio del mittente appare comunque quello più «soggettivo», quello meno fissato da una convenzione, da un accoglimento sociale.
    Se volessimo radicalizzare, potremmo dire: il silenzio del mittente parla (soprattutto se non solamente) di chi tace.

    Il silenzio del destinatario

    Il silenzio del destinatario ha una funzione conativa quand'esso è orientato a ottenere - da chi riceve il messaggio - determinate risposte. Ma questo è in effetti ancora un silenzio del mittente, ossia l'effetto di dispositivi discorsivi messi in atto da chi ha prodotto il messaggio.
    Il silenzio, invece, di chi dovrebbe fornire risposta a un atto comunicatico, a una proposta di interazione, a una domanda, a una richiesta, il silenzio insomma come replica è pieno di interrogativi.
    È davvero una replica o è un non-rispondere? Contiene un messaggio di ritorno, o interrompe tout-court l'evento discorsivo?
    Di questo silenzio si dice spesso che è «gravido di risposte» e quindi, con un'interpretazione psicanalitica, potremmo dire che è un silenzio «materno», un silenzio comprensivo: il silenzio di chi vuole capire.
    La comprensione in effetti produce di primo acchito silenzio, il segnale iniziale che essa davvero c'è, è un attimo di silenzio, il momento in cui non abbiamo ancora parole per la nostra risposta, ma già abbiamo «tradotto» quelle che ci sono giunte in segni interpretanti che aspettano d'essere espressi. Il silenzio pre-espressivo è probabilmente il silenzio del destinatario.
    Dalla nostra parte ci appare come il tempo che realmente deve trascorrere perché una risposta arrivi, ma può essere di per se stesso risposta. Sappiamo che se il nostro destinatario non ha capito, ci chiederà spiegazioni, altre parole, ripetizioni, aggiustamenti, correzioni, compromessi. Ma se al nostro dire, al nostro comunicare opporrà il silenzio, allora potremo essere certi che il gioco dei codici è finito, che non si tratta di trovare altre risorse, per farsi capire, ma di rendersi conto che si è stati capiti o non capiti, definitivamente.
    Se però accanto al silenzio ermeneutico o cognitivo, accanto al silenzio pre-espressivo del destinatario, scorgiamo un silenzio d'altro livello, allora entriamo nel silenzio che il destinatario potrebbe opporre a chi parla per fargli sapere:
    a) che egli non è veramente il destinatario e che quelle parole vanno rivolte ad altri;
    b) che egli può fungere solamente da tramite verso il reale destinatario;
    c) ovvero, al contrario (le relazioni sociali ce lo mostrano spesso), che egli è il destinatario naturale di quell'appello, ma che altri glielo dovranno riformulare perché il mittente possa sperare in una risposta.
    Anche il silenzio del destinatario parla di chi tace.

    Il silenzio del contesto

    Il silenzio del contesto (a funzione referenziale, secondo il modello di Jakobson) è, almeno da un punto di vista pragmatico, il vero silenzio. Il vero silenzio che si ottiene non cancellando il soggetto, non cancellando l'oggetto del discorso, ma rimuovendo il contesto, l'intorno della parola: il silenzio del contesto può apparire come la principale risorsa non-funzionale dello scambio linguistico.
    Rendere silenzioso il contesto, vuol dire sottrarre la parole e i vari linguaggi al condizionamento delle circostanze; ma, in modo meno generico e più proprio, vuol dire considerare la possibilità di esistenza della lingua al di fuori di un qualsivoglia utilizzo immediato.
    Sorgono alcune questioni:
    a) è possibile mantenere il valore sociale della lingua e dei linguaggi «eliminando» il contesto?
    b) è possibile identificare una funzione contestuale del silenzio con una delle funzioni del linguaggio?
    A quest'ultima domanda potrebbe seguire una risposta affermativa, riflettendo che accanto alla funzione comunicativa, alla funzione di rappresentazione dei pensieri, alla funzione di mettere in contatto i soggetti sociali e i soggetti con se stessi, la lingua può avere una funzione «mistica» o «magica»: il senso può venire trasmesso al di fuori dell'intenzionalità, al di fuori del ricorso a una articolazione socialmente controllata dei codici, al di fuori della capacità degli interlocutori di rendersi effettivamente conto di quel che sta accadendo.
    Il silenzio del contesto, l'eliminazione dell'intorno è, se si vuole, il silenzio della preghiera, che non ha destinatari visibili, non ha un contesto da valutare, contrastare o al quale adattarsi, non comporta una riformulazione del messaggio al variare di fattori ambientali o circostanziali.
    Il silenzio del contesto è una parola al di fuori della storia, della tempestività, dell'immediato: è forse la parola non retorica, non argomentativa, non finalizzata, non orientata, che non attende risposte. Per restare alla «pragmatica linguistica», potremmo dire che essa è insieme assertiva perché afferma, commissiva perché accetta una promessa, direttiva perché insiste e richiede, espressiva perché è grata e indulgente, dichiarativa perché si offre.
    Il silenzio del contesto sottrae la parola all'orizzonte del dire, e al tempo stesso la carica di ogni possibile funzionalità.

    Il silenzio del messaggio

    Il silenzio del messaggio è il silenzio autoriflessivo, il silenzio che non esiste soltanto per sé ma per generare la parola.
    Il silenzio come messaggio è alternativo al mutismo, allo scetticismo, all'insidia, alla sanzione superba, al distacco; in termini semantici neutri, potremmo dire che è il luogo dell'attesa, della ricerca; e, in termini positivi, è il luogo della pienezza, della risposta; è analogo al deserto in cui tutto tace soltanto per chi se ne mantiene lontano, per chi non digiuna dal rumore quotidiano.
    In questa funzione il silenzio parrebbe non avere un oggetto di discorso. L'oggetto, interrogato, non risponde: la ricerca deve continuare.
    Ma questo è anche un silenzio rituale, preparatorio, previsto da un rito di passaggio: il silenzio messaggero, il silenzio come precondizione della comunicazione, il silenzio che precede una scoperta, una rivelazione, il silenzio aurorale; ma anche il silenzio melanconico, contemplativo, il silenzio del tramonto.
    Non è certo senza ragione che proprio nel cielo di Saturno, il settimo cielo, Dante abbia collocato gli spiriti contemplativi. È il cielo in cui «si tace... la dolce sinfonia di Paradiso» (XXI, 58-59), in cui Beatrice «vedea il tacer» di Dante «nel veder di colui che tutto vede» (XXI, 49-50) e lo coglieva carico di desideri. Settimo cielo - ben noto ai luoghi comuni del dire - che secondo alcuni richiama la dottrina dei sette doni dello Spirito Santo nella tradizione agostiniana.
    Silenzio interpretativo, dunque, che aspira alla verità, che ode se stesso, che si traduce in contemplazione. Silenzio dunque non produttore di atti linguistici, non assimilabile alla parola.
    Il termine «contemplazione» ci apre una prospettiva sinestetica: sappiamo che qui il silenzio viene veduto, è il frutto dell'osservazione minuziosa e sconfinata insieme; viene rappresentato, colto e interpretato attraverso la visione, gli occhi, «la chiarità». Il silenzio come messaggio apre le frontiere - sinestetiche - della sua raffigurazione: dal classico dito sulla bocca della dèa Angerona che chiude simbolicamente le vie del proferimento fino allo spostamento sensoriale nella sfera della vista.
    È negli occhi, nello sguardo che - in assenza di parola e gesti - andremo a cercare il senso di un silenzio, il tacere improvviso di un interlocutore o la sua riservatezza o le sue strategie.
    Vi è la possibilità di cogliere il valore, il significato delle espressioni comunicative proprio là dove vengono a mancare alle nostre aspettative: condizioni che spesso riviano tanto a un preordinato sistema simbolico quanto a precise - e forse codificate - tecniche e strategie discorsive.
    Il silenzio come messaggio ci permette di riflettere sulle forme della creatività intesa come disponibilità alla variazione delle forme di un sistema o di un codice semiologico, insita negli utenti del sistema o codice, e riconoscibile come proprietà del sistema o codice stesso (De Mauro). Per questa strada si può passare a: silenzio e codice. Ma prima, per rispettare l'ordine che si siamo imposti, dobbiamo attraversare il silenzio del canale.

    Il silenzio del canale

    Il contatto, il canale tace. La funzione fàtica si evidenzia quando consideriamo il silenzio come strumento che porta a stabilire e a mantenere la comunicazione. L'esempio maggiormente chiaro è il silenzio che si produce prima di un'esecuzione musicale o all'atto dell'entrata dei personaggi in scena: il silenzio della platea è una dichiarazione di intenti, l'indice rivolto a chi è sul palco che il contatto si è stabilito.
    Cosí, per la prosecuzione dello scambio comunicativo o per l'esecuzione di un testo, il silenzio è appunto un segnale di attenzione, il cenno che è in atto l'ascolto, che i partecipanti sono sintonizzati. «Nel silenzio delle parti» è una formula giuridica che indica appunto il raggiungimento di un accordo, la conclusione di una procedura negoziale, l'appianamento di divergenze.
    Ma il silenzio può, al contrario, essere la risposta negativa a una scelta di canale sbagliata: qualcuno non risponde alla mia lettera perché avrebbe preferito un contatto meno formale, ad esempio una telefonata. In maniera neutra potremmo dire che il silenzio svela la sua funzione fàtica in quanto è la pre-condizione perché un canale (diverso dal silenzio) possa essere fruito; si tratterà allora di «ascoltare in silenzio» per poter meglio capire, di «vedere in silenzio» per poter meglio osservare, di «gustare in silenzio» per cogliere tutte le sfumature.
    Il silenzio dunque come procedura che consente di percepire la pienezza e i dettagli di una situazione, come acquisito supplementare che dona profondità e ampiezza all'interpretazione e alla comprensione.
    Il silenzio come canale può anche essere legato all'articolazione fisiologica del dire, alle pause, sia intese come scansioni ritmiche, retoriche, simboliche della parola, sia considerata nel quadro della linearità del significante, ossia come indicatrici della successione di unità nella catena parlata. Si andrà allora dalle pause nella recitazione che si caricano di senso e determinano un alone attorno alla parola, alle varie «sottolineature» che il dosaggio del silenzio determina nello scorrere di una dichiarazione o di una conversazione, alle pause come segnali per il cambio di turno nei dialoghi dal vivo.
    Il silenzio ancora come cornice della parola, come spazio bianco, margine del linguaggio.

    Il silenzio del codice

    La serie classificatoria ricavata dal modello di Jakobson porta a concludere (avendo scelto di porre il destinatario dopo il mittente, per ragioni di simmetria) con la funzione metalinguistica, dove emerge una coppia di aspetti:
    a) il silenzio come codice;
    b) il silenzio del codice.
    Quanto ad (a), che il silenzio sia regolato intersoggettivamente e che possa quindi essere socialmente riconosciuto, è tanto evidente che esso ci appare come l'effetto di stratificazioni sociali e anzitutto come spia immediata per comprendere la distribuzione del potere, l'orientamento gerarchico di un'azione comunicativa: il silenzio accoppiato al codice è rivelatore di condizionamenti ideologici.
    Ma la funzione che per prima salta all'occhio non è quella metalinguistica. Perché il silenzio possa parlare del silenzio, bisogna che si sia fatta luce sul contesto, sulla zona testuale, comportamentale che il silenzio ha circoscritto. E se questa zona non esiste, non è fatta esistere, potremo parlare del silenzio come effetto di una comunicazione senza effetti. Senza effetti perché i suoi attori sono messi a tacere, perché non possono dire quel che pensano, perché preferiscono opporre l'eloquenza del tacere alla cerimoniosità, al pettegolezzo, alla petulanza, alla condiscendenza. L'importanza di chi tace è un bel tema per uno storico e per un sociologo.
    Il silenzio del codice avverte invece che si è di fronte a una scelta sbagliata o per insufficienza del codice a raffigurare e a dar senso, o per errore di valutazione. Quando il linguaggio non è capace di dare risposte, si può assistere ad apparenti variazioni improvvise - le avanguardie -, all'uscita dagli schemi, all'introduzione rivitalizzante nel codice di segni nuovi che assegnano nuovi valori ai segni esistenti.
    Il silenzio del codice è però soprattutto rumore, ripetizione, luogo comune, stereotipia, traduzione parola-per-parola, calco, linguaggio speciale esibito, chiacchiera burocratica, verità preconfezionata.
    Il silenzio come codice è ancora effetto di creatività, il silenzio del codice invece è l'ovvietà, il trattamento della comunicazione umana come se fosse in causa la decifrazione di una lingua scomparsa.

    * * * * *

    Come ha indicato Massimo Baldini nella sua ricognizione linguistica più recente (Educare all'ascolto, La Scuola, Brescia 1988), il silenzio è lo spazio dell'ascolto che restituisce all'attività discorsiva la sua profondità dialogica, il suo orizzonte di comprensione.
    È certamente significativo che Baldini, dopo aver esplorato le funzionalità, i significati, i valori del silenzio - da Le parole del silenzio (Ed. Paoline, Milano 1985) a Il silenzio nei Padri del deserto (La Locusta, Vicenza 1987), approdando alla ideazione del Convegno internazionale Il silenzio e la parola (Istituto di Scienze Religiose, Trento, 15-17 ottobre 1987) - abbia introdotto il silenzio nella «dimensione educativa» dell'ascolto.
    Certo, l'ascolto, quello effettivo, che non è pura ricezione, non avviene realmente nel silenzio totale di chi ascolta. Mille sono i cenni, i segnali, gli inviti e gli ostacoli che si possono inviare mentre si tace e si sta a sentire.
    Non c'è scienza però che educhi all'attenzione verso gli altri: quest'ultima può essere ottenuta soltanto con una semplice intenzione programmatica. Siamo esposti continuamente ai segnali, viviamo, talora sopravviviamo, in un ambiente fin troppo sonoro, fin troppo visuale, fin troppo carico di stimoli apparenti.
    L'attenzione che si richiede è forse l'effetto di un esercizio di alleggerimento, di «dimagrimento»: togliere dal contesto il superfluo, fare spazio nel rumore, ma anche creare una piccola breccia nel silenzio vuoto che è l'indifferenza; in altre parole, essere disponibili, con l'ascolto, a un discorso che non ci appartiene.


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