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    Giovani e cultura della pace: dati di una ricerca


    Paolo Montesperelli

    (NPG 1995-08-17)


    A meno di errori clamorosi, i risultati imprevisti possono essere un buon indizio di attendibilità della vostra ricerca». Questa frase dell'insegnante di metodologia mi è tornata in mente quando la stampante ha cominciato a sfornare le prime tabelle. Malgrado vari controlli, errori clamorosi non sono emersi, sicché mi sono deciso ad esporre i risultati, pur con tutta la cautela necessaria. [1]
    Ma andiamo per gradi. Gli attori di questa esperienza sono gli obiettori di coscienza della Caritas di Assisi ed il sottoscritto.
    I primi si prefiggevano l'obiettivo di alimentare la propria attività di formazione/animazione attraverso un'indagine sugli studenti delle scuole medie superiori e sulla loro «cultura della pace». Lo spirito era quello di «conoscere per agire meglio», sicché, almeno nella fase dell'indagine vera e propria, l'obiettivo è stato esclusivamente conoscitivo. Quanto a me, ero abbastanza restio ad intraprendere l'ennesima ricerca sui giovani, ed in particolare su un terreno sconosciuto, su un tema mai affrontato dalle ricerche che conoscevo. Per di più, svolgendosi nella «capitale mondiale della pace», avrei incontrato studenti in gran parte avvezzi a questo argomento e forse stanchi di tornarvi ancora. Infatti, com'è noto, Assisi non è solo uno «scenario» oleografico di manifestazioni: credenti e non credenti hanno occasioni uniche al mondo per confrontarsi con iniziative sulla pace di alto livello culturale, spirituale, politico, esperienziale, per non parlare della realtà locale, dell'azione educativa e di quella pastorale certamente capaci di attingere a questo enorme patrimonio.
    Alquanto restio, dunque, ho accettato la proposta della Caritas, coordinando una ricerca che ha raccolto 1.656 interviste di studenti di tutte le scuole superiori della Diocesi. [2] Ed invece abbiamo raccolto alcuni dati così eclatanti e imprevisti, da aver suscitato un certo clamore perfino nelle cronache nazionali.

    LA PACE SCONOSCIUTA

    Il primo aspetto a fare scalpore è che – a quanto pare – certi argomenti non sono affatto di casa. Per sondare quali fossero le conoscenze – almeno lepiù semplici – relative alla pace, abbiamo chiesto agli intervistati se erano in grado di citare uno o più personaggi impegnati in questo campo. Quasi il 40% non è stato in grado di citare nessuno. Nel restante 60% i più indicati sono Gandhi e Madre Teresa di Calcutta; seguono il Papa, Mandela, Martin Luther King, Gorbaciov, ecc. Negli ultimissimi posti troviamo gli umbri Capitini (citato da un solo studente) e... lo stesso S. Francesco (che soltanto otto studenti ricordano, come per il Dalay Lama).
    Sono ancora meno i giovani che conoscono associazioni, gruppi o movimenti impegnati a favore della pace nel mondo (38%): le citazioni più ricorrenti riguardano l'Onu (357 citazioni), la Caritas (120) e l'Unicef (116). Seguono, a notevole distanza, Amnesty International (55) ed il Centro per la Pace fra i Popoli con sede ad Assisi (41). Le altre citazioni si disperdono fra una molteplicità di indicazioni. Non sembra, quindi, che un particolare tipo di organizzazione abbia il sopravvento nelle conoscenze dei giovani: infatti vengono citate le iniziative di ispirazione cristiana e quelle aconfessionali, le aggregazioni più «istituzionalizzate» come le organizzazioni più informali.
    Quasi un terzo di tutti gli intervistati non è stato in grado di citare né un personaggio né un'organizzazione, e questa percentuale costituisce perciò la quota di studenti meno informati. Sul versante opposto, l'indicazione sia di un personaggio sia di un'organizzazione proviene dal 29% degli studenti. In altri termini, circa il 70% rivela una informazione nulla o molto scarsa.
    Più del 62% di tutti gli studenti non conosce la proposta dell'anno di volontariato sociale femminile.
    Il 23% la conosce ed è favorevole, mentre solo il 4,3% è contrario.

    L'interruzione della continuità con la memoria storica

    Tutti questi dati possono essere variamente interpretati. Secondo una prima ipotesi, sono l'ennesima riprova della disinformazione, della vera e propria ignoranza delle nuove generazioni. Certamente assistiamo alla crisi delle figure adulte e della loro capacità di socializzazione. Le prestazioni cognitive degli adolescenti dipendono molto anche dalle opportunità di interazione con gli adulti, dalle condizioni in cui questi ultimi propongono i propri contenuti. «A fronte di una enorme apertura al mondo mediata dalle informazioni e dalle immagini e abitata dai divi dello sport, dello spettacolo e della musica, gli adolescenti sperimentano una relativa scarsità di contatti con persone adulte reali» (Me-lucci e Fabbrini 1992, 139). Ciò determinerebbe una frattura con il passato: «si potrebbe dire che è con questa generazione, figlia in senso letterale di quella del '68, che si interrompe completamente la continuità nella memoria storica, quasi che i figli, diventati a loro volta padri e madri, non abbiano più saputo o voluto esercitare quella funzione di orientamento che avevano invece svolto con successo con i propri fratelli minori» (Sciolla 1990, 65). «Madri e padri cercano strade da percorrere, spesso condividendo lo smarrimento e l'incertezza dei figli e rinunciando al potere di essere guide. La memoria e la testimonianza di cui gli adulti sono portatori vacilla e si rivela il più delle volte inadatta a comprendere e a indicare la via» (Melucci e Fabbrini 1992, 9).
    Tutto ciò interpella gli adulti non solo come genitori ma anche come insegnanti. Infatti la scuola comunque riveste una centralità assoluta nell'esperienza giovanile, soprattutto per quanto riguarda la socializzazione e la elaborazione di scopi e valori. Secondo la terza indagine lard ci troviamo di fronte ad una vera e propria «improduttività culturale» della scuola, soprattutto di quella media-superiore (Cavalli e De Lillo 1993, 30-2; cf Morcellini 1992, 108 ss.). Probabilmente alla radice vi è, nell'insegnante, l'incapacità di istituire modalità comunicative e clima emotivo adeguati per fare dello studente effettivamente il protagonista del processo di apprendimento. Si tratta, insomma, di un'incompetenza relazionale prima ancora che disciplinare. Gli stessi ricercatori descrivono una realtà di disagio comune: rispetto ad un passato anche recente, cresce la frustrazione degli insegnanti, mentre negli studenti si riduce la soddisfazione per i rapporti sia con i docenti sia con i propri compagni. L'istruzione acquisita resta molto generica e, fatto ancora più preoccupante, diminuisce la quota di giovani che assegnano alla cultura e allo studio un posto rilevante nella propria scala di valori (Cavalli e De Lillo 1993, 35, 230).
    Un'altra importante agenzia di socializzazione è l'associazionismo. Parteciparvi significa aprirsi ad orizzonti più ampi di quelli familiari e locali, formarsi ad un maggiore spirito comunitario, rafforzare la capacità di dare ordine alle sollecitazioni esterne (v. p. es. Sciolla e Ricolfi 1989, 11 ss., 23).
    Ciò vale soprattutto quando il giovane partecipa contemporaneamente a più aggregazioni (pluri-appartenenza) e passa continuamente dall'una all'altra (pendolarismo), arricchendo così il proprio patrimonio di esperienze. In base ad alcuni nostri dati, potremmo formulare l'ipotesi che pochi giovani intervistati possano vantare significative esperienze associative. Ciò non rappresenterebbe una peculiarità di Assisi. Altre ricerche svolte in Umbria rilevano la presenza non molto diffusa di aggregazioni giovanili e, soprattutto, la scarsità del «pendolarismo» (Cristofori 1990, 188 ss.).
    La pluri-valenza e il pendolarismo sono concetti che la letteratura non attribuisce solo alle culture giovanili ma alla società in generale. In un sistema sociale complesso e differenziato si moltiplicano i sotto-sistemi e, conseguentemente, cresce la possibilità di incrementare le appartenenze e i riferimenti del singolo individuo. A loro volta questi ultimi sono più autonomi, venendo meno gradualmente qualsiasi perno unificatore.
    Secondo alcuni, la perdita di ogni centro determina l'affermarsi di un relativismo non solo etico ma anche cognitivo. La mobilità dei punti di riferimento indurrebbe, soprattutto i giovani, alla percezione di una realtà instabile, precaria, in-sensata e, conseguentemente, alla svalorizzazione delle istituzioni «del passato», dei contenuti proposti dalla scuola, dalla famiglia e dalle altre tradizionali agenzie di socializzazione (Morcellini 1992, 81). Allora, una certa povertà cognitiva dei giovani intervistati potrebbe rappresentare il frutto di quella svalutazione e relativizzazione.
    Una seconda possibile interpretazione è, per certi versi, opposta alla prima. Ciò che apparentemente sembra disinformazione è invece un eccesso di informazioni: esse sarebbero tanto sovrabbondanti che non vi sarebbe tempo sufficiente per metabolizzarle. Poiché la razionalità dell'uomo è condizionata da «limiti computazionali» (Simon 1976 e 1984), la sovrastimolazione sfocerebbe in una specie di blocco nella capacità selettiva. «Sorge così la tipica situazione problematica dell'uomo moderno: la sensazione di essere circondato da un'infinità di elementi della cultura, che non sono insignificanti, ma fondamentalmente nemmeno significativi; che, nella loro massa, hanno qualcosa di soffocante, perché l'uomo non può assimilare nella propria interiorità ogni singolo contenuto, ma nemmeno limitarsi a rifiutarlo, poiché appartiene alla sfera del suo sviluppo culturale» (Simmel 1976, 106). L'overdose di informazioni, tipico di una società post-industriale, insieme alle carenze di alcune agenzie formative (come la famiglia e la scuola), potrebbero far assomigliare le mappe cognitive del giovane a melting pots di informazioni e di riferimenti, disposti in maniera alquanto disordinata e quindi difficilmente utilizzabili da parte dello stesso giovane.
    Una terza e ultima spiegazione non si basa sulla quantità di informazione ma sulla sua organizzazione: uno sradicamento dei giovani dal proprio contesto spazio-temporale li indurrebbe a costituirsi «mappe cognitive» alquanto diverse da quelle delle altre generazioni. In una società «differenziata» assistiamo anche all'incomunicabilità fra sotto-sistemi, fra settori sociali (famiglia, scuola, chiesa, Stato...), fra stili cognitivi diversi, fra razionalità diverse, fra culture e generazioni diverse. Peraltro, nel singolo soggetto la differenza rispetto agli altri individui o agli altri gruppi diventa un elemento costitutivo della propria identità (Montesperelli 1984).
    L'impermeabilità rispetto alle grandi manifestazioni di Assisi rientrerebbe in questa perdita di radici e confermerebbe quanto abbiamo già empiricamente rilevato in un altro contesto vicino (Alimenti e Montesperelli 1990): infatti nel corso di un'indagine sulla condizione giovanile in un comune toscano, abbiamo potuto riscontrare una scarsa identificazione con il proprio territorio. I giovani allora intervistati tendevano a rapportarsi o con il «micro» delle relazioni faccia a faccia o con il «macro» del mondo esterno alla routine e al grigiore della vita quotidiana, con la società metropolitana, con i suoi messaggi e i suoi modelli. Mancava proprio la dimensione intermedia della città. Questa dimensione, talvolta, veniva cercata nel gruppo di coetanei come sintesi di «micro» e di «macro».
    Questo «sradicamento» potrebbe essere l'effetto anche di un mondo sempre più riproposto e rielaborato dai mass-media i quali, in questa loro crescente opera di mediazione, allontanerebbero il soggetto dal contatto diretto con la realtà. In tal modo l'esperienza concreta verrebbe vanificata in un presente senza limiti, «privo di radici perché povero di memoria e avaro di futuro come ogni prodotto del disincanto. L'esperienza si dissolve in immaginario» (Fabbrini e Melucci 1992, 78).
    Questa frattura cognitiva potrebbe aiutare a capire perché nei giovani intervistati non ritroviamo alcuni riferimenti che per le altre generazioni fanno parte quasi del senso comune; perché non sono così scontati alcuni elementi delle tradizionali culture solidariste (vedi par. 2); perché perfino ad Assisi S. Francesco è sconosciuto.

    SOLIDALI E UN PO' XENOFOBI

    Rispetto a una lunga lista di questioni internazionali, quasi il 75% del campione ritiene molto grave il problema della fame nel mondo. Abbiamo allora chiesto quali erano, a parere degli intervistati, le cause di tale gravità e la loro rilevanza nella determinazione del sottosviluppo. Secondo 1'82,4% giocano un ruolo fondamentale le cause esterne (lo sfruttamento da parte dei paesi ricchi). Seguono, con circa il 71% delle risposte, sia le cause politiche interne ai paesi in via di sviluppo (corruzione dei governi locali, spreco delle risorse inter-ne), sia le cause culturali (scarsità delle capacità imprenditoriali, bassi livelli di istruzione, ecc.). Le cause naturali (siccità, cataclismi, ecc.) sono determinanti per quasi il 60% del campione, mentre quelle genetiche («l'inferiorità della razza», come specifica il questionario) lo sono per il 20,3%. [3]
    In sintesi, i giovani intervistati tendono a sottolineare la responsabilità umana (interna o esterna al Terzo Mondo), più che le ragioni d'ordine «naturale» o razziale. Ciò nonostante, non va dimenticato quel 20,3% per il quale le ragioni genetiche svolgono un ruolo molto importante. Solo il 40% è sicuro che l'inferiorità delle razze non possa essere indicata come una causa del sottosviluppo. [4] Inoltre solo per il 25% degli intervistati il problema del razzismo è un problema grave. In aggiunta ricordiamo che, come abbiamo osservato nelle righe appena precedenti, più di 2/3 degli intervistati tende ad addossare il sottosviluppo agli stessi paesi poveri. Si può quindi ritenere che è alquanto diffusa una tendenza «colpevolizzante» nei confronti dei popoli «extracomunitari»; dentro questa diffusa opinione si trova una quota consistente di giovani che sembrano tendere verso atteggiamenti etnocentrici e xenofobi.
    Data la consapevolezza diffusa circa la gravità del sottosviluppo nel mondo, abbiamo chiesto a ciascun intervistato quale atteggiamento avesse nei suoi confronti. Più del 63% dichiara di volersi sentire attivamente solidale, il 21,3% di provare pietà, 1'8,6% di avvertire fastidio ed il 5,7% di essere indifferente. Al crescere dell'età diminuisce la solidarietà, aumenta la pietà e, in misura minore, cresce pure il senso di fastidio, mentre resta invariata l'indifferenza.
    Il senso comune direbbe che contrapposta alla solidarietà si trova l'indifferenza o il fastidio. I nostri dati contraddicono questa convinzione poiché agli antipodi troviamo, invece, la pietà (e forse il significato da dare a questo termine dovrebbe essere «pietismo»).
    Per cercare di capire quanto sia davvero attiva la solidarietà professata, abbiamo chiesto la disponibilità a rinunciare a parte del proprio benessere, elencando una serie di voci. A fronte di un 63% che, come abbiamo visto, si dichiara solidale, in media solo il 34,5% sarebbe disposto a qualche rinuncia.
    Si potrebbe allora pensare ad una cultura giovanile che è il portato di sedimentazioni diverse: sotto uno strato più recente e più superficiale – composto di opinioni favorevoli alla solidarietà, quasi un senso comune vagamente «progressista» – potrebbe trovarsi un secondo strato più antico, più profondo e più influente, frutto della lunga tradizione particolaristica che accompagna da secoli la storia del nostro Paese. Secondo alcuni, infatti, la storia della cultura politica italiana viene scandita da un «basso continuo», da un sottofondo di sfiducia generalizzata negli altri e di indisponibilità all'impegno sociale, che risalgono molto indietro nel tempo. L'origine sarebbe addirittura una «religione pre-cristiana o sub-cristiana» che avrebbe dato impulso a orientamenti particolaristici di chiusura verso il mondo esterno e di attenzione quasi esclusiva alla propria famiglia e al territorio più vicino («familismo» e «localismo»; vedi: Banfield 1976; Bellah 1974). I processi di modernizzazione non avrebbero messo a tacere questo «basso continuo», al quale si sarebbe solo aggiunto, soprattutto nelle nuove generazioni, un più moderno neo-individualismo intimistico, centrato sul narcisismo, sul privatismo e quindi estraneo all'universalismo dell'azione pubblica (vedi p. es.: Bell 1976; AA.VV. 1980; Lasch 1981; Gallino 1987). La recente crisi delle tradizionali ideologie solidariste (cattolica e marxista) potrebbe far emergere ciò che quelle ideologie avevano rimosso, cioè proprio il particolarismo.
    Qualche riscontro empirico recente sembrerebbe offrire alcune parziali conferme. Secondo la già citata indagine dello lard, nei giovani si afferma una crisi progressista del consenso verso la cultura politica di ispirazione marxista o cattolica, a favore dello schieramento laico e «di destra». Ciò comporta, fra l'altro, l'estendersi di atteggiamenti xenofobi e intolleranti, anche se di natura diversa rispetto a quella dei movimenti politici di destra affermatisi nel resto dell'Europa. Il successo di una cultura politica laica, particolarmente accentuata nel mondo giovanile, sta avvenendo nel quadro di uno spostamento del baricentro del sistema politico verso destra. La sinistra, che ancora all'inizio degli anni '80 poteva contare sulla maggioranza dei giovani, ha perso il loro consenso ad un ritmo di circa un punto all'anno. La Chiesa e l'associazionismo di ispirazione cristiana, a loro volta, stanno smarrendo quell'influenza che invece era determinante nel cuore del passato decennio (Cavalli e de Lillo, 108, 125, 150 ss.).

    ALLA RICERCA DI SICUREZZE

    Altri nostri dati parrebbero confermare queste preoccupazioni. Si pensi, per esempio, alla credibilità goduta dalle istituzioni militari, che sembrerebbe rinviare ad un desiderio di «soluzioni forti». Secondo la grande maggioranza di intervistati, l'esercito italiano deve intervenire quando occorre difendere i confini della patria (quasi 1'80% delle risposte), o in caso di emergenze e calamità naturali (75%). Una percentuale assai alta (68,6%) giustifica l'uso dell'esercito anche nei casi di tutela dell'ordine pubblico. Non sono pochi neppure coloro che accettano l'intervento militare italiano per operazioni di «polizia internazionale». Nel complesso si può affermare che l'esercito italiano riscuota una notevole fiducia. Su sei item proposti, ben 4 raccoltono più del 50% dei consensi.
    Forse ciò riflette un più generale atteggiamento «difensivo», ossia la ricerca di sicurezze rispetto ad una realtà che appare troppo complessa, fluida ed incerta. Non a caso le possibilità di intervento militare più giustificate riguardano proprio la difesa (da attacchi esterni, da calamità impreviste, da disordini). Anche il terzo rapporto fard interpreta il diffuso consenso verso alcune istituzioni come manifestazione di un atteggiamento difensivo e consolatorio (in una lunga lista di opzioni possibili, la polizia ed i carabinieri sono le istituzioni che più di tutte raccolgono molta fiducia fra i giovani). Questo orientamento celerebbe un bisogno di ordine e di sicurezza che cresce con l'aumento dell'età. La fiducia in quelle istituzioni, a sua volta, ha effetti negativi sul livello di partecipazione e di interesse verso la sfera pubblica, verso i problemi politici e sociali (Cavalli e de Lillo 1993, 94-5, 116, 256).
    Quasi il 60% dei 1.656 intervistati è favorevole al servizio militare femminile e la differenza fra maschi e femmine è abbastanza irrilevante. Circa la metà di chi è favorevole fonda questa sua opinione in base al principio di parità fra uomo e donna; ed un altro 10,4% considera il servizio militare un modo per rendere protagoniste le donne. Le motivazioni addotte rendono meno plausibili interpretazioni troppo univoche, pronte a denunciare un ritorno puro e semplice alla «destra». Parrebbe, infatti, che questa generazione degli anni '90 non ripercorra vecchie strade, ma tenti sintesi inedite, ardite, non sempre brillanti, in questo caso fra alcuni principi «femministi» e certe tendenze filo-militariste. [5]
    In caso di conflitto armato, la maggioranza relativa degli intervistati (quasi il 33%) affiderebbe la difesa ad un esercito di volontari, mentre il 22% preferirebbe un esercito di leva. Invece il 18% si affiderebbe alla «difesa popolare nonviolenta». Neppure questa fetta di studenti «nonviolenti» costituisce una «contro-cultura»: è vero che si dimostra costantemente più aperta e più sensibile alle questioni sollevate con il nostro sondaggio; eppure si tratta soltanto di accentuazioni diverse all'interno di medesime tendenze. Infatti in media solo il 30% di loro respinge qualsiasi uso dell'esercito; solo 1'8% vede nel servizio civile una motivazione anti-militarista; non esiste alcuna differenza di opinioni fra loro ed il restante campione a proposito del servizio militare femminile né è significativamente diversa la percentuale di soggetti decisamente contrari a spiegazioni genetiche del sottosviluppo.
    Probabilmente queste opinioni esprimono uno stato generale di incertezza e di disagio. In tal senso andrebbero lette alcune risposte che abbiamo raccolto. Una maggioranza molto estesa di intervistati (72,2%) ritiene che la attuale situazione internazionale sia peggiorata rispetto a cinque anni fa e solo il 10,8% scorge, invece, un tendenziale miglioramento. Ciò potrebbe apparire un po' strano: in fondo durante questo ultimo quinquennio è finita la guerra fredda, si è avviato il disarmo nucleare, il medio-oriente è meno incandescente, ecc. Sono molto pochi anche gli incerti (7,9%), il che ci pare ulteriormente interessante: infatti una realtà internazionale oggettivamente molto più fluida e complessa avrebbe dovuto indurre, invece, a valutazioni più dubbiose. Per tutti (maschi e femmine, giovani e giovanissimi), la possibilità di una guerra mondiale è il pericolo più avvertito. Le percentuali sono sempre molto alte edoscillano intorno all'80% degli invervistati. Ciò può di nuovo stupire, in un periodo nel quale la crisi del bipolarismo e il processo di disarmo nucleare avrebbe dovuto infondere una maggiore fiducia nel futuro.
    Considerando la giovane età degli intervistati, queste domande non rilevano tanto la conoscenza precisa della realtà internazionale, ma forse l'atteggiamento «pessimista» o «ottimista» del-l'intervistato. E probabilmente le difficoltà internazionali vengono viste dal-l'intervistato come conferma di una propria realtà esistenziale difficile. [6]
    L'assenza pressoché assoluta di «cultura della pace», la fiducia nell'esercito, le opinioni xenofobe sul sottosviluppo potrebbero sollevare il dubbio che la personalità delle nuove generazioni tenda verso modelli autoritari. Secondo Adorno (1973) la personalità autoritaria si caratterizza, tra l'altro, per il conservatorismo politico-economico, il conformismo, la rigidità, l'intolleranza per le situazioni ambigue, l'uso di stereotipi, una visione etnocentrica ed una struttura autoritaria della personalità (sottomissione/aggressione). Certamente alcuni nostri dati sembrerebbero confermarlo, ma altri invece non coincidono. Ad esempio, un'altra domanda riguardava il valore dell'obiezione di coscienza nei confronti delle leggi dello Stato e la propensione ad adottarla: l'intransigenza, il principio di inviolabilità assoluta sono orientamenti decisamente minoritari (i maschi e i meno giovani sono i più intransigenti). È assai diffuso (quasi il 56%) un giudizio positivo sul servizio civile che viene considerato soprattutto un modo efficace di impegnarsi per gli altri. [7] La frequente accettazione dell'obiezione di coscienza e un ampio consenso al servizio civile rivelano un atteggiamento poco rigido nei confronti di alcune strutture normative. Ma soprattutto il contesto in cui operava Adorno era profondamente diverso dal nostro: infatti negli anni '50 era diffuso un rapporto gerarchico e oppressivo fra genitori e figli, rapporto che, secondo Adorno, stava alla base della personalità autoritaria. Del resto la nostra ricerca non aveva la pretesa di ripetere gli obiettivi e gli strumenti di Adorno, sicché è difficile ricavarne con certezza conferme o smentite. Nonostante le dichiarazioni a favore dell'obiezione di coscienza e del servizio civile, l'ambiente non sembra sempre favorevole. A detta degli intervistati, gli ambiti in cui il servizio civile viene visto in termini negativi sono, significativamente, la scuola e i gruppi di coetanei: nella scuola si avrebbe il più alto livello di indifferenza, mentre l'ostilità maggiore si troverebbe proprio fra i giovani.

    CHI PIÙ E CHI MENO

    Finora ho illustrato alcune tendenze generali che, però, cambiano a seconda soprattutto di tre variabili. La prima riguarda il sesso. Le ragazze non sono completamente diverse dai maschi: le tendenze, anzi, sono le stesse ma con alcune significative differenze di accentuazione. In estrema sintesi le une sembrano più informate e più pessimiste; i ragazzi invece risultano più edonisti, individualisti, militaristi ed intransigenti delle studentesse. In particolare, i temi più direttamente vicini all'ambito del servizio civile (guerre, razzismo, fame, commercio delle armi) trovano le ragazze più sensibili dei ragazzi. Sembrerebbe, dunque, che la «cultura del servizio civile» sia un po' più presente nelle donne, cioè, paradossalmente, proprio in chi non può prestare quel servizio.
    Una seconda variabile rilevante riguarda il livello e la qualità delle letture. L'uno e l'altra appaiono alquanto carenti, e ove è maggiore questa carenza sono più assenti gli interessi, le motivazioni, i frammenti di una «cultura della pace».
    I settimanali di informazione sono letti solo dal 18,5% del campione, a fronte di quasi il 15% che preferisce le riviste sportive. La poesia, la letteratura e la saggistica sono quasi del tutto assenti (rispettivamente 8,1% e 3%). Percentuali più consistenti riguardano i fumetti (15,5%), le riviste musicali (11,7%) e i giornali femminili (11,6%). Le riviste di ispirazione religiosa sono pressoché sconosciute.
    La scarsità delle letture non evasive ci pare ancora più significativa se consideriamo che ciascun intervistato poteva indicarne fino a tre in ordine di preferenza. Ciò nonostante sono stati pochi i giovani che, come abbiamo visto, hanno comunque indicato le letture un po' più impegnative. Ad esempio, meno del 3% colloca al primo posto la saggistica.
    Solo il 12% ritiene molto importante spendere soldi per libri non scolastici, mentre quasi il 60% lo considera poco o per nulla importante. [8]
    Malgrado questi dati, non ci sembra di incontrare una generazione «gaudente». Infatti, come hanno sottolineato anche altre ricerche (vedi p. es. Morcellini 1992), uno stato di povertà culturale spesso si collega ad una collocazione marginale e ad un senso soggettivo di disagio.
    A sua volta ciò aiuterebbe a spiegare perché gli orientamenti più lontani dalla «cultura di pace» sono espressi soprattutto dai soggetti che frequentano di meno le letture «colte».
    Il tipo di scuola frequentato costituisce la terza variabile che segna un confine fra orientamenti diversi. Ad esempio, quasi sempre gli studenti del Liceo Classico si trovano sul versante opposto quelli degli Istituti Professionali e così via. La cultura «umanistico-scientifica» sembra più vicina ai nostri temi; quella «tecnica» è, invece, la più distante.
    Ad esempio, in quest'ultima sono molto più presenti la tendenze xenofobe, l'incapacità di citare personaggi e organizzazioni per la pace, il pietismo, la diffidenza verso il servizio civile, ecc.
    Dunque, a parte alcuni aspetti generali di crisi, la situazione in certe scuole sembra ancora più grave che in altre. La nostra impressione è che il problema non sia limitato alla «cultura della pace» ma alla cultura tout court.
    Probabilmente non tutto è da imputare al sistema scolastico, ma ad ogni modo ci sembra si possa parlare di una «stratificazione scolastica», quale possibile diversificazione marcata di opportunità socio-culturali: forse, al di là delle singole risposte al nostro questionario, siamo in presenza di un indicatore di maggiore/minore efficacia della scuola nella sua funzione di «acculturazione».
    Tale stratificazione culturale potrebbe coincidere con quella sociale; in fondo, da decenni le inchieste sui giovani denunciano la permanenza di una selezione scolastica legata al ceto sociale di provenienza. Insomma le diseguaglianze passano ancora (e forse più di ieri) attraverso la cultura e la scuola. Un'inchiesta sulla pace, allora, può incontrare anche problemi di giustizia.

    NOTE

    1) L'Editore Franco Angeli sta pubblicando il testo integrale della ricerca con commenti e considerazioni di Pasini, Garelli, Tosolini e degli obiettori della Caritas di Assisi.
    2) La Diocesi comprende, oltre ad Assisi, anche Gualdo Tadino e Nocera Umbra.
    3) La somma delle percentuali è superiore a 100 poiché ogni intervistato doveva valutare l'importanza di ciascuna causa elencata.
    4) Gli obiettori che hanno condotto le interviste, nelle loro note, confermano l'estesa presenza di atteggiamenti qualunquisti e addirittura razzisti.
    5) Come già alcuni anni fa notava Garelli (1984, 18), vi è un'oggettiva difficoltà ad analizzare la condizione giovanile, per la sua contraddittorietà di atteggiamenti, aspetti e dimensioni, tanto da sconcertare gli osservatori. Tale contraddittorietà non si limiterebbe alla compresenza di diverse «condizioni giovanili» ma si anniderebbe all'interno del singolo giovane, rendendo ancora più complesso il quadro.
    6) Questi dati sono, a loro volta, più marcati di quelli raccolti dallo Iard, secondo cui il 48% (1987) ed il 41,4% (1993) dei giovani quando pensano al proprio futuro lo vedono pieno di incognite e di rischi.
    7) Invece non raccoltono molto consenso le ragioni personali, che intendono il servizio civile come un'occasione per accumulare esperienze utili per il proprio futuro (11,7%). Una motivazione esplicitamente anti-militarista è condivisa da una piccola minoranza, forse perché viene considerata troppo «ideologica».
    8) Per contro, più dell'80% ritiene molto o abbastanza importante acquistare vestiti, più del 56% spendere per mangiare con gli amici, più del 50% andare in discoteca.

    SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI

    * AA.VV. (1980) Il trionfo del privato, Laterza, Bari. 
    * Adorno T. et al. (1973) La personalità autoritaria, Comunità, Milano.

    * Alimenti A. e P. Montesperelli (1990) Differenza indifferenza insofferenza. Identità giovanile e mutamento culturale in un Comune della Toscana, in «Quaderni della Biblioteca», 3.
    * Banfield E.C. (1976) Le basi morali di una società arretrata, Il Mulino, Bologna.
    * Bell D. (1976) The Cultural Contradictions of Capitalism, New York.
    * Bellah R. N. (1974) Le cinque religioni dell'Italia moderna, in F. L. Cavazza e S. R. Graubard, Il caso italiano, Garzanti, Milano.
    * Cristofori C. (1990) Stato di moratoria. Le rappresentazioni sociali dei giovani dall'autonomia alla segregazione sociale, Franco Angeli, Milano.
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    * Garelli F. (1984) La generazione della vita quotidiana. I giovani in una società differenziata, Il Mulino, Bologna.
    * Lasch C. (1981) La cultura del narcisismo. L'individuo in fuga dal sociale in un'età di disillusioni collettive, Bompiani, Milano.
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    * Morcellini M. (1992) Passaggio al futuro. La socializzazione nell'età dei mass media, Franco Angeli, Milano.
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    * Simon H. (1984) La ragione nelle vicende umaneIl Mulino, Bologna.


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