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    L'immagine della morte nel XX secolo


    (NPG 1995-02-51)


    Ancora nel primo Novecento in tutto l'Occidente di cultura latina, cattolica o protestante, la morte di un uomo modificava solennemente lo spazio e il tempo di un gruppo sociale che poteva estendersi all'intera comunità, al villaggio. Si chiudevano le imposte della camera dell'agonizzante, si accendevano i ceri, si metteva in vista dell'acqua benedetta; la casa si riempiva di vicini, di parenti, di amici che sussurravano con gravità. Il rintocco a morto suonava nella chiesa di dove usciva la piccola processione che portava il viatico.
    Dopo la morte un avviso a lutto veniva affisso alla porta. Dall'uscio accostato, la sola apertura della casa che non fosse stata chiusa completamente, entravano tutti coloro che l'amicizia o le convenienze obbligavano a un'ultima visita. Il servizio in chiesa riuniva tutta la comunità, compresi i ritardatari che aspettavano la fine della funzione per presentarsi, e dopo la lunga sfilata delle condoglianze, un lento corteo salutato dai passanti accompagnava la bara al cimitero. E le cose non si fermavano qui. Il periodo di lutto era denso di visite: visite della famiglia al cimitero, visite di parenti e amici alla famiglia... Poi, un po' alla volta, la vita riprendeva il suo corso normale, e restavano solo le visite distanziate al cimitero. Il gruppo sociale era stato colpito dalla morte, e aveva reagito collettivamente, cominciando dai familiari più accosti ed arrivando fino al più ampio cerchio delle relazioni e delle clientele.
    Non solo ognuno moriva in pubblico, ma la morte di ognuno era un avvenimento pubblico che commoveva, nei due significati della parola, etimologico e derivato, la società tutta intera: non era solo un individuo che spariva, ma la società che era ferita e la ferita doveva cicatrizzarsi.
    Tutti i mutamenti che nel corso di un millennio hanno modificato gli atteggiamenti davanti alla morte non hanno alterato quest'immagine fondamentale, né il rapporto permanente fra la morte e la società: la morte è sempre stata un fatto sociale e pubblico. Tale resta ancora oggi in vaste aree dell'Occidente latino e non è sicuro che questo modello tradizionale sia condannato a scomparire. Ma non ha più il carattere di assoluta generalità che gli era stato proprio, indipendentemente dalla religione e dalla cultura.
    Una maniera del tutto nuova di morire è comparsa nel corso del secolo XX in alcune fra le regioni più industrializzate, più urbanizzate, più tecnicamente avanzate del mondo occidentale - e senza dubbio siamo ancora agl'inizi.
    Due tratti saltano agli occhi del meno attento degli osservatori: la sua novità, certo, il suo contrasto con tutto ciò che era prima, di cui costituisce l'immagine rovesciata, il negativo: la società ha espulso la morte, eccetto quella degli uomini di Stato. Niente più nella città avverte che qualcosa è accaduto: il vecchio carro funebre nero e argento è diventato una banale automobile grigia che si perde nel flusso della circolazione.
    La società non segna nessuna pausa: la scomparsa di un individuo non intacca più la sua continuità. In città tutto si svolge come se nessuno più morisse.
    Il secondo carattere non è meno sorprendente. Certo, la morte in un millennio è cambiata, ma con che lentezza! I piccoli mutamenti, distribuiti in parecchie generazioni, erano così lenti che i contemporanei non li percepivano. Oggi si è verificato, o sembra essersi verificato, in una generazione, un completo rovesciamento dei costumi. Quando ero giovane le donne in lutto sparivano sotto il crespo e i grandi veli neri. Nella borghesia i bambini piccini che avevano perduto la nonna vestivano di viola.
    E oggi...
    La rapidità e la brutalità del mutamento lo hanno reso cosciente. I fenomeni che le memorie del passato non coglievano sono divenuti a un tratto noti e discussi, oggetto d'inchieste sociologiche, di trasmissioni televisive, di discussioni mediche e giudiziarie. Cacciata dalla società, la morte rientra per la finestra e torna con la stessa rapidità con cui è scomparsa. Mutamento rapido o brutale, questo è certo; ma è poi così recente come pare al giornalista, al sociologo, a noi stessi, abbagliati dall'accelerazione del tempo?

    L'inizio della menzogna

    Dalla seconda metà dell'Ottocento qualcosa di essenziale è cambiato, e il modello che e venuto dopo, il nostro, che abbiamo chiamato, la morte capovolta, non rimette in discussione la tendenza profonda e il carattere strutturale dei mutamenti dell'Ottocento. Li continua, anche se sembra contraddirli nei suoi effetti più spettacolari. Tutto si svolge come se, al di là di una certa soglia di crescita, le tendenze dell'Ottocento avessero provocato dei fenomeni invertiti.
    lt modello della morte, oggi, resta definito dal sentimento di privacy, ma divenuto più rigoroso, più esigente. Tuttavia si dice spesso che va cedendo.
    È un fatto che gli si chiede la perfezione dell'assoluto e che non si tollera nessuno dei compromessi ancora accettati dalla società romantica sotto la sua retorica - o, per parlare il linguaggio di oggi, sotto la sua «ipocrísia». La fiducia tra gli esseri dev'essere totale o nulla. Non si ammettono più vie di mezzo tra il successo e ii fallimento. È possibile che l'atteggiamento davanti alla vita sia dominato dalla certezza del fallimento. In compenso l'atteggiamento davanti alla morte si determina nell'ipotesi impossibile del successo. Perciò non ha più senso.
    Esso si situa dunque nel prolungamento dell'affettività del secolo XIX. L'ultimo ritrovato di questa affettività inventiva è consistito nel proteggere il moribondo o il malato grave contro le sue proprie emozioni nascondendogli fino in fondo la gravità del suo stato. Il moribondo, dal canto suo, quando indovinava il pio giuoco, rispondeva con la sua complicità, per non deludere la premura degli altri. Le relazioni intorno al moribondo erano da quel momento determinate dal rispetto di questa menzogna dettata dall'amore. Perché il moribondo, coloro che lo circondavano e la società che li sorvegliava acconsentissero a questa situazione, bisognava che il beneficio della protezione del moribondo risultasse più importante delle gioie dell'ultima comunione con lui. Non dobbiamo dimenticare, in effetti, che nell'Ottocento, grazie alla sua bellezza, la morte era diventata l'occasione dell'unione più completa tra colui che partiva e quelli che restavano: l'ultima comunione con Dio e - o - con gli altri era il grande privilegio del moribondo. Per un pezzo neanche si pensò a privarlo di un tale privilegio. Ora, la protezione attraverso la menzogna - quando essa era mantenuta fino in fondo - sopprimeva una tale comunione e le sue gioie. La menzogna, anche reciproca e complice, privava della libertà e del pathos le comunicazioni dell'ora estrema.
    In verità l'intimità di queste ultime comunicazioni era già avvelenata dalle brutture della malattia, e poi dal trasferimento all'ospedale. La morte divenne sporca, e in seguito entrò nell'orbita della medicina. L'orrore e il fascino della morte si erano fissati per un momento sulla morte solo apparente, poi furono sublimati dalla bellezza dell'ultima comunione. Ma tornò l'orrore, senza il fascino, sotto la forma disgustosa della malattia grave e delle cure che questa richiedeva.
    La medicina così avrebbe potuto prendere il posto della comunità: chiuse la morte in un laboratorio scientifico, all'ospedale, di dove le emozioni dovevano essere bandite. In queste condizioni meglio valeva intendersi in silenzio nella complicità di una menzogna reciproca. Si capisce dunque bene che il senso dell'individuo e della sua identità, quello che s'intende oggi quando si parla della nostra morte come di qualcosa che ci appartiene, sia stato vinto dalla sollecitudine familiare. Ma come sì spiega la rinuncia della comunità? Più ancora, com'è arrivata ad arrovesciare la propria funzione e a interdire il lutto che, fino al secolo XX, aveva la missione di far rispettare? È un fatto che si sentiva sempre meno coinvolta nella morte di uno dei suoi membri. In primo luogo perché non riteneva più necessario difendersi da una natura selvaggia ormai soppressa, umanizzata una volta per tutte dal progresso delle tecniche, in particolare della medicina. Poi non aveva più un sufficiente senso di solidarietà: aveva infatti abbandonato la responsabilità e l'iniziativa dell'organizzazione della vita collettiva; nel senso antico del termine, non esisteva più, sostituita da un immenso agglomerato di individui atomizzati.
    Ma, di nuovo, se questa sparizione spiega una rinuncia, non spiega il ritorno in forza di altri interdetti. Quest'agglomerato massiccio e informe che oggi chiamiamo la società è, lo sappiamo bene, mantenuto e animato da un sistema nuovo di costrizioni e dì sorveglianze; è, inoltre, percorso da correnti cui non si può opporre resistenza, che lo mettono in stato di crisi e gli impongono un'unità passeggera di aggressività o di rifiuto. Una di queste correnti ha fatto insorgere la società di massa contro la morte. Più precisamente, l'ha tratta a provar vergogna della morte, più vergogna che orrore, a fare come se la morte non esistesse. Se il senso dell'altro, una forma del senso dell'individuo, spinto fino alle estreme conseguenze è la prima causa della situazione attuale della morte, la vergogna - e l'interdetto che porta con sé - è la seconda causa.
    Ora, questa vergogna è la conseguenza diretta del fatto che il male ha battuto definitivamente in ritirata.
    Dal Settecento si era cominciato a corrodere il potere del Maligno, a contestare la sua realtà. L'inferno era stato messo da parte, almeno per quanto riguardava i parenti e gli amici cari, le sole persone che contassero. Con l'inferno sparirono il peccato e tutte le varie forme di male spirituale e morale: non si consideravano più come dati del vecchio uomo, ma come errori della società che un buon sistema di sorveglianza (e di punizione) avrebbe eliminato. Il progresso generale della scienza, della moralità e dell'organizzazione avrebbe guidato molto dolcemente alla felicità. Tuttavia restava ancora, in pieno Ottocento, l'ostacolo del male fisico e della morte. Non c'era neppure da pensare di eliminarlo. I romantici lo aggirarono o piuttosto lo assimilarono. Essi hanno abbellito la morte, porta di un aldilà antropomorfico. Hanno conservato la coesistenza, che data da tempo immemorabile, con la malattia, la sofferenza e l'agonia: risvegliavano la pietà e non la ripugnanza: prima che si fosse pensato al potere di abolire il male fisico si è cominciato a non tollerare più la sua vista, i suoi rantoli, i suoi odori.
    Allora la medicina ha diminuito la sofferenza; è arrivata anche a sopprimerla completamente. Il fine intravisto nel Settecento era quasi raggiunto. Il male la finiva di appiccicarsi all'uomo, di confondersi con lui, come credevano le religioni e in particolare il cristianesimo. Certo, esisteva ancora, ma fuori dell'uomo, negli spazi marginali che la moralità e la politica non avevano ancora colonizzato, in deviazioni che non avevano ancora raddrizzato: guerre, delitti, difformità, che un giorno sarebbero state eliminate dalla società, come la malattia e la sofferenza erano state eliminate dalla medicina.
    Ma allora, se il male non c'è più, che fare della morte? A questa domanda la società propone oggi due risposte, banale l'una, aristocratica l'altra.
    La prima è una massiccia confessione d'impotenza: non ammettere l'esistenza di uno scandalo che non si è potuto impedire, fare come se non esistesse, e quindi costringere senza pietà le persone accoste ai morti a tacere. Un pesante silenzio si è così venuto a distendere sulla morte. Quando s'interrompe è per ridurre la morte all'insignificanza di un avvenimento qualunque di cui si parla con ostentata indifferenza. Nei due casi il risultato è il medesimo: né l'individuo né la comunità hanno abbastanza consistenza per conoscere la morte.
    Tuttavia quest'atteggiamento non ha annientato né la morte né la paura della morte. Al contrario, ha lasciato che tornassero subdolamente i vecchi elementi selvaggi, sotto la maschera della tecnica della medicina. La morte all'ospedale, irta di tubi, sta diventando oggi un'immagine popolare più terrificante del cadavere in decomposizione o dello scheletro delle retoriche macabre. È un fatto che tra «l'evacuazione» della morte, ultimo rifugio del Male, e la ricomparsa di questa medesima morte tornata allo stato selvaggio si nota una correlazione. A questo punto il suo ritorno non ci sorprenderà: la credenza nel Male era necessaria per addomesticare la morte. La soppressione dell'una ci ha restituito l'altro allo stato selvaggio.
    Perciò una piccola élite di antropologi, più psicologi o sociologi che medici o preti, è stata colpita da questa contraddizione. Essi, per usare le loro parole, si propongono meno di «evacuare» la morte che di «umanizzarla». Vogliono mantenere una morte necessaria, ma, in tal caso, accettata e non più vergognosa. Anche se ricorrono all'esperienza delle antiche saggezze, non si può neppur parlare di tornare indietro, di ritrovare il Male abolito una volta per tutte. Ci si propone sempre di riconciliare la morte con la felicità. La morte deve solo trasformarsi nell'uscita discreta ma dignitosa di un tranquillo vivente da una società soccorrevole; una società non più straziata, né troppo sconvolta, dall'idea di un trapasso biologico privo di significato, di pena, di sofferenza, e infine di angoscia.

    (da Philippe Ariès, L'uomo e la morte dal Medioevo a oggi, pp. 659-661; 727-731)


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