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    È nato un nuovo femminismo?



    (NPG 1990-02-42)

    Se osiamo leggere fin dentro le righe della sbalorditiva manifestazione delle donne a Roma, vi troveremo non solo la volontà di una corretta applicazione della 194, ma la collera contro l'affossamento della legge sulla violenza sessuale al Senato, la rabbia per l'aumento massiccio sulle medicine, lo sdegno per le manipolazioni genetiche, per l'ipocrisia dei falsi obiettori, e una disperata richiesta di informazioni sulla contraccezione, ma non solo, anche di «valori nuovi, per sconfiggere l'aborto» (scritta tratta da un volantino).
    Al di là della 194, io vi ho trovato, forse ancora incerta, ma improcrastinabile, quella che su questo giornale, in occasione dell'8 marzo, avevamo definito «la nascita di un femminismo di terzo tipo». Esso non è una restaurazione. Non deve. E non può esserlo. Si stacca dal passato, lo cancella, e lo rinnova, per aprire altri sentieri, meno scoscesi, intese meno minoritarie, meno marginali.
    Il femminismo storico si agglutinò sull'apartheid - la separazione ineluttabile dei poteri, tra donne e polis. Alzò una invalicabile muraglia tra i diritti delle donne e le istituzioni, contro cui lottò a muso duro come irreversibilmente nemiche. Sbagliò il tiro, credendo che il maggior ostacolo all'emancipazione fosse nell'atteggiamento della Chiesa, e non nella società.
    Si gettò in una battaglia abortista con lo slogan terrorista: «L'utero è mio e me lo gestisco io», come se il ventre di una donna fosse una fabbrica di prodotti di cui si notificava la proprietà, contro la società intera, in un estremo e disperato ricatto. S'illuse sull'esistenza di una «città delle donne», come antagonista della società civile. Come se ledonne potessero governare soltanto altre comunità di donne. Culturalmente, • teoricamente, si volle «un ghetto». Pulsioni suicide lo percorsero, fino al sacrificio totale, e poi al silenzio.
    Rispettiamo queste donne. Ma non somigliamo loro. La lunga fase post-femminista (durata una quindicina d'anni, piú che tempo di espiazione è stata tempo di riflessione) contraddistingue le donne per una mobilità felice da guerrigliere. La loro è una lucida strategia al fine di non farsi distruggere, una sottile tenacia offensiva per conquistare all'interno del groviglio delle strutture sociali, sull'immenso scacchiere dei luoghi di potere, posti spesso secondari e modesti, ma che finiscono col formare ora una sottile rete d' acciaio .
    Nella nuova coscienza del proprio valore e nella nuova dimensione culturale del femminismo di terzo tipo, la conquista basilare sta nel guardare alla società intera, al buon governo delle cose, come ad un magma sociale formato non soltanto da donne, ma da vecchi, da malati, da bambini violentati, da handicappati, da drogati, da nuovi appestati dell'Aids.
    Nella manifestazione romana ho avvertito cosí meno furia sovversiva e piú volontà di potere nei gangli statali e sociali. In passato, ci si inebriava col grido, dove si intuiva anche l'eco di un singhiozzo: «Donna è bello». Sabato scorso, nel corteo, si delineava invece la coscienza di una forza autonoma con le parole: «Donna, lo sai, la forza che hai?... Donna, lo so, la forza che ho».
    Dialogo tra sole donne? O dialogo tra loro e una società che invoca la positività femminile, la memorabile onestà delle amministrazioni donne (non un solo scandalo le ha colpite!), il rigore di cui si fanno protagoniste nella gestione pubblica. Per quanto muovessimo sotto le insegne di tanti partiti, si è capito chiaramente che il rapporto non è piú quello della subordinazione piatta al partito (cui spesso seguiva l'emarginazione), ma un dialogo tanto fitto, quanto autonomo con esso.
    Ne fa prova, forse, anche la lettera aperta delle donne democristiane (che non partecipavano alla sfilata) alle altre, per l'intesa, il ritrovamento di tutte, un testo in cui accenni di indipendente fermezza erano espliciti (purtroppo non è stato valorizzato).
    Il femminismo di terzo tipo muove alla conquista della cultura con una grande libertà intellettuale.
    Si svincola dal laicismo bigotto di un tempo, allarga la sua passione culturale a tutte le sfere di riflessione e di pensiero, una volta indigeste, e le sue teoriche hanno esplorato anche le vie della teologia cristiana o del femminismo cristiano, ridelineando la modernità di alcune donne del Vangelo (ricordo soprattutto il libro della famosa femminista freudiana Franpise Dolto con il suo «Il Vangelo alla luce della psicanalisi»).
    Insomma, per questo tipo di femminismo, non c'è piú una sola fonte culturale, il marxismo e le teorie ad esso collegate, ma si apre un grande orizzonte: cosí non è piú l'epoca in cui Althusser leggeva la Bibbia, e scriveva di nascosto all'accademico cattolico Jean Guitton. Una delle parti buie della nostra storia da cinquant'anni a questa parte si è fatta leggibile. E intanto, nell'arco di questi ultimi mesi, un Papa scriveva una epistola sulle donne dove ne denunciava la sofferenza, le percosse, l'abbandono, lo stupro di cui sono tanto spesso vittime, per esaltarne il sacrificio e il genio! (Non posso non sottolineare oggi l'assenza di polemiche infuocate da parte vaticana; anzi, emerge una sorte di cauta saggezza della Cei e di Wojtyla, per riannodare con tutte le donne un dialogo sulla cultura della vita, perché mai piú si erigano storici steccati verso il grande popolo delle donne.)
    Il femminismo di terzo tipo sa guardare lucidamente attraverso la società spettacolare di cui la donna è il business fondamentale, e che le chiede mille ruoli: sorta di donna chapliniana, avvita in fretta i bulloni del folle macchinario mediatico, affaristico, consumistico, e perfino riproduttivo. Talora al limite delle forze, riesce ancora a rispondere alla domanda familiare sociale lavorativa, a quella della modernità tecnologica sfrenata, e soprattutto al mercato erotico di un Occidente svirilizzato, che attraverso la lubricità moltiplica le eccitazioni, alimenta gli assatanati del sesso e le frustrazioni degli impotenti. Fino allo stupro, e fino a tutte le forme di violenza.
    Direi che il femminismo di terzo tipo non ha piú la ingenuità del passato, per cui il maschio è il solo colpevole, facendo di tutt'erba un fascio. «Lottiamo da quindici anni - lottiamo con la non violenza - e ci hanno derubato della nostra innocenza». In questo slogan del corteo, vedevo cosí scomparire il «maschio nemico» e apparire al contrario precisi nodi di un potere ora giuridico, ora politico, ora parlamentare, che porta le vere responsabilità.
    Femministe con occhi aperti, anche molto giovani, a proposito della legge antiviolenza - cucita e scucita già mille volte come la tela di Penelope - gridavano frasi dove si avvertiva la conoscenza di abissi familiari indicibili: «Quando lo stupro lo fa il marito, l'amore è garantito; quando lo stupro lo fa il fratello, è amore pure quello».
    Nel vecchio femminismo c'era l' angelismo delle donne (tutte sante) che, con Simone De Beauvoir, ignorava le differenze sociali, lo sfruttamento, per cui schiava e padrona erano unificate dallo stesso sesso.
    Finito l'amalgama - siamo tutte la stessa cosa - rinasce ai nostri tempi invece la dimensione critica verso le donne che servono succubi lo spettacolo spettacolare, e la loro rimessa in discussione. Al tempo stesso, si esprime una nuova solidarietà femminile.
    Direi che si smussa la misoginia delle donne per le altre donne, si spegne la vecchia invidia per le conquiste della cultura.
    Nell'attenuarsi tra donne la piaga piú antica, quella della misoginia tra loro stesse, sminuisce anche la diffidenza verso i cervelli femminili pensanti. La cultura prima era considerata un furto, un plusvalore, come il vecchio Marx considerava la ricchezza accumulata dal capitalista. Negli anni Settanta succedevano cose strane. A me accadde che una femminista d'urto mi saccheggiasse, dopo giorni e giorni di registrazione sul magnetofono che facevano sul tema «marxismo e femminismo», per un mio libro, tutte le bobine, facendone poi un proprio volume; giustificava questa appropriazione come esproprio proletario «contro una donna di dubbio femminismo e a cui la natura aveva offerto studi privilegiati, situazioni di favore...». (L'ho rivista sul palco, sabato scorso. Ha finto di non riconoscermi. Meglio cosí!)
    M'illudo? Ma il femminismo di terzo tipo si abbozza ai miei occhi coi caratteri di una solidarietà nuova tra donne (anche tra movimenti cattolici femminili e laici) per il fatto stesso che avanza la comprensione: abitiamo tutte lo stesso villaggio planetario, a porte aperte, illuminato solo dall'occhio della Tv.
    In me stessa, e in quella ragazza di Genova appena conosciuta nel corteo, andavo avvertendo l'annodarsi di una sconosciuta solidarietà e amicizia. Le parole Amore, le parole Vita, soprastavano. Vecchie donne, ragazze, bambini - quattro generazioni tra cui non s'avvertiva rottura - marciavano sotto l'insegna di una nuova morale, che spesso si accompagnava alla parola cultura.
    D'altronde, perché la rivalità antica tra donne non dovrebbe attenuarsi, se la conquista dell'uomo diventerà sempre meno decisiva per affermarsi nella vita sociale, economica, politica, culturale? Se le donne emergeranno per la loro dignità, competenza e per il loro ingegno?
    E la 194? Delle ragazze giovanissime mi hanno offerto un manifesto con il loro slogan e mi sembra sintetizzare un buon futuro per il terzo tipo di femminismo. «Non vogliamo tornare indietro ma vogliamo cambiare il presente, per costruire un futuro che ci liberi dall'aborto».

    (M. Antonietta Macciocchi, Corriere della sera, 17 aprile 1989)


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