Pastorale Giovanile

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    Domenico Sigalini

    (NPG 1995-06-09)

    C'è sempre bisogno di richiamare in premessa ciò da cui siamo partiti nell'ipotizzare questa nuova serie di articoli, cioè che non vogliamo creare pastorali alternative o illudere facilmente che basta fare per crescere o che basta avere indice di gradimento per dire di aver annunciato il Vangelo. Stiamo solo cercando di usare tutta la creatività del mondo giovanile per metterla a disposizione dell'educazione alla fede, con la pretesa di applicare alle cose nuove alcuni piccoli principi che le rendano dignitose, se già non lo sono di per se stesse, o per lo meno significative entro un progetto di pastorale giovanile che vuol servire tutti i giovani del territorio. Nel primo articolo (cf NPG 1/95) avevamo posto l'attenzione sul bar; in questo vogliamo riflettere sul pellegrinaggio, come nuovo spazio di educazione alla fede dei giovani.

    Il ragazzo da camposcuola

    Ho cominciato a farlo di tre giorni che avevo appena sei anni. Alla sera piangevo perché volevo la mamma, ma al mattino mi passava. Ci sono andato coi 12-14 a cavallo della terza media: che divertite, che animatori pazzi, che scherzi demenziali! Finita la terza media ci sono ritornato: un vero cambiamento. Mi sembrava di essere uscito dall'università, mi si parava davanti un prato senza confini: amici, scuola, ragazze, diari, scorribande, motoretta, qualche rossore di troppo con le amichette. Da adolescente è stato il top: andavo al campo scuola anche solo per vivere di notte. Dicono tutti che i giovani vivono di notte, ma noi lo facevamo proprio ai campi scuola ancora prima di andare in discoteca il sabato. La crisi del quarto giorno dopo la gita era una cosa mitica. Tornavi stanco e trafelato, bruciacchiato dal sole, con una voglia incoercibile di fare la doccia, di metterti chili di gel perché avevi nel cuore una scoperta: c'era stato del tenero. Non avevo mai cantato con tanto entusiasmo: «quella tua maglietta fi-naaa...». A casa, nel gruppo in seguito ritentavo di riportarmi a quell'incandescenza, ma durava solo fino a Natale. Poi mi son dovuto fare un paio di campi da animatore: cose serie, amicizie più profonde, scelte fondamentali: ancora le crisi del quarto giorno, ma stavolta è continuata e siamo ancora assieme. Ne ho fatte di scoperte, ne ho affrontati di problemi, ne ho sentite di campane. Mi sono spesso fatto ore di deserto per capirci di più, mi sono addestrato a fare un diario più serio, a scrivere addirittura in paradiso, a discutere a lungo col prete. Confessioni così abbondanti non le ho più fatte in seguito. Mi lasciavano sempre di stucco tanti miei amici e amiche che ci credevano sul serio; ho visto più a fondo nel cuore degli altri e mi sono trovato energie insperabili in me stesso. Ho imparato a essere meno grezzo con i sentimenti, i pensieri, i sogni, le stesse azioni e avventure. Un giorno però mi sono detto: stavolta voglio fare una settimana diversa: sarà che non mi piace più lo schema, sarà che sono ammalato di novità, sarà pure che voglio fare il faraone:
    non mi bastano più i soliti quattro amici: quest'anno voglio sentirmi in una carovana più grande. L'idea mi è venuta con la complicità della giornata mondiale della gioventù a Denver. Volevo l'America, magari anche vedere il Papa. Il mio prete vedendosi un po' abbandonato quell'estate mi diceva: te la do io l'America, poi ha ceduto perché ci eravamo trovati tutti i sostituti necessari per rendere più indolore la mia assenza. L'America l'avevo sempre sognata: avevo una collezione di magliette di squadre di baseball, di università, di attrici, il più pudiche possibile. Era difficile lasciare solo ai sogni tutto. D'altra parte però mi aveva creato interesse la sfida lanciata dal Papa di mettersi in cammino per incontrare Cristo sulle strade del mondo. E ne ho fatta di strada: ho bivaccato negli aeroporti, ho girato come un paesano con la testa all'insù per vedere dove finivano i grattacieli, ho bevuto ettolitri di coca cola. Ma quello che mi ha meravigliato di più è stato che mi sono trovato a parlare di Dio, della mia fede, della testimonianza, delle mie ricerche non mai esaurite, della stessa confessione, della vita cristiana con alcuni miei amici che in parrocchia non avevo mai visto neanche pitturati; non solo, ma al ritorno abbiamo continuato a vederci, abbiamo voluto riprendere i discorsi del papa e rileggerceli con calma. L'onda è durata un bel po' e con i miei quattro amici c'è un patto di solidarietà più profondo, un paletto o due della vita che non riusciamo più a dimenticarci e che nessuno oserà rimuovere. Ho scoperto un nuovo modo di mettermi in testa, ma soprattutto nella vita, una convinzione, una verità, un punto fermo, una indicazione di cammino, un sogno di cambiamento che ho sempre rincorso e che non avrò mai concluso.

    Lo chiamano pellegrinaggio

    Da un po' di tempo, direi in maniera molto diffusa e progettuale a par tire dalla Giornata Mondiale della Gioventù di Santiago, il pellegrinaggio è diventato un modo intelligente di fare pastorale giovanile. Il pellegrinaggio è sempre stato guardato con sospetto da molti perché era ritenuto un fenomeno di casalinghe che vogliono prendersi la rivalsa di tanti week-end sacrificati alla vita familiare o un buon affare per le agenzie che campano sui santuari o un ritorno teologicamente troppo scorretto a devozionalismi devianti. Era preso in miglior considerazione il viaggio a Taizè, come prototipo di un cammino per raggiungere luoghi in cui si poteva fare qualche esperienza forte. Rimaneva forse ancora la preoccupazione che chi faceva queste esperienze poi non si adattava più alle fatiche quotidiane, aveva sempre bisogno di qualche «stranezza» per pregare o per fare il cristiano feriale. La mancanza di concentrazione tipica di un lavoro di gruppo, la metodicità di un incontro settimanale, la continuità di un approfondimento in un pellegrinaggio vengono a mancare; se poi si fa conto dell'esagerato impiego di energie spese nell'organizzazione, della distrazione consumistica che comporta il viaggiare, dello spazio eccessivo lasciato all'occasionalità e ai sentimenti, del non poter prevedere tutti quegli spazi consueti di proposta, riflessione, ascolto, discussione tipiche di una vita di gruppo, il confronto con il cammino classico di una vita di gruppo diventava certamente perdente. Era forse una lettura piuttosto ideologica della pastorale giovanile. Dico ideologica sapendo di usare una parola impietosa e non corretta se viene riferita alle giuste riflessioni e necessità di chi si è fatto un serio progetto formativo, ha stabilito degli itinerari e punta su una consequenzialità di interventi educativi nella quotidianità, di capire più a fondo. L'atteggiamento ideologico non è però in chi progetta, ma in chi non s'accorge che lentamente questa nuova forma di convenire giovanile diventa capace di scrivere in maniera nuova e coinvolgente un cammino di fede, in chi fissa la fotografia del mondo giovanile come fanno spesso i quotidiani a dei pregiudizi immutabili, a delle precomprensioni che non si confrontano con la realtà, alla negazione di semplici sperimentazioni calibrate e capaci di rischiare oltre il consueto. Certo c'è ancora sempre da vincere la tentazione non mai scomparsa nella pastorale ordinaria di privilegiare incontri di massa al lavoro metodico, di buttarsi nel fare anziché nel formare, di privilegiare la fotografia alla realtà, di lasciarsi ingannare dalla rilevanza numerica e dall'intensità delle emozioni anziché puntare sulla qualità e la profondità. Tutto questo però non rende ragione di una pigrizia pastorale che non osa se non altro differenziare le proposte o creare spazi di complementarietà e di apertura che oggi è necessario sperimentare.
    Differenziare le proposte e creare spazi complementari: questi possono essere i due principi che guidano la nostra riflessione pastorale per uscire dalla quiete di un vecchio, classico, sicuro stare tra di noi a guardarci negli occhi, che fa tanto (!) bene a noi, ma che non incrocia minimamente le domande religiose e educative di tanti giovani. Non tutti i giovani possono fare le stesse cose e trovare risposte alla propria sete di vita nei percorsi classici della nostra quotidianità pastorale.
    Non siamo fatti con lo stampino. Ciò che un giovane ottiene con un camposcuola, un altro lo ottiene con un pellegrinaggio, un altro con una attività di volontariato. Ogni esperienza non esclude le altre, ma si collega nella comunità cristiana che vuol educare entro una progettualità ampia.

    PERCHÉ UN PELLEGRINAGGIO SIA ESPERIENZA DI EDUCAZIONE ALLA FEDE DEI GIOVANI 

    Se ci stiamo orientando a proporre come cammino formativo il pellegrinaggio è perché ne abbiamo esperimentato la valenza educativa. A Santiago, alla conclusione dell'anno Giacobeo nel 1993, molti giovani spagnoli hanno attraversato a piedi la Spagna, con i loro vescovi, a piedi, organizzando soste e momenti di ricupero delle forze, riflessioni e contemplazioni. Ricordo quanto mi diceva un vescovo, bruciato dal sole e zoppicante per la fatica, che aveva accompagnato i giovani lungo tutto il percorso: «È una esperienza di vero cammino spirituale. Molti sono studenti partiti per l'avventura, hanno vissuto il pellegrinaggio per un po' di tempo così, senza fede né ricerca, ma poi lentamente il cammino, la fatica, la compagnia li  hanno piegati alle domande essenziali della vita».
    La decisione di mettersi in cammino comporta l'accettazione dello status proprio del pellegrino. Possiamo individuare almeno quattro fasi che caratterizzano ogni pellegrinaggio. Ogni momento è carico di potenzialità per la crescita, per la verifica della vita, per gli stimoli che se ne possono ricevere. È un'esperienza che coinvolge tutta la persona e che può influire anche su tutta la vita e quindi determinarne lo sviluppo.
    Il pellegrinaggio non può ridursi all'esperienza di un momento o consumarsi nell'eccezionalità dell'evento. Essere pellegrini significa assumere atteggiamenti precisi di fronte a se stessi, agli altri e a Dio.

    La preparazione e la partenza

    È prima di tutto una decisione che parte dall'interno della persona anche se vi è approdata dopo sollecitazioni, curiosità, descrizioni di avventure, voglia di libertà, desiderio di rompere la monotonia. Ogni decisione umana nasce da tanti motivi, più o meno nobili, ma sempre da rispettare e prendere in considerazione perché sono energie necessarie per raggiungere lo scopo. Avranno bisogno di una purificazione come sempre, ma non di essere snobbate o sottovalutate. I motivi possono essere molti, l'importante è non partire come un pacco postale imballato e chiuso in se stesso. La preparazione concreta, fisica, data da ricerca di attrezzatura, disponibilità di denaro, orari e dialoghi immancabili con genitori, amici, gruppo del muretto, parenti... aiuta il giovane a rendere concretissima l'esperienza e a trovare motivazioni plausibili che lentamente diventeranno di fede, se c'è una buona organizzazione e corresponsabilizzazione per la partenza. La partenza è già un fatto positivo per i giovani, che sembrano molto aperti, ma che quando sono di fronte alla concretezza dell'avvenimento si sentono mancare la terra sotto i piedi; i quattro amici del bar o della piazzetta devono dar loro una sorta di ok e per averlo devono trovare motivazioni convincenti a quel livello di amicizia, di ragionamenti, di impostazione di vita. Per partire occorre poi anche spogliarsi, essere liberi e leggeri, non gravati da nulla, disponibili a mettersi in discussione e ricominciare. Lasciare le cuffie, la bella golf, la comodità della propria casetta non è per tutti un dato scontato e spesso costituisce una fasciatura che tarpa ogni tentativo di cambiamento di vita.
    Il pellegrinaggio presuppone che ciascuno si faccia povero e lasci le sue sicurezze. Da questa disponibilità nasce la capacità di ascolto, il desiderio di condividere, il bisogno di rinnovarsi. E Dio stesso, sebbene non sempre direttamente cercato, si fa vicino perché egli ama camminare con gli uomini, soprattutto con quelli che si interrogano sinceramente sui fatti della storia e ricercano la verità. sentire di aver bisogno dei fratelli.

    Il cammino e il viaggio

    Un cammino concreto invita ad approfondire il cammino e a verificare quanta e quale vitalità c'è nella vita del giovane. È un cammino che si realizza nel tempo e attraverso circostanze particolari, ma che trascende gli eventi per spalancare i grandi orizzonti della vita e le mete ultime dell'esistenza. Il pellegrinaggio ha sì una meta geografica e un tempo prefissato, ma il vero obiettivo è quello di far camminare verso la comprensione più profonda della vita e del progetto di Dio su di essa.
    Il viaggio può essere più o meno lungo. Il valore del cammino non si misura dai chilometri, ma dalla destabilizzazione di una vita comoda che provoca. La fatica della conquista è un elemento indispensabile alla riuscita del pellegrinaggio. Due persone possono andare nello stesso posto, supponiamo la cima di una montagna. Uno può arrivarci subito con la funivia, l'altro affronta la fatica del sentiero, impegna se stesso, sfida le durezze e le asperità del lungo tragitto. Entrambi arrivano alla cima, ma uno ha consumato un'esperienza come tante, l'altro che arriva sudando ha sperimentato se stesso e prova la gioia di aver conquistato la meta. L'uno resta spettatore, l'altro ha scritto il suo nome su quel sentiero e ha verificato se stesso in quel cammino. L'imprevisto, l'adattamento agli amici, alle nuove situazioni, alla variabilità di tanti elementi non calcolati alla perfezione, gli incontri casuali, le arrabbiature e le esplosioni di gioia, i risentimenti che provi quando ti senti costretto a misurarti con la debolezza o la forza degli altri, il dialogo che nasce improvviso, l'aiuto vicendevole fanno uscire da se stessi. In un mondo di figli unici, non c'è che camminare assieme per
    I pellegrinaggi religiosi testimoniano in modo particolare quanto sia necessario all'uomo camminare sulle strade del mondo e lungo i sentieri della storia per arrivare al cuore della vita e per accogliere quel Regno dei Cieli che Gesù indicava come la meta ultima di ogni ricerca umana: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6, 33). Il pellegrinaggio è sempre legato alla ricerca di senso e della verità, al desiderio di beni spirituali, al bisogno di cambiamento e di conversione.

    L'arrivo alla meta

    In genere si tratta di un Santuario, di un luogo antico, carico di tradizione, di storia, di simboli, di usanze. È un ambiente fuori dal normale, con una sua atmosfera, spesso una figura di santo che ha dato vita a una spiritualità. Assisi, Loreto, Czestochowa, Santiago, Roma, la tomba di un martire, il luogo di una apparizione, sono tutti luoghi che hanno un loro insegnamento e una loro proposta di cammino di fede. Ancora prima di essere il segno di un fatto meraviglioso, sono il concentrato di un cammino di fede vissuto nell'apparizione, o nella vita del santo, o nella tradizione popolare che vi si è sviluppata. Con le giornate mondiali della gioventù la meta ha assunto nuovi significati: a Denver e a Manila la meta, il punto di arrivo non era un Santuario nel senso tradizionale, un luogo dove far memoria della presenza del divino, ma lo spazio in cui si poteva partecipare ad un incontro profetico di giovani che vogliono fare della loro vita e dell'esperienza ecclesiale un santuario ? ivente. Il clima di preghiera e di festa, lo spirito di condivisione e di fratellanza rendono presente il Signore e si può sperimentare assieme che egli è venuto perché tutti coloro che lo cercano con cuore sincero «abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10), e sentano il mandato: «Come il Padre ha mandato me, così anch'io mando voi» (Gv 20, 21). A Denver il vero santuario era l'uomo con i suoi problemi e le sue aspettative per il futuro, quell'uomo che è la prima via sulla quale la Chiesa cammina incontro al Signore risorto. A Manila il santuario era un popolo chiamato a diffondere il vangelo nell'Asia. «Voi siete il mio popolo e io sarò il vostro Dio».
    La meta non è il luogo dello sfascio e della caduta di tensione, del consumismo e dello shopping, ma il luogo della conversione celebrata con tutti, della lode e della contemplazione, della riflessione e del confronto con la fede di chi ci ha preceduto. Tutto questo lo si deve celebrare con i gesti sacramentali: al centro la celebrazione eucaristica, preceduta dalla celebrazione penitenziale, la preghiera e veglia personale, l'ascolto della Parola, il digiuno, il silenzio, lo scambio di riflessioni e meditazioni.

    Il ritorno alla vita quotidiana

    Il ritorno è spesso la fase più delicata. Nel ritorno la fase del racconto è la più entusiasmante e forse quella meno preparata. Il racconto è un canto di fede, è la comunicazione della gioia, è l'annuncio di una salvezza. Molti si entusiasmano, ma poi a contatto con la vecchia realtà si lasciano assorbire. In ogni momento di preparazione occorre pensare che il pellegrinaggio cambia la vita. Anche tornando nei luoghi e alle cose di sempre non si sarà più gli stessi. Si porta con sé un rinnovato entusiasmo, una fede più profonda, il desiderio di testimoniare la gioia sperimentata, la disponibilità a spendere con coraggio la vita per annunciare a tutti il vangelo. Si deve avere sempre la certezza che il Signore darà il centuplo a chi accetta di seguirlo confidando solo nella sua parola: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19, 29). 
    Il pellegrinaggio ha messo a nudo la nostra condizione di vita, ci ha spogliato delle certezze effimere, ci ha spinto ad ascoltare la voce profonda del cuore che cerca Dio. È il segno della fede di chi cerca per trovare una risposta ai suoi interrogativi e di chi una volta trovata la risposta si sente coinvolto in un cammino che lo apre alla speranza delle realtà eterne. Il pellegrinaggio della fede conduce sempre all'incontro di Colui che è la via, la verità e la vita, anche se non sempre è facile riconoscerlo. Come con i discepoli di Emmaus il Signore si è affiancato lungo il cammino spiegando le scritture.

    NOTE PASTORALI CONCRETE

    Accanto ai principi ideali non guasta ricordarsi brevemente alcune annotazioni pratiche che aiutano a tradurre le idee in esperienza.

    La preparazione.

    Il pellegrinaggio non può essere raffazzonato all'ultimo momento, ma va progettato sia nei contenuti educativi, sia negli strumenti, sia nella responsabilizzazione delle persone. Essendo un'opera che esige molte competenze, permette di coinvolgere nella pastorale giovanile anche il mondo adulto, con competenze specifiche, con ruoli diversificati, con operatori già presenti e altri da inventare. Nessuno si deve sentire solo organizzatore di cose pratiche e solo tappabuchi, ma tutti devono godere della luce di un obiettivo educativo che ci si prefigge.

    Le figure chiave.

    Se in un campo scuola ci sono gli animatori, anche qui occorre avere persone preparate che accompagnano. La prima esperienza di animazione della strada forse parte molto meglio da un cammino che dalla sosta sul muretto, quasi a dire che la prima lezione di un corso per animatori di strada è la partecipazione a un pellegrinaggio. Il presbitero, l'educatore, l'adulto testimone, la guida biblica e liturgica, il conduttore che dà unità a tutta l'esperienza, il giullare, il testimone sono figure chiave. Il luogo e il modello da vivere.
    Quando la meta è un santuario occorre avere il massimo di conoscenza del luogo in tutte le sue potenzialità spirituali, culturali, storiche, di religione popolare, di tradizione. Se il luogo è imperniato su un personaggio, occorre avere sempre molto chiara davanti agli occhi la sua vita, il suo insegnamento e fare in modo che l'esperienza del pellegrinaggio porti a una profonda conoscenza della sua spiritualità, delle domande che la sua vita poneva a Cristo e delle risposte che ne ha trovato. È una operazione non devozionistica, ma culturale, capace anche di far superare il gap tra la proposta del santo e l'eventuale non visibilità della sequela nei suoi seguaci. Un libretto guida brillante, che costringe a riflettere e a verificare sui luoghi direttamente quanto viene proposto, è assolutamente necessario.

    Lo stile conviviale.

    Il clima del pellegrinaggio, proprio perché si sviluppa in un cammino, è un clima di grande condivisione tra tutti. La gerarchizzazione dei ruoli deve essere ridotta al minimo. Si è tutti in un cammino di conversione; non ci sono routinieri soffocati dal déjà vu e ingenui che si lasciano trascinare, ma tutti in cordata per ricercare e convertirsi. A questo si giunge anche attraverso uno stile di sobrietà nel consumo e in una solidarietà dichiarata e sperimentata. Molti gruppi di giovani si portano in pellegrinaggio
    altri giovani per i quali ciascuno ha messo a disposizione o denaro o collaborazione effettiva per superare le difficoltà di partecipazione. Lo stile porta anche a una intransigente trasparenza nelle operazioni economiche.

    Proposte forti.

    La consapevolezza che i giovani che partecipano hanno alle spalle una serie di costi personali di impegno e di distacco deve responsabilizzare gli educatori a chiedere molto, a proporre esperienze forti di spiritualità, di condivisione, di preghiera, di silenzio, di dialogo. Se si riducesse a una gita scolastica frustreremmo attese e preparazione, sogni e ricerche di cambiamento da lungo desiderati. Sacrificio e fatica sono il pane quotidiano di un pellegrinaggio, purché siano sempre motivati e sostenuti con convinzione. Sono proposte forti anche la collocazione nel pellegrinaggio dell'ascolto di testimoni sia del luogo, ma soprattutto di esperienze di vita che i giovani vivono nella loro quotidianità. Il pellegrinaggio non deve essere visto come una esperienza fuori dalla loro storia, ma un punto di vista privilegiato per illuminarla.

    Clima di tensione spirituale.

    Il livello tra i giovani deve essere sempre spiritualmente in tensione, e questo lo si raggiunge anche attraverso una contemporanea compresenza di un massimo di comunicazione tra le persone e un massimo di raccoglimento. Per i giovani comunicare è come pensare, approfondire, far proprio, far risuonare, apprezzare, accogliere, proporre, decidere, pregare e donare. È una esperienza globale. Lo stare a lungo a parlare non è sempre divagazione, se si aiutano a comunicare in profondità. A questo servono sicuramente i momenti di scambio di gruppo e di coppia. Il raccoglimento è fatto anche di silenzio, ma soprattutto di orientamento delle varie espressioni della vita al Signore della vita, intenzionalmente e spontaneamente. Sostegno a decisioni personali da prendere.
    Entro tale clima si promuove un grande rispetto di alcuni momenti di «solitudine». Uso questa parola in termini positivi, pensando a quello spazio che ogni giovane deve vivere con se stesso e con la sua coscienza, dove si trova solo con se stesso e con Dio a decidere di donarsi agli altri. Non è isolamento, ma decidere dentro di sé in favore dell'umanità.

    Gestione sobria e progettuale di esperienze simboliche.

    Il cammino, i luoghi, i fatti evocati, le tradizioni permettono di utilizzare nelle preghiere e nelle celebrazioni molti segni e simboli. Sono la ricchezza delle esperienze di fede della tradizione. L'uso è facilitato dai significati veicolati dal clima e dall'ambiente. Occorre sobrietà per non innescare consumismo di simboli e ingenerare pratiche magiche. Anche nel massimo dell'emotività il giovane ha sempre profonde esigenze di razionalità, che vanno chiamate in causa sia per favorire un atto di fede umanamente sensato e intellettualmente onesto, sia per rispettare la sua ricerca che non deve essere cortocircuitata in esperienze che alla lunga saranno lette come plagio o debolezza o infatuazione.

    Raccordo con il territorio.

    Alcune mete di pellegrinaggio si prestano particolarmente a intavolare dialoghi, a scambiare esperienze con le situazioni locali, con i giovani del posto o soprattutto con quelli che si incontrano lungo il cammino È esperienza di grande rilievo per la formazione di una capacità critica e propositiva dei giovani. Qui si può spaziare da contatti informali a incontri ufficiali con autorità del luogo, sia politiche sia religiose, con realtà culturali, sociali ed economiche. Il pellegrinaggio è un viaggio nella vita, non uno spostamento di un gruppo nel suo bus. Il pellegrinaggio a piedi per questo offre molti vantaggi e rende obbligatorio il dialogo con coloro che si incontrano lungo il cammino.

    Mandato per la vita quotidiana.

    Ogni pellegrinaggio che si rispetti deve concludere con una missione. È nata sicuramente qualche decisione, ci si è rifatti interiormente un riassunto della propria vita, si sono rivisti nella coscienza i luoghi della vita quotidiana e dentro questo occorre provare a situarsi in maniera nuova.
    La spinta te la può dare una decisione interiore, ma anche un invito esplicito, una decisione presa in due o in un gruppetto di amici.


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    p a g i n A


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