Pastorale Giovanile

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    Prendi il largo


    Lettera ai giovani

    Enrico Masseroni

    (NPG 1995-04-59)


    Con gioia pubblichiamo un'altra «lettera ai giovani» di un amico: Padre Enrico Masseroni, vescovo di Mondovì.
    Avevamo già pubblicato (cf NPG 9/94) la Nota pastorale precedente «Vieni e vedi» (per un banale disguido tipografico avevamo scambiato Enrico con Emilio!), lettera che aveva avuto il gradimento dei nostri lettori. Per questo motivo, e per la continuità tra le due, pubblichiamo ora il seguito, che tratta del tema vocazionale.
    E se la prima lettera aveva come nucleo l'invito dell'apostolo Filippo a Natanaele, questa volta è l'invito di Gesù a Simone e amici pescatori. Donde ancora una volta si constata la pregnanza esistenziale e teologica di brani biblici, se ricompresi ermeneuticamente dentro le istanze e le domande di oggi, anche dei giovani.

    Dal «Vieni e vedi» al «Prendi il largo»

    Carissimo giovane, chissà se in questi anni, ti sei sentito rivolgere da un amico, o forse da un animatore, I 'invito di Filippo: «Vieni e vedi» (Gv 1,46). Forse sì. «Dai, vieni nel nostro gruppo; siamo amici. Vieni alla scuola di preghiera; agli esercizi spirituali!». So che molti ci hanno provato e mi hanno scritto cose interessanti, talora commoventi. In fondo, in quella esperienza, non c'erano solo degli amici, ma un Amico. Il «vieni e vedi» è l'invito a conoscere Gesù Cristo. Una persona del tutto singolare. L'unica veramente necessaria ad ogni uomo.
    Carissimo animatore, chissà se anche tu hai provato a far la parte di Filippo. Io credo che tra le gioie più vere e più segnanti per un educatore ci sia proprio questa: comunicare ad altri la propria scoperta di Dio; convincere altri ad incontrare il Signore, perché conoscere Lui, entrare nel suo mistero, significa spalancare orizzonti di vita.
    Appunto scoprire quel tesoro per il quale vale la pena di mettere in gioco tutto.
    D'altra parte c'è un rischio da correre. Chi, come te, accetta I 'arduo compito di animare un gruppo, di mettersi al fianco di un ragazzo o di un adolescente, non può escludere il «fallimento educativo». Si sa: educare è l'impresa più difficile. Se ti guardi attorno molti si defilano sul fronte dell 'educazione. Persino i genitori. Ma una cosa è certa: I 'avventura educativa scava in profondità, nel segreto dei cuori, una storia infinita, vera. Soprattutto nella vita di tanti ragazzi e giovanissimi. Qualcosa di te passa in loro. O meglio qualcosa di Dio, attraverso la tua parola e la tua testimonianza, diventa il senso della loro esistenza.
    E allora sono contento di continuare un altro pezzo di strada: con te animatore, con te giovane. Dopo il «Vieni e vedi» un'altra sfida: «Prendi il largo». L'espressione è di Gesù. Incontrare Lui significa uscire dagli anfratti chiusi, dare respiro alla vita, pensarla in grande, prendere delle decisioni, progettare il futuro.
    Si tratta di dare una risposta seria all'amore, forse contro moda. Si tratta di credere in un preciso e personalissimo progetto vocazionale, riassumibile in due parole: «Sono amato dunque amo» (Diligor ergo diligo).
    «Prendi il largo» (Lc 5,4) è una parola che decide una svolta, una missione, un destino: quello di Simone. Si trova in Lc 5,1-11:
    Un giorno, mentre la folla faceva ressa intorno a Gesù per ascoltare la parola di Dio, egli vide due barche ormeggiate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca.
    Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e calate le reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla: ma sulla tua parola getterò le reti».
    E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano. Allora fecero cenni ai compagni dell 'altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche al punto che quasi affondavano.
    Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore». Grande stupore infatti aveva preso lui e tutti quelli che erano insieme con lui per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone.
    Gesù disse a Simone: «Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini».
    Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.


    LA BARCA DI SIMONE: IPOTESI DI VITA

    «Un giorno...» (Le 5,1), una storia

    Taluni incontri hanno sempre una data. Naturalmente gli incontri che contano, quelli che incidono nel cuore di una persona parole nuove e provocano decisioni concrete; quelli che infrangono un ritmo di vita e fanno intuire il futuro.
    Giovanni, l'amico più giovane di Gesù di Nazaret, riesce a fissare sull'orizzonte del tempo l'ora del «Vieni e vedi»: «Erano circa le quattro del pomeriggio» (Gv 1,39). Una data lontana, nel fondo della memoria quando narrò quell'incontro, ma vicinissima al cuore. Non fu un'esperienza qualsiasi. Da quel giorno ebbe inizio una storia, un'avventura, il capolavoro di un'esistenza riuscita.
    Pure Luca, al c. 5 del suo vangelo, narra con grande precisione una storia, un incontro geograficamente situato, sul lago di Galilea: sulla riva nord nei pressi di un villaggio di pescatori. Anche per Luca è una data che cambia una vita.
    «Un giorno...» (Lc 5,1). Chissà, forse con qualche sforzo, avrebbe potuto dire di più. Ma con vera maestria il narratore disegna un quadro su tre piani: «Presso il lago» una gran folla, che fa ressa attorno a Gesù. La sua figura aggrega. Il suo messaggio sconcerta, sorprende, interroga, affascina.
    «Sulla riva», alcuni pescatori sembrano tagliati fuori: non danno a vedere d'essere coinvolti dai discorsi del Rabbì di Nazaret. Loro erano gente pratica, dalle mani incallite, con la pelle brucia ta dal sole, adusi ai segreti del lago: «Stavano lavando le reti» (Lc 5,2). Tutta qui la loro vita: intrecciata di notti e giorni eguali, di reti e fatica, sovente ingrata ed avara. Come quell'alba, dopo una notte insonne.
    E poi «due barche ormeggiate alla sponda». Vuote dunque; anch'esse come le reti.
    I tre piani del quadro sembrano ignorarsi: Gesù assediato dalla folla, i pescatori curvi a tirare le reti a riva, le barche in ormeggio. Ed invece tutto si muove: Gesù «vide» e «salì» su una barca che era di Simone e lo «pregò di scostarsi da terra» (v. 3). Gesù ha bisogno di spazio per parlare alla gente. Come dire di no a quello sguardo, a quella voce autorevole e dolce? Simone, da pescatore onesto qual era, con due colpi di remi stacca la barca e Gesù può guardare la folla. Forse è un onore per lui offrire un pezzo di barca al Rabbì. Ma nulla di più.
    Ma «quando ebbe finito (Gesù) disse a Simone: prendi il largo e calate le reti per la pesca» (v. 4). La parola del maestro non è più rivolta alla gente ma a lui, Simone. E un invito; anzi un imperativo preciso, concreto: «Prendi il largo...». Il dubbio, la memoria di una notte andata a vuoto corrugano la fronte di Simone... «Ma sulla tua parola getterò le reti» (v. 5). E si compie il primo miracolo: una rete gonfia di pesci; forse mai vista. È davvero singolare questo Rabbì, la parola così efficace, dirompente.
    Gesù, però, non si accontenta della barca di Simone; e neppure è pago d'aver gratificato la sua fatica; egli vuole entrare nel cuore del rude uomo di lago.
    «Al veder questo Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo: `Signore, allontanati da me che sono peccatore'. Grande stupore infatti aveva preso lui e tutti» (v. 8-9) i compagni di fatica. Lo stupore è la reazione del cuore di fronte ad una presenza misteriosa; come nell'esperienza degli antichi profeti, timorosi ed afferrati dall'irruzione di Dio. Un altro evento dunque è accaduto: nel cuore di Simone. L'incontro con Gesù è una luce che fa chiaro dentro la sua vita. Una verità che sembra provocare timore, distanza: «Allontanati da me...» (Lc 5,8).
    In realtà l'avventura di Dio nella vicenda di Simone non si arresta: Gesù vuole entrare in tutta la vita di Simone: «Non temere, d'ora in poi sarai pescatore di uomini» (Lc 5,10).
    Dalla barca di una professione, alla vita come missione; da Simone a Pietro.
    Gesù chiede, chiama; sembra una persona invadente, esigente. In realtà egli apre gli orizzonti angusti di Simone; lo sospinge «al largo», verso un mondo senza confini, nella direzione di una pienezza inimmaginabile: «pescatore di uomini».
    Così ogni vita umana: una chiamata sulla riva del tempo per donarci «tutto»; un invito a lasciare le reti di una pesca effimera per affidarci le sorti di una pesca in cui viene deciso il destino eterno dell'uomo.

    Barche vuote sulla riva: tre ipotesi di vita

    La barca è tutto per un pescatore: il suo lavoro, il suo pane, la sua vita, la sua storia. Tale era stato il passato di Simone e compagni prima di «quel giorno». Una vita così, da sempre. Tutta giocata dalla sera alla mattina e dal mattino alla sera.
    La pesca è una sorta di rito: si ripetono i soliti gesti, i tempi; il lago chie de fatica, silenzio, pazienza. La preda viene e non viene. Bisogna stare al suo ritmo.
    Ma che significano quelle «due barche sulla riva»?
    Le barche «vuote» possono evocare tre ipotesi di vita.

    - C'è anzitutto una «vita senza senso».
    O, almeno, il senso dell'esistenza viene offerto dai significati imposti dal mondo in cui si vive: dalla famiglia, dagli amici, dal modo di pensare comune: far bella figura, avere soldi, andare in discoteca, fare una vacanza esotica. Non si può stare indietro. Soprattutto si deve avere un'immagine apprezzabile.
    Anzi la maschera aderisce così bene al naso da indurre a credere che essa sia il vero volto. Una vita senza senso è un'esistenza giocata su miraggi illusori, senza grandi progetti, «gettando le reti sempre da una sola parte», secondo i propri gusti.
    Oggi c'è infatti uno stile di vita vastamente diffuso: si chiama «soggettivismo». Ciascuno, sul mercato del mondo, può servirsi come vuole: fa quello che si sente e che gratifica; decide il bene e il male.
    L'unico criterio sarebbe quello di non mettere il capestro alla libertà dell'altro. Il «soggettivismo» fa dell'individuo l'arbitro assoluto delle proprie scelte; baratta la vita su piccole sponde, senza interferenze dell'altro e dall'alto. L'esistenza va imbastita dai tetti in giù. E così, il soggettivismo, ha fatto piazza pulita delle utopie delle vecchie ideologie; e avrebbe pure liberato l'uomo da ogni riferimento a Dio, considerato un inciampo sulla strada della libertà umana.
    Il senso della vita muore con l'uomo. Ma è questa una vita significativa?

    - Una seconda ipotesi: «una vita da bravi ragazzi».
    Molti giovani sono disposti a gettare le reti «dall'altra parte della barca». Nel vangelo di Giovanni, Gesù è stato esplicito: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete» (Gv 21,6). Con esito sorprendente, come nell'episodio di Luca. Appunto una buona pesca.
    Questa è indubbiamente un'ipotesi apprezzabile di vita, una possibilità concreta, quotidiana.
    Non mancano infatti giovani attivi, pronti a darsi da fare nei nostri gruppi: tra i ragazzi all'oratorio, disposti ad animare un camposcuola, il canto nelle nostre assemblee. Non mancano neppure in attività di volontariato; e fanno persino tenerezza questi ventenni divenuti amici affettuosi di anziani cadenti in case di riposo.
    Con la chitarra in braccio o senza ispirano fiducia, simpatia. Nel loro sguardo c'è trasparenza, il riflesso di una pulizia interiore.
    Sembra di guardare nello specchio terso di un laghetto alpino.
    Nel giudizio della gente sono i «bravi ragazzi» che fanno pensare a un futuro meno nero dei tempi che corrono. I genitori ringraziano il cielo e ne godono, con qualche punta di orgoglio.
    Sperano che il loro figlio/a imbocchi la strada giusta nella direzione del lavoro, della professione e di un buon partito.
    Ma quando un educatore, per lo più un prete, invita «a prendere il largo», ahimé!, riemerge l'istinto di Simone: «Signore, allontanati da me...». Quando qualcuno sollecita a un più serio programma di vita spirituale, a guardare al futuro dal punto di vista di Dio, più che «prendere il largo» si sta alla larga.
    Non dal prete o dalla parrocchia; ma da Dio. È troppo esigente questo Cristo! Se poi, oltre la barca, vuole anche la vita? E si dimentica che la piena realizzazione umana non si trova negli anfratti del proprio piccolo mondo, ma prendendo il largo.
    Quanti giovani simpatici, cordiali, trasparenti incontro alle nostre liturgie domenicali, nel coro, alla scuola di preghiera, agli incontri; ma un po' alla larga da Dio... restii a prendere il largo.

    - Infine, quelle barche vuote evocano una terza ipotesi di vita: quella di Simone e amici; i quali, nonostante la tentazione di prendere le distanze da Gesù, «tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono» (v. 11). Quelle barche vuote, dunque, sono barche abbandonate. Simone ha scelto di fare il pescatore di uomini.
    Forse la gente resta perplessa, o ammira giovani così; capaci di rischiare, disposti a «lasciare il certo per l'incerto». Talora si accontenta di non capire. Ma questa è un'ipotesi in cui il giovane prende in mano la propria vita, il proprio futuro.
    Non si accontenta di bazzicare all'ombra del sagrato: dà una virata alla propria barca, perché la vita si gioca una volta sola.
    Non si può perdere la partita. Non si può essere paghi di fare dei servizi, e neppure soddisfatti di figurare, nell'opinione della gente, come un «bravo ragazzo». Il giovane decide di prendere sul serio l'invito di Gesù: «Prendi il largo...»; con un preciso programma di vita spirituale, con un desiderio schietto di entrare nel progetto di Dio.
    Ha capito ed è convinto che un'esistenza riuscita si incrocia con un disegno misterioso ma reale, con una vocazione esigente ma appagante, con una missione contromoda ma stupenda. C'è solo un atto di fede da fare: la vita è un'avventura irripetibile; è un dono unico; è un capolavoro. Ma ad una condizione: che venga costruita su quella roccia, «sulla tua parola»... (Le 5,5).

    PRENDERE IL LARGO

    Gesù sulla barca di Simone (Le 5,3): uno spazio che fa vivere, la preghiera

    Un serio cammino spirituale comincia di qui dal fare spazio a Dio sulla barca della propria vita. Quando Gesù chiede di salire sulla barca di Simone, non trova ostacolo. Anzi sembra che il Rabbì non chieda neppure. «Salì in una barca che era di Simone» (Lc 5,3).
    Pure nella vita di ogni persona, di ogni giovane, Dio vuole entrare: bussa con discrezione, ma anche con autorevolezza. Certo il linguaggio di Dio è imprevedibile: talora fa sentire una sorta di inquietudine, di pace insoddisfatta con le cose che si fanno; talora mette nel cuore un desiderio forte, una passione ideale. O semplicemente un'ispirazione, un'intuizione, che potrebbe sbocciare fino a diventare una scelta, un progetto importante.
    Ma che significa accogliere Dio nella propria vita? Credo che sia assolutamente urgente prestare una concreta attenzione a quell'esperienza, così facile e così difficile, che si chiama «preghiera».
    Al riguardo propongo di fissare tre obiettivi.

    - Anzitutto «pregare» personalmente ogni giorno.
    Ciò richiede di far posto a Dio, come si addice ad una persona importante; dare quello spazio vitale che si chiama «fedeltà quotidiana». Sia chiaro: l'aggettivo è puntuale. Dio è una presenza viva ed amica se occupa un tempo concreto nell'orario frastagliato di ogni giorno. La preghiera deve diventa- re un incontro previsto, desiderato; così da risultare vitalizzante e unificante ai tutte le cose e di tutti gli incontri che intessono la vicenda dell'esistenza feriale. La vita spirituale prende l'abbrivio di qui: da una fedeltà puntigliosa all'incontro con il Signore.
    Solo così puoi diventare un giovane di preghiera. La costanza è la cartina di tornasole che la preghiera è vera; l'occasionalità invece vanifica il senso più decisivo del pregare cristiano. Non è sufficiente infatti andare alla scuola di preghiera, fare un ritiro, per essere amici di Dio. C'è un salto da fare: il Signore, da persona lontana, ha bisogno di salire sulla tua barca; ha bisogno di entrare nella tua storia. E quando la preghiera è fedele ed autentica cambia la vita. Non permane a lungo una diversità tra preghiera e vita. «Dimmi come preghi e ti dirò come sei». Presto o tardi il presente e il futuro si lasciano interrogare da Dio.

    - Far pregare. È un compito che si addice soprattutto a un educatore, responsabile di un gruppo, di una comunità.
    Che significa infatti educare alla fede se non educare all'incontro con il Signore? Non si è educatori soltanto per far giocare, per aggregare, per aiutare la fantasia dei ragazzi nell'animazione del tempo libero. Far pregare significa trasmettere l'esperienza più difficile, ma più decisiva della vita, perché, a pensarci bene, i ragazzi, il gruppo, la comunità hanno bisogno soprattutto di Dio. La preghiera provoca l'incontro, il dialogo con Lui. E le intenzioni proponibili nel dialogo con Dio sono molte; alcune sono familiari: come la pace, la testimonianza cristiana, i sofferenti. Tutto bene. Ma perché non invitare il gruppo o la comunità a pregare perché il Signore chiami qualche giovane della parrocchia a seguirlo più da vicino? Perché non pregare affinché i giovani guariscano da una certa sordità e ascoltino il Signore che non raramente parla loro? Perché non partecipare assiduamente all'incontro parrocchiale mensile per le vocazioni? Dove non si prega, il terreno resta arido; nessun seme ha vita lunga.

    - Insegnare a pregare. Un educatore, laico o prete che sia, non può ignorare quest'arte: del dialogo con Dio.
    Si tratta di motivare la preghiera; la quale non può restare in balìa di un sentimento passeggero o di un incoraggiamento occasionale.
    Soprattutto un ragazzo o un giovane ha bisogno di maturare delle «convinzioni» forti, che stiano in piedi anche sui tornanti insidiosi della vita. Insomma occorre dire e forse ripetere le motivazioni del pregare cristiano: perché bisogna pregare, e come pregare.
    Ogni formatore ha idee precise al riguardo e le sa trasmettere con sapienza convincente al momento opportuno. Senza mai dimenticare la pedagogia di Gesù, il quale suscita la domanda «Signore, insegnaci a pregare» pregando. Sì, la testimonianza è la scuola di preghiera più efficace. E così, quando un giovane prega. rema nella direzione giusta.

    «Sulla tua parola...» (v. 5): 'Signore, chi vuoi che io sia?»

    Molti giovani sono curvi sulla prozia barca, sul proprio mondo, senza mai ivardare in alto. Forse un po' come Si- none, intento alle proprie reti. Nel cuoe c'è un solo miraggio, un'idea fissa: ver successo, star bene, spremere l'aancia del piacere. Si vive all'insegna el presente. Sul futuro c'è buio. Ma è uesta la vita?
    Se ogni giovane ha il coraggio di interrogare se stesso, soprattutto in qualche seria e paziente pausa di silenzio, non manca di avvertire dentro un bisogno struggente di felicità, di vita riuscita. Diciamo il nome giusto: una sete di acqua vita; un desiderio di infinito. Ora una «vita ok» non dipende da una fortuna improvvisa, da una carriera brillante, da un'intelligenza vivace, da una famiglia agiata. Una «vita riuscita» è il risultato di un «progetto», proposto a tutti insieme al dono dell'esistenza. Un progetto personalissimo, ma realizzabile in collaborazione, in cui si intrecciano sapientemente tre componenti. Dimenticandone una, si può certo vivere, star bene, magari anche aver successo e soldi; ma la vita riuscita è un'altra cosa. Ecco allora le arcate principali per costruire, sulla roccia, una vita veramente realizzata in pienezza.
    - Anzitutto le qualità umane, che sono i famosi talenti da trafficare; sono doni di Dio. Ciascuno ha un bagaglio di intelligenza, di affettività, di attitudini, che vanno assolutamente impiegate nella costruzione di un concreto progetto di futuro. Talora non è facile fare una scelta professionale secondo la propria sensibilità. Quanti vicoli ciechi nella ricerca di un lavoro, di un'occupazione. Ne so qualcosa. Non pochi giovani, per la verità, sono curvi ostinatamente su miraggi meramente economici. La vita viene ridotta ad una sistemazione sociale. Occupare un posto. Garantire un'autonomia economica dalla famiglia. Il resto sarebbe fumo. Simone, ad esempio, aveva buone attitudini per fare il pescatore. Anch'io avevo attitudine per fare altro ...
    Ma Simone, appunto, ebbe il coraggio di alzare il capo ed incrociare lo sguardo di qualcuno: «Sulla tua parola calerò le reti» (v. 5).
    - Ecco dunque la seconda componente necessaria ad un vero progetto di vita: la chiamata di Dio.
    L'avventura dell'esistenza umana non è un gioco solitario, una fortuna casuale; ma un incontro: tra il Signore che invita a gettare le reti e la risposta dell'uomo: «Sulla tua parola». Molti adolescenti e giovani si bloccano sulla domanda sbocciata confusamente nella preadolescenza: «Che cosa farò da grande?». Come se la parabola della vita fosse qualcosa da fare, o fosse un monologo, in cui nessuno debba entrare. Ed invece la domanda più vera è «dialogica»: «Signore, che cosa vuoi che io sia?». L'interrogativo può trovare risposta solo se posto in modo esplicito e chiaro; soprattutto in un contesto di silenzio, di fiducia interiore, di disponibilità a cedere il bandolo della propria vita a Dio.
    - Ed infine la terza componente del progetto è costituita dalle attese della comunità di fede e del mondo. Dio parla delle frontiere degli uomini, là dove ci sono drammi, bisogni, problemi, che sollecitano maniche rimboccate. La vicenda di tanti santi è eloquente. Moltissimi di loro avevano intelligenza e attitudini per una brillantissima carriera nel mondo, per una sicura affermazione personale: no; Dio ha chiamato uomini e donne a prendere il largo su altre rotte. Insomma Dio non chiama soltanto dal segreto della coscienza, ma dalle molte brecce della storia.
    Ad esempio oggi si tocca con mano la penuria di risposte vocazionali nella nostra chiesa. Perché anche tu, giovane, non ti poni il problema: «Che cosa posso fare io di fronte a questa crisi? Non c'entro forse anch'io? Ho preso seriamente in considerazione l'interrogativo più coinvolgere della vita: Signore, che cosa vuoi che io sia?».

    «Prendi il largo...» (v. 4): un programma essenziale di vita spirituale

    Sei studente? E allora tu sai che la scuola o l'università hanno un loro rit mo, con precisi impegni e verifiche. È difficile brillare negli studi se non si ha una vita ordinata e, in un certo senso, cadenzata sui tempi della scuola.
    Sei lavoratore? È ovvio che anche il lavoro esige una fedeltà ad orari e consegne. Insomma, il segreto di una vita significativa è il rispetto di obiettivi, di tempi, di un minimo di programmazione, con appuntamenti talora esigenti. Così pure succede nel mondo dello sport e di qualsiasi professione.
    Non altrettanta cura si dà invece alla vita spirituale, alla vita interiore; che è quella che fa vivere. «L'uomo non vive di solo pane» (Lc 4,4). Qui si naviga a riva.
    L'occasionalità è la morte della vita spirituale. La fede rischia di rimanere a digiuno per mesi, per anni; soprattutto finisce per arrestarsi all'età della cresima. Quando poi a quindici, a diciotto o a vent'anni, insorgono problemi seri, quella fede rimasta preadolescenziale non sa dare risposte convincenti. Ed allora si entra in crisi, si cede sotto il vento del dubbio, dell'indifferenza; si diventa facile vittima del «qualunquismo» o dello «scetticismo». L'età verde diventa grigia, senza senso.
    «Prendere il largo» significa dunque prendere in mano, con grinta, i remi della propria vita, per farla navigare a mare aperto. Dove non mancano scogli; ma dove è possibile fare una buona pesca. Fuori d'immagine: nell'età della giovinezza occorre avere il coraggio di guardare avanti, al futuro. E questo non significa dare la stura alla fantasia per chissà quali avventure; bensì vuol dire «impostare» in modo intelligente la propria vita spirituale, su quattro punti cardinali.
    Anzitutto la fedeltà «ostinata» alla preghiera quotidiana; soprattutto nei momenti «no», in cui viene la voglia di mandare tutto all'aria.
    La preghiera vive e cresce in precisi ambiti di silenzio, con l'aiuto della parola di Dio, sino a diventare uso familiare dei salmi. Se la preghiera vive, fa vivere.
    Poi l'Eucaristia. Non solo quella domenicale, ma almeno una volta lungo la settimana: come incontro profondo con il Signore, come verifica del cammino settimanale.
    Poi un preciso «servizio» nella comunità cristiana, o nella chiesa particolare, la diocesi. Può essere un impegno di «catechesi» nel gruppo, di animazione all'oratorio, nel coro, nel volontariato caritativo. Il «servizio» è un formidabile apprendistato che prepara le scelte future, nella direzione del dono di sé, che è l'unica veramente realizzante, pienamente appagante e autenticamente cristiana.
    Ed infine la scelta di una sapiente «guida spirituale». Può essere un prete o una suora di profonda vita interiore, capace di ascolto e di preghiera. Se si vuole scalare una vetta alpina ci vuole una guida; bisogna mettersi in cordata. Il confronto nel dialogo, possibilmente mensile, unito al sacramento della riconciliazione è, a detta di molti che ci hanno provato, il segreto per raggiungere ottimi livelli nella vita secondo lo Spirito. O, per restare a Luca 5, è il segreto per «prendere il largo»; per dare alla giovinezza un grande respiro e trasformarla in un'avventura veramente entusiasmante e contagiosa.

    «Non temere...» (v. 10): crescere nella crisi

    Povero Simone! Di fronte al Signore, che è balzato sulla sua barca e gli ha parlato in modo autorevole, prova un senso di smarrimento, di timore: «Che cosa vuole questo Rabbi?»; «Signore, allontanati da me che sono peccatore» (Lc 5,8). Crisi.
    In nessuna esperienza umana e spirituale può tardare l'appuntamento con la crisi. Soprattutto sulla curva dell'adolescenza e della giovinezza. Presto o tardi viene un momento in cui tutto sembra crollare: non si capisce più niente. Non si capiscono i genitori, il «don», gli amici. Soprattutto si fa buio sull'orizzonte di Dio. Addio preghiera; addio oratorio. Non si capisce più se stessi. Si è in piena Babele.
    Le cause della «crisi», nella vita spirituale, sono le più diverse: un fallimento a scuola, uno scacco educativo, una delusione affettiva, un disagio serpeggiante nel gruppo... e così via.
    Quando incontro giovani entrati in questo tunnel, e chiedo «come va?», la risposta è scontata: «Insomma...». Moltissime volte i giovani dell'«insomma» sono i giovani della crisi. Si sta segnando il passo. O, meglio, si mollano i remi e la barca va alla deriva.
    In effetti la «crisi» è ambigua.
    Quando arriva, o la si affronta con intelligenza e allora si cresce, si diventa persone più convinte, più profonde, più stabili e mature; oppure si torna indietro, ci si involve, si scende a stadi di preadolescenza e si resta paurosamente immaturi. Quante persone immature a venti, a trenta o a quarant'anni; rimaste psicologicamente all'età di quindici, sedici anni o poco più: instabili, volubili, narcisiste.
    Ma che significa attraversare il tunnel della crisi con sapienza spirituale per trasformarla in un'esperienza maturativa?
    Anzitutto occorre non prendere «decisioni rinunziatarie». Quando ciò accade si sbaglia e si perde. Per quanto possibile bisogna continuare a fare le cose di sempre; anche se cadono le motivazioni. Bisogna camminare pur con fatica al buio, perché si è camminato nella luce.
    È il momento di non mollare e di non perdere di vista i quattro punti cardinali. Soprattutto è urgente intensificare il «dialogo» con Dio e con la guida spirituale.
    Nel buio della crisi bisogna guardare con sei occhi e non con due: con gli occhi di Dio, della guida e con i tuoi. Se fai da solo/a, addio sentieri in salita. Il dirupo, e Dio non voglia, l'abisso è fatale.

    «Pescatore di uomini...» (v. 10): vocazione particolare per la chiesa e per il mondo

    Chissà lo stupore di Simone! Prima, la gioia d'aver ospitato Gesù sulla barca; poi la sorpresa di una pesca fuori misura; poi il timore dei propri limiti, ed infine lo stupore. «Perché proprio me pescatore di uomini?».
    Forse è la stessa domanda che si affaccia alla mente di non pochi giovani, quando si pongono il problema del futuro. «Mi sposo? Mi faccio prete? Ma no, non sono uno stinco di santo». Più o meno la reazione di Simone: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore» (Lc 5,8).
    Ci sono dei progetti che sembrano ambiziosi, prerogativa di pochi; come appunto il diventare «pescatori di uomini». Due prospettive sembrano distanziarsi in modo abissale: o restare un anonimo pescatore di Galilea o accettare di diventare pescatore di uomini, sulle rive del mondo. Simone ci sta, e diventa Pietro.
    C'è una vocazione particolare nella chiesa, oggi particolarmente attesa: il «ministero del prete». Una presenza così familiare e così amata. Perché non potrebbe diventare anche il mio progetto di vita?
    Ci sono due suggestive immagini usate da Gesù, evocative della missione del prete: una, presa dall'ambiente lacustre, appunto «pescatore di uomini»; l'altra, suggerita dall'ambiente agreste della Galilea: quella del «buon pastore», il quale conduce il suo gregge ai pascoli verdi. C'è qualcosa che accomuna le due immagini di Gesù e di ogni persona chiamata a seguirlo più da vicino: il prete quale «ripresentazione sacramentale di Cristo buon pastore», è l'uomo della comunità, della gente, di tutti. Là dove c'è un prete c'è Gesù che chiama, parla, celebra, prega, condivide, guida. Nessun uomo è così dentro il mistero di Gesù e così dentro la coscienza delle persone come il prete. E tutto questo per dono; perché è amato da Gesù.
    Certo un giovane, forse l'ho fatto anch'io, può pensare il proprio futuro in altre direzioni: in una professione, in un'attività, nell'insegnamento, nella vita familiare. Ognuno ha la possibilità di mettere in atto una vera vocazione, una missione. Ogni spazio del mondo è affidato alle mani operose dell'uomo e della donna.
    Al prete Dio chiede di lavorare in modo particolare dentro la vita della gente, di costruire a tempo pieno la comunità, di insegnare agli uomini a guardare in alto, oltre le cose penultime. A nessuno è affidato il destino delle persone come al cuore del prete. Le speranze, i problemi, le croci, i dubbi, la storia di moltissima gente, di una comunità, si scrivono nel cuore di un uomo, chiamato un giorno dal Signore a lasciare la sua barca per diventare l'uomo di tutti: come Gesù, con il grembiule del servo.
    Così è un po' ogni vocazione di speciale consacrazione, femminile o masche: è un mettere se stessi a disposizione del Regno a tempo pieno. Per essere «segni» particolari dell'amore del Signore nel cuore del mondo.
    Allora il parroco che celebra e la suora che si incontra sulla strada, non sono soltanto «amici», o persone ammirevoli perché sempre disposte a dire di sì a tutti; ma sono una presenza che interroga: «Perché scartare quell'ipotesi di vita per me?».

    «Lasciarono tutto e lo seguirono ...» (v. 11): il coraggio di decidersi

    È alquanto facile dire di «sì» ad un servizio, ad un'iniziativa. Quando, ad esempio, il tuo prete o il tuo animatore ti propone un camposcuola, un pomeriggio alla casa di riposo o un'esperienza di esercizi spirituali, perché non provare? Più difficile invece è «prendere delle decisioni» che toccano la vita. Talora si gioca tutta la giovinezza a fare delle esperienze, senza mai una decisione che cambi qualcosa del proprio futuro. Si rischia di restare perennemente adolescenti.
    Una vita riuscita secondo Dio è fatta di scelte precise, in cui si lascia qualcosa e si prende qualcos'altro. Sempre.
    Simone lascia tutto: appunto la barca, e segue una Persona: Gesù. Oggi tutto il mondo, di fronte a questo gesto di Simone, direbbe che ha lasciato il certo per l'incerto. Meglio andare sul sicuro; appunto far le cose che fanno tutti; stare nel mazzo si sbaglia meno. Al contrario, Simone ha scelto sul sicuro. Che cosa infatti c'è di più sicuro o di più definitivo di Dio, del lavorare per il suo Regno? Che cosa c'è di più grande del giocare la vita per Lui, piuttosto che sui miraggi effimeri del mondo?
    Ma c'è un problema nodale; una domanda che mi viene proposta frequentemente: «Come si fa a capire che si è chiamati ad una vocazione di consacrazione speciale? Quando una decisione, in questa direzione, è prudentemente sicura?».
    Per dire un «sì» tranquillo al Signore che chiama, bisogna far crescere, dare consistenza nella propria vita, ai cosiddetti «segni oggettivi» di una possibile chiamata.
    Soprattutto questi: la fedeltà alla preghiera quotidiana, l'attitudine all'amicizia con il Signore attraverso una vita in grazia di Dio, una capacità di relazione affettiva serena, una disponibilità collaudata al servizio in casa, in parrocchia o altrove.
    Quando questi quattro segni si fanno robusti e palesi, c'è la stoffa per lasciare le reti e accettare di diventare pescatori di uomini.
    E il coraggio di seguire il Signore non manca, quando un'asidua direzione spirituale ha educato a scegliere in positivo, a buttarsi, a rischiare ogni giorno decisioni costruttive, senza recedere di fronte alla ruvidezza del sacrificio. Educare, pertanto, significa aiutare a scegliere, a decidersi e a progettare il futuro contro corrente, senza svenderlo sul mercato delle mode correnti.

    NON TEMERE

    Carissimo giovane,

    «non temere...» di scegliere.
    Io non so quale simpatia tu avverta dentro di te per le parole che qua e là ricorrono in questa nota pastorale: progettare, scegliere, decidere. Forse danno l'impressione d'esser troppo impegnative, esigenti... forse sembrano addirittura coartare la tua libertà. E, si sa, la libertà è il dono che sta al vertice dei valori umani. Tutta la parabola della nostra esistenza viene giocata tra un Dio che dona e la nostra risposta «libera». Allora, se ci pensi bene, non è possibile ignorare o rimandare quelle parole. Se tu dovessi dire: «Beh! domani ci penserò. Oggi non mi interessa», hai già fatto una «scelta». Hai scelto di affidare agli altri o ad altro la tua vita, il tuo futuro. Hai scelto di lasciarti vivere, consegnando alla deriva la tua barca a remi sciolti.
    Senza che tu ti accorga, la vita ne resterebbe gravemente condizionata e plagiata secondo i modelli urlati sul mercato delle opinioni egemoni, apparentemente gratificanti, ma alfine deludenti.
    C'è un'altra scelta, assolutamente necessaria per una vita riuscita. il vero obiettivo della vita, tu lo sai, è la realizzazione di sé, è la... felicità. Ma ciò è possibile solo se la tua sete si apre all'acqua viva di Dio; se «decidi» di prenderti in mano, per affidarti a Qualcuno; se metti M conto di uscire dalle secche del solito porticciolo per prendere il largo...
    A quando questa decisione?
    A quando un cammino serio, costante, con l'aiuto di una guida spirituale? In due si rema più agevolmente; si prende il largo più speditamente.
    A quando l'impegno di interpellare Dio sul tuo futuro: «Signore, che cosa vuoi che io faccia? che cosa vuoi che io sia?». Una vita costruita in cordata con Dio è totalmente diversa da una vita plagiata dagli idoli muti del mondo.
    Auguri. Sono con te nella preghiera.

    Carissimo animatore,

    «non temere ...» di parlarne.
    Di parlare del progetto di Dio, di vocazione, negli incontri con i tuoi ragazzi, i tuoi giovanissimi. Tu lo sai: la fede non è un complesso di valori di cui bene o male tutti sentono una qualche nostalgia. Se ne parla persino dai pulpiti dei non cristiani. Si sa che la storia viene giocata fra il bene e il male; è una sorta di partita a scacchi tra valori e disvalori. Ma la fede è assai di più, infinitamente di più: è un'esperienza; è un'incontro preciso, concreto con Gesù di Nazaret, l'unico salvatore dell'uomo. Un po' come il famoso incontro fra Gesù e la donna di Samaria. Ricordi le parole interroganti e provocatrici: «Se tu conoscessi il dono di Dio!» (Gv 4,10).
    L'incontro con Gesù fa prendere delle decisioni, induce a fare delle scelte: ecco la risposta alla vocazione cristiana. Anzi, facendo conoscenza di Gesù ogni uomo capisce se stesso, e riconosce la propria vocazione nel mondo, il proprio destino. Cristo è l'unico progetto di ogni persona umana. E tu, in verità, accettando generosamente di fare l'animatore di un gruppo, hai accettato una sfida formidabile, unica: sei educatore di altre vite. Ecco una parola da brivido. «Educare» significa generare, far crescere, donare qualcosa di se stesso. Niente di più entusiasmante nell'esperienza giovanile. L' animatore non è solo colui che ha l'arte di aggregare, di far giocare, per sconfiggere la noia di un tempo libero vuoto. Ma è colui che entra con discrezione nella vita degli altri e li aiuta a crescere nella direzione di Dio.
    Allora permettimi «tre raccomandazioni», forse scontate, ma estremamente urgenti.
    Animare significa dare «testimonianza»; cioè l'esempio di un cristiano cresciuto, gioioso, convinto. Ogni ragazzo, guardandoti, deve poter dire: «È bello essere cristiani».
    Animare significa saper comunicare questo fondamentale messaggio: la vita è un progetto preciso, una chiamata personalissima, una risposta responsabile.
    Allora, carissimo animatore, tu che sei un po' il futuro della nostra pastorale giovanile, «non temere di parlare di «vocazioni». È l'affare degli affari. Senza dimenticare di affidare alla tua preghiera quotidiana il futuro dei tuoi ragazzi; così come la tua irripetibile giovinezza e il tuo prezioso servizio sono presenti nella preghiera del vescovo.

    Carissimi genitori,

    «non temete ...» di accogliere il disegno di Dio sulla vita di vostro figlio o di vostra figlia.
    Attenzione alle facili contraddizioni in cui si cade: da una parte si sogna per i figli un futuro felice, sereno; dall'altra si imposta la vita soltanto dai tetti in giù: scuola, lavoro, hobby, sport e così via. Come se i figli fossero solo intelligenza, corpo, salute, braccia o gambe. Quando mai può sentirsi realizzata una persona, ignorando il cuore, e soprattutto dimenticando di guardare in alto, quell'Amore che è la sorgente e il destino di ogni esistenza umana?
    Oppure un'altra contraddizione. Quando si parla di «vocazioni», di «preti», i genitori, gli adulti in genere, dimostrano stima, apprezzamento. Persino reclamano con forza la presenza di un parroco nella comunità. Quindi sono d'accordo sulle vocazioni, e si prega pure perché non manchino i preti o le suore; purché il Signore non bussi alla porta della propria casa, ma «chiami» nella famiglia del vicino.
    Se invece il Signore mettesse lo sguardo su vostro figlio o vostra figlia, per una consacrazione totale, quale sarebbe la vostra reazione? di gioia, di accoglienza, di riconoscenza, oppure di ribellione e di rifiuto?
    Si sa, in genere il Signore sconvolge i sogni dei genitori. Ma «l'accoglienza» è davvero il segreto di tanta grazia per la stessa famiglia.
    Tuttavia, «accogliere» il progetto di Dio non significa soltanto rispettare la libertà dei figli di fronte alla loro chiamata. Per molti questo è ovvio. «Accogliere» significa soprattutto due attenzioni pedagogiche: la prima consiste nel creare in casa un clima favorevole ai valori spirituali e morali. E ciò accade quando Dio è familiare nelle nostre case; non è il grande assente; non l'illustre emarginato causa di preoccupazioni soffocanti e per l'assillo incalzante degli affari. I figli devono poter respirare in un clima veramente umano, profondamente lievitato dai valori superiori di una fede viva, trasparente, semplice, e concreta. Resa tangibile nei gesti e nei comportamenti del vissuto quotidiano.
    E poi «accogliere» significa «pregare» perché i figli sappiano costruire il loro futuro secondo Dio. E non secondo miopi progetti umani. È fuori dubbio che il futuro dei figli sta scritto anche nel cuore dei genitori. Verità, questa, che diventerà palese solo nella luce di Dio.

    Carissimo sacerdote,

    «non temere...» di proporre la tua missione di prete come ipotesi seria per qualcuno dei tuoi giovani. Anch'io sono rimasto sorpreso dalle parole del «Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri»: «È esigenza insopprimibile della carità pastorale che ogni presbitero, assecondando la grazia dello Spirito Santo, si preoccupi di suscitare almeno una vocazione sacerdotale che ne possa continuare il ministero» (n. 32).
    Mi sembra di avvertire una diffusa sofferenza nel nostro presbiterio, che rivela senza dubbio amore per il proprio ministero e zelo per la chiesa. Si tratta di quel rammarico interiore per il persistente durare della crisi di risposte vocazionali.
    È un po' la sensazione di Simone: si lavora tutta la notte e le reti ritornano vuote. Sono convinto che anche questa componente della nostra vita faccia parte di quella «speranza» attiva mai vivibile a basso prezzo.
    È urgente però andare «oltre» un'attesa adombrata da una sorta di disagio, con la sapienza dell'apostolo, che non aspetta, ma prepara il futuro. La pastorale delle vocazioni ha bisogno di «coltivatori diretti» nei campi arati delle nostre comunità cristiane. Ed allora in questa stagione un po' avara di pioggia ma foriera di nuove germinazioni, occorre un'azione oculata, paziente e concreta
    - Anzitutto dobbiamo pregare e far pregare di più: mi pare che la preghiera del giovedì sera s'allarghi a macchia d'olio. È una sorta di «monastero invisibile» fatto di sacerdoti e, in taluni casi, anche di laici, in cui si prega nel silenzio della propria chiesa o della propria casa per le vocazioni.
    - Questa comunione orante sta alla base di quella testimonianza «gioiosa» nel servire il Signore, che è il presupposto di ogni pastorale vocazionale. La gente, in genere, vuol bene al prete; ne riconosce la bontà della missione; lo stima. Ma il passaggio dall'ammirazione all'imitazione chiede qualcosa di più. Soprattutto i giovani hanno bisogno di toccare con mano la «gioia» di questa nostra appartenenza al Signore, della nostra co
    munione fraterna e della nostra serena dedizione alla comunità. Se c'è la preghiera e la testimonianza visibile di una stima reciproca e di una grande carità pastorale, diventa credibile ogni proposta vocazionale.
    E allora, se dai uno sguardo nel tuo gruppo, ci sono ragazzi o giovani di evidente trasparenza interiore e disponibilità al servizio. Perché non suggerire un cammino più accurato di ricerca vocazionale, quale viene proposto dagli animatori del seminario? Perché non spiegare loro l'importanza di una direzione spirituale e non invitarli a pregare con te? Perché non preparare più accuratamente nella tua parrocchia la giornata del seminario, o la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni? Perché non prevedere un «tempo forte» di animazione vocazionale quale viene proposto dal CDV?
    Non so se sei d'accordo; ma ogni sacerdote deve essere capace di una visione d'insieme del suo ministero: essere attento agli adulti e ai ragazzi, agli anziani e ai giovani, ai malati e ai sani. Il prete è appunto l'uomo di tutti, della comunità.
    Ma ha un desiderio segreto: che è quello di pensare al futuro. Per questo coltiva i germi nelle nuove stagioni. Ha insomma, in cima ai propri pensieri, una particolarissima cura delle vocazioni. Questa salutare «idea fissa» si trasforma in preghiera quotidiana al padrone della messe, in sapiente discernimento e in proposta puntuale e personalizzata. Forse anche tu sei entrato in seminario dietro suggerimento del tuo parroco. Per me, ad esempio, è andata proprio così.
    Affidiamo a Maria, la donna dell'«eccomi», il nostro delicato e prezioso ministero al servizio della Chiesa. Ma, insieme, le affidiamo i nostri ragazzi e giovani, perché lei stessa metta nel loro cuore un desiderio forte di scommettere la vita per il Signore.

    p. Enrico vescovo


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